Alessandro LozziGli stralci dei documenti, tutti pubblici ed ufficiali, che riportiamo qui accanto, testimoniano l’aspetto soggettivo, cioè l’intenzione volontaria e determinata di alcuni magistrati tesa a inquinare l’amministrazione della giustizia con l’ideologismo della politica, anzi l’esistenza di un preciso disegno, in tal senso, che parte da lontano.
Ma c’è anche un altro aspetto, quello oggettivo, fino ad oggi trascurato, che si realizza indipendentemente dalla volontà dei partecipi e che ha origine nel fenomeno associativo dei magistrati.
L’argomento è tabù ed il trattarlo probabilmente farà scandalo, ma proviamo a svilupparlo ugualmente; ad un laico può mancare tutto, ma certo non il coraggio delle proprie idee. Il potere che la Costituzione e la legge attribuiscono al magistrato - ad ogni singolo magistrato - è enorme e senza uguali. Basti dire che ogni cittadino in esecuzione di un provvedimento di un magistrato – di un singolo magistrato - può essere interdetto o inabilitato, può essere spossessato dei propri beni, può essere privato della propria libertà personale. Proprio perché enorme e senza eguali, questo potere si esercita prevalentemente in via individuale e ciò a differenza del potere politico che, viceversa, si caratterizza per l’esercizio in forma associata.
La mia teoria è che il condensarsi di questi poteri individuali in una sola associazione esprima una forza eccessiva.
Durkheim, che ha ben spiegato questo fenomeno, lo ha assimilato a una sorta di sintesi chimica, sostenendo che l’interazione che si viene a creare tra i componenti di una comunità eccede di gran lunga la semplice sommatoria dei medesimi.
Detta forza - anche indipendentemente dalle volontà dei singoli partecipi - è oggettivamente smisurata e pone in squilibrio permanente il delicato rapporto che esiste tra i poteri dello Stato.
L’associazione di categoria dei magistrati costituisce, cioè, un potere improprio, non codificato né limitato, per il quale non esiste (né potrebbe esistere) alcun contropotere.
Giuseppe Gennaro, già presidente dell’associazione nazionale magistrati, che dichiara: “Noi abbiamo forte il senso della nostra istituzione e non intendiamo assolutamente fare politica” sembra non accorgersi che il sito internet dell’associazione riporta posizioni ufficiali tutte dedicate a temi politici attualità. Alcuni esempi? La censura su una mozione approvata dal Senato, quella relativa alla legge sulle rogatorie deliberata dall’intero Parlamento, il documento sull’inaugurazione dell’anno giudiziario (Borrelli docet) e – perfino - una mozione critica sulla legge finanziaria. Ciò avviene in quanto l’associazione nazionale magistrati, che dovrebbe essere semplicemente un sindacato di categoria, è geneticamente strutturata su correnti ideologiche e, dunque, altro non è che una sorta di federazione di potentati che si fronteggiano al loro intero e che fanno scudo comune all’esterno.
In tale contesto, l’unità elementare non è il singolo magistrato, con la sua capacità ed i suoi limiti, ma la corrente cui appartiene e che lo protegge.
Questa degenerazione, che si è automaticamente riprodotta anche nel CSM, trasformato ormai in organo di rappresentanza non dei singoli ma delle correnti, fa sì che ogni azione, sia essa di tutela o di censura nei confronti del singolo magistrato, è divenuta materia negoziale fra gruppi (le correnti appunto) e quindi, necessariamente, non atto sindacale di categoria, ma atto politico di parte.
Ed è anche per questo che l’associazione andrebbe sciolta.
Voglio prevenire le critiche: abolire l’associazione dei magistrati, a mio avviso, non confligge con il principio, sacrosanto ancor prima che costituzionale, del diritto di associazione.
Chi, in buona fede, si sentirebbe di ammettere la compatibilità costituzionale di una associazione nazionale formata da militari di carriera e con diritto di ingerenza sugli interventi armati che interessano il nostro esercito? Oppure un’associazione di categoria tra agenti dei servizi segreti, con competenza ad intervenire sulla normativa che riguarda i diritti individuali dei cittadini? Ovviamente nessuno, perché a tutti è chiaro l’eccesso di potere che un ente di tal fatta assommerebbe in sè.
Non è quindi un caso che il titolo IV della Costituzione - cioè quello relativo all’ordine giudiziario - preveda tutta una serie di prerogative e garanzie a favore della libertà, indipendenza e autonomia dei magistrati, ma non contempli alcuna ipotesi associativa.
Un grande studioso come Paladin, (poi divenuto presidente della Corte Costituzionale) scriveva: “La diversità di regime e di natura delle rispettive funzioni impedisce di considerare quello giudiziario un centro di potere alla stessa stregua dei poteri legislativo ed esecutivo: non è dato infatti ragionare di un indirizzo politico della magistratura complessivamente intesa”.
L’Italia di oggi non è più quella in cui scriveva Paladin.
Ed il senso della misura non è più dell’ordine giudiziario.
Cos’è infatti, oggi, l’associazione nazionale magistrati se non proprio lo strumento con cui la magistratura, complessivamente intesa, esprime il proprio indirizzo politico?
E sia ben chiaro che il venir meno dell’associazionismo tra magistrati nulla toglierebbe alle tanto conclamate indipendenza ed autonomia della magistratura stessa. L’autonomia, (che è riferita all’ordine giudiziario) e l’indipendenza (che è riferita al singolo giudice) sono un bene ed una garanzia per tutti i cittadini prima che per i magistrati. Ma è proprio per questo che indipendenza e autonomia devono trovare tutela e soddisfazione nel Consiglio Superiore della Magistratura, cioè in organo costituzionalmente previsto e disciplinato, anziché in una associazione di carattere privatistico-corporativo dominata da correnti e raggruppamenti ideologicamente orientati.
Bene ha fatto quindi il governo a prevedere una riforma del sistema elettorale del CSM in senso uninominale, con l’obiettivo di allentare la presa delle correnti sul consiglio, poiché è bene che il magistrato sia autonomo ed indipendente da ogni vincolo e da ogni potere, anche da quello strisciante e gesuitico, e per questo più pericoloso, rappresentato dalla soggezione e dal condizionamento che sul singolo può esercitare la propria corporazione.
Non si ripete mai abbastanza che l’indipendenza del magistrato non è un fine bensì un mezzo per garantire la soggezione di questo alla legge.
Se non si ha chiaro questo punto, se si confonde cioè il mezzo con il fine, come purtroppo è accaduto in questi ultimi anni in Italia, si trasforma il compito del magistrato in una sorta di impegno mistico teso non ad applicare la legge, ma a combattere per il Bene.
Nello stato di diritto, che è quello in cui vogliamo vivere, il magistrato non combatte per lo scopo ma applica la legge voluta dalla rappresentanza popolare, che è appunto il fine.
Il ruolo del magistrato oggi in Italia è ipertrofico non solo a causa del potere corporativo che lo esprime, ma anche per la sovraesposizione mediatica cui è soggetto, prodromica di una celebrità individuale che si finalizza in una carriera personale troppo spesso di natura politico-elettorale.
Ai molti – troppi - magistrati che si eccitano al lugubre tintinnio delle manette, che rilasciano compiaciute interviste televisive all’inaugurazione della Scala, che non avvertono come sia grottesco farsi ritrarre a cavallo in riviste patinate più adatte a subrettine da avanspettacolo, dedichiamo un pensiero di Leonardo Sciascia, un italiano che come pochi seppe far onore al genere umano: “I giudici che hanno un potere delegato dal popolo debbono soffrire il loro potere invece di gustarlo”.
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