Vittorio LussanaA 40 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, è ormai giunto il momento di chiarire definitivamente tutti i retroscena che hanno condotto all'efferato delitto avvenuto presso l'idroscalo di Ostia nella notte del 2 novembre 1975. Cominciamo dunque con l'affermare che Pier Paolo Pasolini era un intellettuale eclettico, ideatore di un decadentismo di sinistra intriso di spiritualità, di sincera e profonda religiosità cristiana. Oggi è facile rievocarlo con accenti di autentica indignazione civile. Ma negli anni della grande trasformazione italiana, egli fu osteggiato, diffamato, accusato di essere un corruttore dei giovani. I moderati disprezzavano l'intellettuale, oltre all'omosessuale; le sinistre non compresero mai del tutto una riflessione tanto ardita quanto eretica, senza trascurare il giudizio su una moralità considerata non proprio irreprensibile. Naturalmente, quel 'Palazzo' che tanto indignava il poeta friulano, nelle sue varie diramazioni politiche, economiche, finanziarie e militari non ha mai digerito le invettive e gli attacchi portati da Pasolini alla morale comune e all'ipocrisia italiana. Pasolini aveva molti nemici. E pochissimi amici. Oltre ai suoi 'ragazzi di vita', egli frequentava soltanto l'attrice e cantante Laura Betti, lo scrittore Alberto Moravia, la famiglia Bertolucci e lo sceneggiatore Vincenzo Cerami. Forse, era semplicemente un uomo d'altri tempi. E questo suo naturale temperamento lo condusse a sostenere dispute sempre più aspre con colleghi, intellettuali e giornalisti. Certamente, il 'Corriere della Sera' di quegli anni ebbe l'acume di ospitare i suoi articoli più provocatori, attirando quei lettori dell'alta borghesia attratti dalla carica trasgressiva di un anticonformista. Ma era soprattutto lo scandalo incarnato da Pasolini stesso a suscitare discussioni, più che i contenuti delle sue opere. Rileggendolo a distanza di anni, si ravvisa facilmente l'ossessione per un'ineluttabile deriva narcisista e piccolo-borghese della società italiana, denunciata in completa solitudine. Il suo giudizio di "nuovo fascismo" era teso a sottolineare risvolti e contraddizioni dalla precisa discendenza autoritaria, pur nel suo permissivismo sostanziale, nel suo apparente benessere, nelle sue ipocrisie edoniste, funzionali a dissimulare una mentalità omologativa, tutta impegnata a 'schermare' e a nascondere una concezione selvaggia dell'economia e del mercato, all'interno di una distinzione - posta quasi ai confini del crocianesimo eterodosso - tra uno sviluppo anarchico e disordinato e un effettivo progresso antropologico, civile e culturale, della fragile democrazia italiana. In diverse e memorabili pagine, Pasolini ha irriso il grigiore e la sterilità, morale e valoriale, dei vecchi notabili democristiani, ritenendoli, a ragione, una sorta di residuo del passato. Infatti, solo nominalmente la Dc governava il Paese, poiché in realtà i destini degli italiani sono sempre stati nelle mani delle multinazionali, delle corporazioni, delle concentrazioni finanziarie, delle grandi imprese che, premeditatamente, impediscono ogni possibilità di 'fare', di creare nuove aziende, di proporre nuovi soggetti economici, o innovativi prodotti sui mercati, anche grazie a un mondo dell'informazione trasformato in un vero e proprio accampamento lottizzato di inetti raccomandati dai Partiti, o dai figli di quelle famiglie borghesi che si sono ritagliate uno spazio in un ambito, quello editoriale, che ha sempre abdicato al proprio ruolo civile di 'controllo' del potere. Munito di grandi intuizioni, Pasolini non trascurava l'apporto sociologico delle scienze umane, affrontando anche gli aspetti più deleteri della convulsa trasformazione avvenuta in Italia nel corso degli anni '60 del secolo scorso. Lo fece sul piano antropologico, piuttosto che su quello meramente economico. La mentalità appropriativa, edonista e consumista, stava distruggendo tradizioni e linguaggi che facevano parte del patrimonio valoriale più profondo del Paese, per mezzo della penetrante azione della pubblicità e dei mass media. Quel che ormai contava maggiormente, soprattutto per le generazioni più giovani, era l'appropriazione di merci sempre più superflue: il trionfo dei beni 'voluttuari'. Da acuto osservatore del mondo giovanile, Pasolini soffriva per questa perdita di innocenza da parte della gioventù italiana, ormai suggestionata dal denaro e da abitudini forsennatamente consumistiche, oltre che pericolosamente autodistruttive. Tutto ciò non poteva che condurre a una violenza gratuita, senza limiti. E quando si verificarono i ripugnanti fatti del Circeo, in cui alcuni giovani vennero coinvolti in un turbine di violenza, torture e sesso, le sue più pessimistiche previsioni sembrarono materializzarsi. Proprio in quel periodo, violenza, delinquenza e teppismo di strada iniziarono a confondersi, coinvolgendo un gran numero di ragazzi. La distruzione sistematica operata dalla nuova cultura consumista non solo faceva 'piazza pulita' delle nostre tradizioni più autentiche e peculiari, ma si accompagnava a una mostruosa omologazione della mentalità di massa, che trasformava i cittadini in consumatori avidi e bisognosi. A causa di tutto questo, venne giudicato 'arcaico' da molti, "un nostalgico di sinistra", per dirla con le parole dell'amico Alberto Moravia. In merito al suo assassinio, personalmente sono sempre stato del parere che esso sia stato pianificato e premeditato con una ferocia e una brutalità che ha avuto ben pochi precedenti nella storia criminale italiana. E che, per congegnare un delitto del genere, il movente non sia stato affatto casuale. Il poeta friulano stava lavorando a un romanzo che avrebbe riassunto il significato della sua intera opera di ricostruzione intellettuale, intitolata: 'Petrolio'. Questo lavoro conteneva - e contiene - le consuete tematiche scandalose a lui più care, ma possiede anche precisi riferimenti a quei 'poteri forti' che hanno letteralmente devastato l'Italia: forze invisibili che hanno profondamente mutato il paesaggio fisico, morale e culturale della società. Convinzioni che, come confermatomi personalmente da Ninetto Davoli nel corso di un assolato pomeriggio domenicale trascorso insieme tra le colline degli Appennini laziali nell'estate del 2004, si sono "regolarmente materializzate". Pasolini non era interessato a formulare accuse generiche e semplicistiche contro impersonali macchine criminali del potere, ma cercava di dare un volto, un nome e un cognome, ai detentori delle sorti della società e dell'economia italiana, acquisendo documenti, affrontando letture, ricercando ossessivamente, investigando con autentico impegno civile. Egli si stava interessando a quei 'giochi' di potere condotti per il controllo della principale risorsa mondiale posta alla base dello sviluppo: il petrolio. E la sua attenzione, guarda caso, si rivolse proprio all'Eni e nei confronti dell'uomo che ne aveva assunto la presidenza dopo la morte di Enrico Mattei: Eugenio Cefis. Com'è noto, 'Petrolio' è rimasto un romanzo incompiuto. Il giorno stesso in cui si seppe che il corpo massacrato presso l'idroscalo di Ostia era quello di Pasolini venne denunciato un furto nella sua abitazione: chi erano e cosa cercavano veramente questi ladri? Quali documenti, o appunti, erano riusciti a sottrarre? La casa editrice Einaudi pubblicò 'Petrolio' solo nel 1992, quando ormai la vicenda giudiziaria relativa all'omicidio dell'intellettuale friulano risultava ormai chiusa da anni. Solo di recente alcuni particolari e dettagli, colpevolmente trascurati dagli inquirenti, hanno portato nuovi elementi che potrebbero riaprire il caso e farci abbandonare definitivamente la comoda versione del delitto maturato nel mondo 'gay'. Con l'aiuto dell'avvocato Alessandro Bruno e del regista Federico Bruno, il maggior testimone di quei tragici e terribili fatti, Giuseppe Pelosi, detto Pino, di recente ha cercato di fornire una versione definitiva intorno all'omicidio dell'idroscalo di Ostia, attraverso la pubblicazione di un libro dal titolo esplicitamente provocatorio: 'Io so... Come hanno ucciso Pasolini', edito da Vertigo. Chi ha seguito gli sviluppi delle indagini, delle ricerche e delle inchieste relative a quel delitto è perfettamente al corrente di come l'attendibilità di Pelosi, che per lungo tempo si è accollato la completa responsabilità del fatto, non possa che provocare forti perplessità. Dubbi che nel corso di questi ultimi anni ho cercato di non esternare, per questioni di fastidio morale e 'autocensura' personale. In estrema sintesi, nella sua pubblicazione Pelosi si dichiara vittima della situazione, sottolineando di non aver potuto parlare in passato per proteggere la sua vita e quella dei suoi cari. E senza un minimo di vergogna, ha deciso di schierarsi dalla parte di coloro che accusano i 'potenti': proprio lui, che avrebbe dovuto essere il primo a chiarire cos'era accaduto veramente in quella tragica notte dei primi di novembre del 1975. Il delitto Pasolini è divenuto un crimine a uso e consumo di tutti. Per almeno trent'anni, Pelosi ha più volte ripetuto di aver ucciso Pasolini senza l'aiuto di alcun complice, perché il poeta avrebbe tentato di violentarlo con un bastone, dipingendolo non soltanto come un cliente abituale del mercato della prostituzione omosessuale e minorile, ma come un personaggio dominato da pulsioni violente e sadiche. Solamente di recente, Pino Pelosi, detto 'la rana', ha rivisto la propria versione dei fatti, dopo che sono emerse importanti novità rispetto alla menzognera storia del delitto tra omosessuali raccontata per decenni, 'mutuando' la propria testimonianza al fine di adattarla alle scoperte più recenti. Bisogna ammettere che il suo libro - una sorta di diario degli ultimi mesi che precedettero l'omicidio - parte da un presupposto assai vicino all'obiettività: "Nulla si fa per caso, tutto è calcolato". Ma verso la fine del volume viene raccontata la cronaca di un incidente automobilistico occorso nel luglio del 2011 allo stesso Pelosi e a un suo amico, tale Olimpio Marocchi, che tragicamente vi ha perso la vita. Perché? Quale sarebbe il collegamento di questo fatto con il caso Pasolini? Si è forse trattato del tentativo di eliminare un testimone divenuto improvvisamente scomodo? A distanza di tanti anni, chi può ancora avere interesse a occultare la verità sulla morte di Pasolini? In ogni caso, la narrazione di Pelosi presenta tre 'notizie', rispetto alle sue rivelazioni precedenti: a) in totale contraddizione rispetto a quanto precedentemente ammesso, egli racconta di aver coltivato un rapporto di intensa amicizia con Pasolini, iniziato alcuni mesi prima dell'assassinio. Egli sarebbe stato 'abbordato' dal poeta in piazza dei Cinquecento, a Roma, ma poi tra i due sarebbe nata una sincera amicizia, una sorta di "amore platonico". Pelosi afferma che questa frequentazione tra lui e Pasolini era di pubblico dominio e che, quindi, sarebbe convalidabile da numerosi testimoni ancora in vita. Come giudicare questa clamorosa novità, di cui anche gli amici più affezionati di Pasolini avrebbero dovuto essere al corrente? Le perplessità non mancano. Tuttavia, qualcosa depone a favore di Pelosi: la sua somiglianza con Ninetto Davoli è piuttosto evidente. E rende plausibile l'affetto che lo scrittore friulano può aver riservato nei confronti di un giovane 'balordo'. Pier Paolo non ha mai fatto mistero di frequentare gli ambienti dei "ragazzi di vita", giovani di borgata che vivevano di espedienti commettendo truffe e furtarelli. E il ritratto che finalmente Pelosi offre di Pasolini si distacca dall'immagine di cliente dei 'marchettari' e sfruttatore di ragazzini per soddisfare i propri vizi. Insomma, tramite una 'virata' di 180 gradi, Pelosi si ravvede completamente, smontando quel giudizio inquietante sul poeta che egli stesso aveva notevolmente contribuito a diffondere. Pier Paolo, in realtà, era divenuto molto guardingo nella scelta delle proprie amicizie "perché ormai", aveva confessato ad alcuni amici, "cercano soprattutto di 'spillarmi' denaro e non si accontentano più di una pizza e di una birra...". Rimangono perciò in sospeso una serie di contraddizioni: quanto è credibile che Pelosi avrebbe vissuto un'amichevole, ma intensa, relazione con Pier Paolo Pasolini? E' vero che questa sarebbe durata alcuni mesi, oppure si vuole, per l'ennesima volta, 'confondere le acque' sul fatto che si stesse preparando un agguato contro di lui? Come si può ben comprendere, la lettura di questo testo rischia di risultare un'esperienza persino un po' 'seccante'...  b) In questo stucchevole capolavoro di manipolazione editoriale, Pelosi a un certo punto tira in 'ballo' Sergio Citti, fraterno amico di Pasolini, regista, sceneggiatore e per lungo tempo suo collaboratore diretto che, nel corso del 2005, ha rilasciato un'intervista al giornalista del 'Corriere della Sera', Dino Martirano, in cui ha provato a esporre la propria ricostruzione delle ultime ore di vita di Pier Paolo attraverso una sua personale investigazione. Citti  aveva anche girato un 'filmino', oggi facilmente rintracciabile sulla rete 'Youtube', sul luogo in cui venne rinvenuto il cadavere, pochi giorni dopo l'identificazione. Il documento, depositato agli atti giudiziari ma mai realmente visionato dagli inquirenti - così come nessuno ha mai voluto ascoltare la testimonianza dell'autore - non solo dimostra l'incuria e il pressapochismo con cui furono eseguiti, a suo tempo, i rilievi scientifici fondamentali sulla scena di quel crimine, ma che la versione ufficiale certificata dagli inquirenti, dalle autorità e dall'opinione pubblica non corrispondeva assolutamente ai fatti. Citti propose una versione assolutamente inedita: la cronaca di un'imboscata preparata con il pretesto della restituzione delle bobine dell'ultimo film di Pasolini, 'Salò'. Nell'estate del 1975, presso gli stabilimenti di Cinecittà, nel quartiere romano del Tuscolano, erano state rubate le 'pizze' di alcuni film di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e Damiano Damiani. Citti raccontò di esser stato contattato da un losco individuo, tale Sergio Placidi, il quale affermava di aver rintracciato quelle di 'Salò', rendendosi disponibile a restituirle in cambio di due miliardi di lire. L'offerta del ricattatore venne comunicata al produttore Alberto Grimaldi, che però era disponibile a 'sborsare' solo una cinquantina di milioni al massimo. Secondo Citti, il ricattatore Placidi era ben conosciuto da Pelosi, poiché entrambi frequentatori dello stesso bar di via Lanciani, una strada ai confini del popolare quartiere romano Tiburtino. Successivamente, gli autori del furto si sarebbero messi in contatto con lo stesso Pasolini, riferendogli che avrebbero restituito la refurtiva gratuitamente. Molto probabilmente fu questa la vera 'esca' per la 'trappola' fatta scattare presso l'idroscalo di Ostia. Proprio la sera del 2 novembre 1975 - come egli stesso disse a Citti - Pasolini doveva incontrare questi ragazzi per la restituzione della pellicola originale. Citti, insomma, già nel 2005 si diceva convinto che Pelosi era stato manovrato per fare da 'esca', poiché rappresentava il 'tipo' di ragazzo che poteva piacere a Pier Paolo e che, sicuramente, lo avrebbe condotto tra le braccia degli assassini. In pratica, pur con qualche variante, Pelosi oggi 'sposa' la versione di Citti, impegnandosi molto, naturalmente, a sottolineare il proprio ruolo di "esca non consapevole", al fine di negare ogni genere e tipo di responsabilità 'diretta'. Pelosi, invece, conosceva molto bene il gruppo di ragazzi che, soddisfacendo le richieste di Placidi e di un misterioso personaggio che lavorava nel cinema, avevano rubato quelle 'bobine'. Fra questi vi erano i fratelli Borsellno, Giuseppe e Franco, due suoi 'antichi' amici d'infanzia. Qualche anno fa, lo stesso Pelosi ha accusato i due ex amici di aver partecipato alla spedizione punitiva che massacrò Pasolini, ovvero solamente quando potè essere sicuro che questi non potessero più replicare alcunché, essendo deceduti. I fratelli Borsellino, di origini siciliane e più giovani di Pelosi di qualche anno, erano due soggetti difficili: perennemente 'impasticcati' e tossicodipendenti, sognavano di fare un salto di qualità nel mondo della malavita romana. Uno dei due, Franco, avrebbe raccontato al Pelosi stesso che la richiesta di riscatto delle 'pizze' rivolta al produttore Grimaldi era stata "bloccata" per l'intervento di alcuni personaggi che, all'epoca dei fatti, gravitavano attorno all'ambiente neofascista della sezione dell'Msi di via Subiaco. Ebbene, sempre secondo Pelosi, i fratelli Borsellino frequentavano quella sezione del Msi ed erano imbevuti di slogan e parole d'ordine dell'estrema destra. Nei vari contesti urbani non era certo infrequente che Partiti e associazioni neofasciste pescassero nel 'mare' della delinquenza e della piccola malavita di quartiere. Ma le cose non stavano proprio così: al contrario, qualcuno aveva cercato di spiegare a quelle 'zucche vuote' dei Borsellino che il film di Pasolini trattava temi di degradazione e delirio antropologico e che la Repubblica di Salò era solamente un pretesto, un argomento di 'sfondo'. Pertanto, se volevano continuare a frequentare quella sezione del Partito, avrebbero dovuto convincere gli autori del furto a riconsegnare le bobine gratuitamente, scusandosi con l'autore per la tentata estorsione, anche se operata da altri. Lo scrittore Nico Naldini, cugino di primo grado di Pasolini, che all'epoca lavorava per una casa di produzione cinematografica, pur non essendosi mai convinto dalla 'pista' basata sul furto delle 'pizze' di 'Salò' e dal conseguente ricatto, poiché persuaso che il delitto sia maturato nell'ambiente della prostituzione omosessuale, rivelò che quelle bobine erano già state ritrovate in un sottoscala di Cinecittà e che nessun riscatto fu versato alla malavita romana. Ma ciò supporta ugualmente l'ipotesi che, in realtà, qualcuno avesse in mente ben altro. Pelosi ammette di aver conosciuto Sergio Placidi, ovviamente tramite i fratelli Borsellino. E lo dipinge come un piccolo, ma intraprendente, boss di quartiere, assai attivo nei 'giri' della prostituzione e dello spaccio di droga. Costui era anche solito organizzare 'festini' a base di sesso e droga, a cui partecipavano importanti e noti personaggi della televisione e del cinema. Nulla di nuovo: ricchi personaggi, aspiranti modelle, conduttori radiofonici, presentatori televisivi, 'attricette' di cinema e 'fiction' televisive, calciatori e altri sportivi, subrettine e 'veline' da sempre appartengono a un mondo romano stordito e corrotto, che si 'culla' nel mito della 'dolce vita' di 'felliniana memoria' senza aver mai compreso come il maestro riminese, tramite quel film, abbia inteso segnalare proprio il loro paganesimo provinciale e miserabile, immerso un ambiente imbastardito dal mito del divismo hollywoodiano: scherzi dell'ignoranza populista italiana, che pone sempre ogni cosa in un unico 'calderone' per la piattezza logica di un cattolicesimo tutto composto di doppie morali e mezze verità, contraddizioni irrisolte e repressioni mai 'sfogate'. Non è certo un caso se, per le mafie e la delinquenza più o meno organizzata, i settori dell'industria dell'immagine, dello spettacolo e dell'intrattenimento abbiano sempre costituito un 'mercato' di riferimento. Inoltre, non va dimenticato che questo clima da 'basso impero' si accompagna da sempre a una crisi inesorabile della maggiore industria culturale della capitale, quella appunto del cinema, che sino agli inizi degli anni '70 era seconda soltanto a Hollywood. Tale declino, di qualità e di pubblico, coincide pienamente con il rinnovamento del sistema televisivo italiano, il quale aprì il mercato delle frequenze locali ai privati, secondo uno spirito meramente commerciale della produzione televisiva. Subito egemonizzata dal modello 'berlusconiano', la televisione stava cominciando, proprio in quegli anni, a prendere il posto del cinema nell'immaginario collettivo. Tra i principali beneficiari del declino cinematografico italiano c'erano, naturalmente, i finanziatori dei canali televisivi 'berlusconiani', riconducibili alla loggia P2. E lo spazio lasciato libero dai grandi produttori, che ben presto si videro costretti a trasferirsi in Francia o negli Stati Uniti, venne occupato dai 'dilettanti allo sbaraglio'. In una simile deriva di 'inculturazione', di lenta ma inesorabile e progressiva degenerazione artistica, la qualità estetica dei film italiani crollò verticalmente. E non solo i festini a 'luci rosse' divennero all'ordine del giorno: anche episodi come il furto di bobine divenne una tecnica teorizzata come percorribile, con la complicità di chi nel cinema ci lavorava. E infatti, proprio Pelosi ci viene a raccontare che l'idea del furto delle 'pizze' sarebbe stata suggerita a Placidi dallo stesso Citti il quale, essendo un frequentatore assiduo dei festini organizzati dallo stesso Placidi, aveva finito con l'indebitarsi e col proporre al malavitoso l'idea di organizzare un furto di pellicole, al fine di ricattare i produttori di Cinecittà. In buona sostanza, la gestione di questo giro di prostituzione e di droga, offerta abbondantemente alle 'stelle' della televisione, ha sempre alimentato un mercato dell'usura e del ricatto, nel quale lo stesso Citti può essere rimasto 'impigliato', costringendolo a trovare un modo per pagare i propri debiti. Ma è credibile il Pelosi allorquando accusa Citti, ormai deceduto e non più in grado di difendersi da simili cose? Citti è stato un amico molto intimo di Pasolini, oltre che il migliore dei suoi collaboratori. E il modo in cui Pelosi sembra alludere al proprio ruolo nel furto della pellicola di 'Salò', del quale lo stesso Citti aveva peraltro 'girato' diverse scene, appare quanto meno 'malizioso'. Oltre a ciò, anche se a distanza di molti anni, è stato proprio Citti a fornire nuovi elementi per riaprire il caso Pasolini, nel tentativo di rimettere in discussione quanto era stato fatto credere al pubblico italiano. Ammesso il ruolo di Placidi nel tentato ricatto utilizzato per uccidere il poeta, non è forse più probabile che il complice - o i complici - che lavoravano a Cinecittà fossero altri? E se Citti era estraneo alla vicenda delle 'pizze', perché mai Pelosi racconta le cose in questo modo? Evidentemente, perché siamo di fronte al consueto tentativo di depistaggio, magari alla ricerca di mera visibilità 'mediatica'. c) Pelosi, infine, per la prima volta ammette un proprio ruolo di "esca inconsapevole" per condurre Pasolini sul luogo voluto, o richiesto, dagli assassini. Sarebbe stato convinto da alcuni amici - sempre quelli coinvolti nel furto delle bobine cinematografiche, ovviamente - ad accompagnarlo all'appuntamento, senza tuttavia essere a conoscenza delle loro intenzioni. All'idroscalo di Ostia, Pasolini e Pelosi sarebbero stati raggiunti da una Fiat 1500, dai soliti fratelli Borsellino a bordo di una motocicletta e da un'Alfa Gran Turismo, quasi identica a quella del romanziere. Dalla Fiat sarebbero scesi tre uomini, che poi hanno messo in atto il massacro. Nel corso di questi ultimi decenni, Pelosi ha sempre ripetuto di aver investito involontariamente Pasolini, nel tentativo di fuggire all'agguato per mezzo della sua vettura. Ma la presenza di un'auto quasi 'gemella' mette in discussione tale ricostruzione, per decenni fatta passare come l'unica possibile. In più, Pelosi ci presenta questa sua nuova ricostruzione che entra in totale contraddizione con quanto aveva già dichiarato precedentemente nel merito dell'identità degli aggressori di Pasolini, sul loro accento siciliano e sulla Fiat 1500 che lui ricordava targata Catania. Queste dichiarazioni avevano fatto pensare alla presenza di sicari della mafia. Mentre ora, con quest'ultima 'rettifica', i 'riflettori' si spostano nuovamente sugli ambienti della malavita romana. In ogni caso, è mio parere che Pelosi abbia sempre cercato di perseguire una propria confusionaria politica di rivelazioni depistanti, alla ricerca di una visibilità mediatica personale. E che la gran parte di quanto scrive, espone o dichiara sia, da sempre, poco credibile.

NUOVI MISTERI
Torniamo all'intervista rilasciata da Sergio Citti nel 2005 al collega Martirano, un servizio che diede adito a qualche speranza circa la possibilità di aprire un nuovo 'squarcio' di verità su quanto accaduto all'idroscalo di Ostia nella notte del 2 novembre 1975. Citti concesse l'intervista poche ore prima del programma di RaiTre 'Ombre sul giallo', condotto dalla giornalista Franca Leosini, nel corso della quale, per la prima volta Pelosi modificò la propria versione, sostenendo che il poeta era stato aggredito e massacrato da un gruppo di siciliani. La trasmissione fece ovviamente scalpore, 'oscurando' l'intervista a Citti. Tuttavia, a seguito di quello 'scoop' venne aperta la terza inchiesta sul delitto Pasolini, affidata ai pm Italo Ormanni e Diana De Martino per "omicidio volontario commesso con l'aggravante della premeditazione". Ma dalla nuova indagine non emersero elementi inediti. E, già nell'ottobre 2005, il Gip archiviò l'inchiesta su sollecitazione degli stessi pm. Nella richiesta si conferma il movente di un delitto commesso unicamente da Pelosi, nell'ambito della prostituzione giovanile. Nello stesso identico giorno dell'archiviazione si spense anche Sergio Citti. E nessuno ricordò più la sua intervista, che aveva cercato di fornire qualche elemento di indagine maggiormente realistico. Tre anni dopo, Pino Pelosi viene nuovamente intervistato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, due giornalisti che stavano lavorando a un libro - 'Profondo nero', edito da Chiarelettere - incentrato sul possibile collegamento tra la morte di Enrico Mattei, quella del giornalista Mauro De Mauro e quella di Pasolini. Finalmente, Pelosi si decise a chiamare in causa i fratelli Borsellino, 'rilanciando' la 'pista' politica dell'omicidio, poiché i suoi due amici erano frequentatori della sezione del Movimento sociale italiano del quartiere Tiburtino. Pelosi negò, invece, il coinvolgimento di un altro amico: Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro. Questo nome era già emerso pochi mesi dopo la morte di Pasolini, poiché i Carabinieri erano riusciti a infiltrare un loro uomo nel giro della piccola malavita del Tiburtino, spacciandolo come ricettatore e arrivando ad 'agganciare' proprio i fratelli Borsellino, i quali da giorni stavano raccontando 'ai 4 venti' di aver ucciso Pasolini insieme a Johnny lo Zingaro. Non appena la notizia raggiunse i vertici dell'Arma, i due 'baldanzosi' fratelli se la fecero letteralmente 'addosso' e, innanzi al magistrato, ritrattarono. I Carabinieri, a quel punto, ipotizzarono che i Borsellino facessero parte di un modesto giro di rapinatori che aveva tentato di derubare Pasolini, un tentativo che sarebbe poi degenerato in una rissa violenta. Si tratta di un'ipotesi che, ogni tanto, riemerge regolarmente. Ma ciò che qui interessa notare è il fatto che Pino Pelosi abbia deciso di 'vuotare il sacco' su Franco e Giuseppe Borsellino, ormai deceduti, mentre si sia ben guardato dal coinvolgere nella vicenda anche il Mastini, che invece è vivo e vegeto e che risulta, ancora oggi, assai temuto tra i 'bassifondi' della malavita romana, poiché considerato "un soggetto pericolosissimo". Eppure, basterebbe un minimo di ricerca su internet per venire a scoprire che Pelosi, Mastini e i fratelli Borsellino si conoscevano tutti sin dall'infanzia, che erano cresciuti assieme nel quartiere Tiburtino, che provenivano tutti dalla medesima comitiva di 'balordi'. Il gruppo era veramente una piccola 'banda' dedita a furti, scippi, rapine, truffe e pestaggi. E il vero leader della 'combriccola' era proprio Johnny lo Zingaro. Nel dicembre del 1975, a soli 15 anni, commise il suo primo omicidio per rapina, uccidendo un autista dell'Atac. Fra galera ed evasioni, nel febbraio del 1987 riuscì persino a ottenere un permesso premio e, poco tempo dopo, nel corso di una fuga a seguito di un'intercettazione dei Carabinieri, sequestrò un auto con una donna a bordo, uccise un poliziotto e ne ferì un altro. Finalmente, quando venne catturato gli fu comminato il primo ergastolo. Ma già nel 1990 riuscì a evadere dal carcere. Nuovamente coinvolto nell'omicidio di un uomo, nel corso di una rapina tentata presso una villetta di Sacrofano, viene nuovamente catturato e condannato a un secondo ergastolo, anche se risultò assolto dall'accusa di omicidio per il delitto di Sacrofano (per insufficienza di prove, ndr). Non si tratta di un delinquente comune: Mastini è sempre stato un uomo in grado di uccidere a sangue freddo, un sicario a cui si poteva commissionare un assassinio come quello di Pasolini, anche se l'interessato ha sempre negato ogni coinvolgimento. Tuttavia, Johnny Lo Zingaro è sempre stato un personaggio ben diverso, rispetto ai soliti malavitosi di borgata: spesso recluso in carceri speciali, è entrato in contatto con detenuti politici, mafiosi e camorristi. Nei siti internet di due ex detenuti della sinistra extraparlamentare - Franco Bellotto e Paolo Dorigo - viene accusato di essere amico di pericolosi fascisti, in particolare di Gilberto Cavallini, esponente dei Nar, la feroce avanguardia neonazista assai vicina alla banda della Magliana. Dunque, rammentando le frequentazioni dei Borsellino emerge, ancora una volta, un legame fra l'eversione di destra e la malavita romana. Perché la verità che si vuol sempre 'aggirare' è che neofascismo, criminalità comune e piccola malavita organizzata si sono frequentate e, talvolta, alleate. Nella puntata del programma di Raitre 'Chi l'ha visto?' del 19 aprile 2010, la giornalista Federica Sciarelli si è occupata anche della scomparsa di un altro personaggio legato alla malavita romana, tale Antonio Pinna, di cui si son perse completamente le tracce sin dal lontano mese di febbraio del 1976. La sua Alfa GT, molto simile a quella di Pasolini, era stata infatti ritrovata all'aeroporto di Fiumicino. Il figlio di Pinna, nato da una relazione prematrimoniale e impegnato da sempre in un'affannosa, ma sincera, ricerca del padre, si era rivolto a Silvio Parrello, amico di Pasolini e noto al secolo come 'Er pecetto' del celebre romanzo 'Ragazzi di vita'. Parrello è uno stimato pittore che conosceva Pinna, meccanico e 'asso' del volante di via di Donna Olimpia, in Roma. E stando a quanto ha sempre dichiarato, Pasolini e Pinna si conoscevano molto bene sin dagli anni '50, quando lo scrittore viveva proprio nel quartiere romano di Monteverde. Pochi mesi prima della sua morte, Pasolini aveva frequentato nuovamente il Pinna, sino a diventarne amico. Poi, dal febbraio 1976, non si ebbe più alcuna notizia di lui, a parte un episodio risalente al 1979, quando venne fermato per guida senza patente. Stranamente, il verbale di fermo è colmo di omissis e in parte 'secretato': perché? Cosa c'entra Pinna con la morte di Pasolini? Parrello ha inoltre raccolto la testimonianza di un carrozziere della zona a cui venne chiesto, dal Pinna stesso, di riparare un'Alfa GT "urtata lungo la fiancata". La vettura risultava anche sporca di fango e corrisponde alla descrizione dell'auto che potrebbe aver investito il corpo di Pasolini. Il rapporto tra l'omicidio Pasolini e la scomparsa di Antonio Pinna sembra piuttosto consistente: il 14 febbraio 1976, data della sparizione di Pinna, era iniziato il processo per il delitto Pasolini. E proprio in quei giorni, i Carabinieri avevano tratto in arresto i fratelli Borsellino, i quali avevano confessato di aver ucciso Pasolini con il concorso di Johnny lo Zingaro. Fermato nel 1979 per guida senza patente, Pinna ha dunque potuto godere di protezioni 'speciali' per la sua fuga? E chi lo ha aiutato? Oppure è stato tolto di mezzo anche lui? Parrello non ha dubbi in proposito: la vettura portata da Pinna al carrozziere di Monteverde era quella presente all'idroscalo nella notte del 2 novembre 1975. Probabilmente, lo stesso Pinna era presente e, comunque, sarebbe stato a conoscenza di molti particolari. Il pittore è solito rievocare anche il filmato in 8 mm girato da Sergio Citti, in cui si possono scorgere una cancellata danneggiata e un 'paletto' di cemento divelto. Secondo la perizia di parte civile, voluta dalla famiglia di Pasolini ed effettuata dal professor Faustino Durante, l'auto dello scrittore non presentava segni d'urto, né strisciature sulla coppa dell'olio o sulla marmitta, mentre il 'frontale' non mostrava tracce ematiche o di cuore capelluto, a dimostrazione che non poteva esser stata quell'auto ad aver provocato i danni alla cancellata e al paletto. Per non parlare delle 'buche', che potevano causare altri danni riscontrabili agli ammortizzatori, o alla 'scocca' stessa della vettura. Citti aveva raccolto, inoltre, anche la testimonianza di un pescatore, anch'egli deceduto, che vide quel che accadde quella sera e che avrebbe confermato la ricostruzione di Parrello sulla dinamica dell'omicidio: era stata la GT di Pinna ad aver investito Pasolini, urtando, nella fuga, anche un paletto della cancellata.

UNA RICOSTRUZIONE  
Cerchiamo, ora, di presentare un nostro 'abbozzo' di ricostruzione. Innanzitutto, risulta interessante notare come intorno alla morte di Pasolini ricorrano sempre gli stessi nomi e come queste persone si conoscano da sempre, o si siano frequentate assiduamente: Antonio Pinna, Giuseppe Mastini detto Johnny lo Zingaro, i fratelli Borsellino, Sergio Placidi, lo stesso Pino Pelosi. Un'umanità in cui troviamo un po' di tutto, a livello delinquenziale: dallo spaccio di droga allo sfruttamento della prostituzione, dalla rapina al pestaggio, dallo 'scippo' ai piccoli furti. I mondi dell'estremismo eversivo di estrema destra, della criminalità comune e della piccola malavita di quartiere si sovrappongono e si confondono. Tutto ciò ha sempre contribuito a confondere le idee sulle ragioni per cui è stato ucciso Pier Paolo Pasolini. Proviamo a elencare le diverse 'piste' seguite sino a oggi: 1) quella del crimine consumato sullo sfondo dello scontro tra bande 'rosse' e 'nere' nel corso di una fase storica che già preludeva, o preannunciava, una recrudescenza terroristica di stampo ideologico-eversiva; 2) quella del delitto maturato negli ambienti della prostituzione omosessuale e giovanile; 3) quello della difesa estrema da un tentativo di rapina degenerata in una rissa; 4) quella della 'missione punitiva' di un gruppo di balordi o di giovani teppisti; 5) quella del tentativo di ricatto mediante il furto delle 'pizze' di 'Salò'. Ognuna di queste ipotesi porta a congetture di cronaca 'nera' che tanto 'sfiziano' il lettore 'medio', poiché ne solleticano la morbosità. Ma, nel complesso, appaiono tutte alquanto lacunose, create quasi apposta per dar vita a quel classico 'giuoco di società' sempre utile a depistare l'opinione pubblica. Proviamo perciò a ricostruire il delitto ripartendo da quell'Antonio Pinna che, all'improvviso, scompare nel nulla: costui, all'inizio della propria 'carriera' di malvivente, era stato coinvolto nello 'strano' sequestro di persona di un farmacista. E manteneva dei legami con la discussa banda dei marsigliesi che, prima di quella della Magliana, spadroneggiava per Roma. Agli inizi degli anni '70 del secolo scorso, la 'piazza' capitolina della delinquenza era composta da una microcriminalità quasi dilettantesca. Ma la situazione cambiò radicalmente allorquando giunsero alcuni elementi dalla Francia, in particolare dalla città portuale di Marsiglia: tutta gente totalmente priva di scrupoli, pronta a sparare contro chiunque con pistole e mitragliatrici. Si trattava di personaggi che avevano vissuto ai margini della criminalità marsigliese 'vera', quella impegnata nei grandi traffici internazionali di stupefacenti. Emarginati dagli affari più lucrosi dai 'padrini' marsigliesi e corsi, essi iniziarono a specializzarsi nelle rapine a mano armata, mettendo a segno una serie di colpi spettacolari, che diedero persino il 'la' a un nuovo genere cinematografico: quello 'poliziottesco'. Proprio al principio del decennio, il già noto Albert Bergamelli prese i suoi primi contatti su Roma con un altro spietato criminale marsigliese: Jacques Berenguer. Ai due si unì ben presto il bresciano 'Maffeo', al secolo Lino Bellicini, da poco evaso da un carcere portoghese. Il nucleo della prima vera 'banda' criminale romana si era ormai formato. Oltre alle rapine a mano armata, i marsigliesi erano soliti dedicarsi anche al traffico e allo spaccio di eroina e di cocaina. E, in seguito, anche al sequestro di persona, che negli anni '70 divenne praticamente una 'moda'. I marsigliesi fecero fare un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza romana delle borgate. E quando il gruppo italo-francese venne sgominato dalle forze dell'ordine, essi furono sostituiti da criminali autoctoni, che andarono a formare l'ormai tristemente nota banda della Magliana, raccogliendone l'eredità. Non si trattava di mafia allo stadio embrionale, o di forme di delinquenza dai pericolosi tratti settari, né di criminalità organizzata ben strutturata, bensì di una malavita di alto livello, capace di accumulare profitti da attività delinquenziali spregiudicate. La criminalità romana, all'improvviso, aveva cambiato 'pelle'. Il fenomeno dei marsigliesi risultava di difficile definizione, dal punto di vista criminologico: essi coniugavano il senso degli affari con l'audacia delle loro imprese. A ciò si aggiunga che questi banditi sapevano organizzarsi attraverso il metodo della 'compartimentazione', potendo sempre contare, cioè, su un'organizzazione centralizzata in grado di rimediare, sempre e comunque, 'covi' e dimore, acquistati o affittati per proteggere la latitanza dei propri membri. Nel febbraio del 1975, una prima famosa rapina in piazza dei Caprettari fruttò un magro bottino e l'agente Domenico Marchisella, accorso sul posto, vi perse la vita. Come si può ben comprendere, si trattava di banditi disposti a far fuoco sia sugli agenti di polizia, sia su innocenti passanti. I marsigliesi stessi, desiderosi di 'far scuola', avevano aggregato attorno a essi i personaggi più pericolosi della capitale, fra cui Laudavino De Sanctis, detto 'Lallo lo zoppo', che ben presto fondò una propria 'banda', dedita a sequestri di persona, che divenne tristemente nota per aver assassinato alcuni ostaggi. Altro elemento promettente era tal Danilo Abbruciati, ex pugile che aveva scoperto la propria 'vocazione' alla rapina. Abbruciati si distinse ben presto come uno dei boss 'testaccini' della banda della Magliana, rafforzando la propria posizione all'interno della 'mala' romana grazie a potenti 'protezioni'. La banda della Magliana iniziò a dominare la 'scena' della capitale sul finire degli anni '70, grazie alla conquista del monopolio della distribuzione e dello spaccio degli stupefacenti. Questa posizione consentì loro di trattare da pari a pari con la mafia siciliana, la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la 'ndrangheta calabrese. Sul piano strettamente operativo, non mancherà la collaborazione da parte di giovani neofascisti romani, anche se alcuni elementi della banda intratterranno rapporti pure con ambienti di sinistra, in particolar modo dell'Autonomia. La rete di rapporti dei boss della banda arrivò a condurli sino alle stanze del potere: Vaticano, servizi segreti egemonizzati dalla P2, palazzi romani della politica, settori della magistratura e delle forze dell'ordine. E, naturalmente, a compiacenti canali di riciclaggio del denaro 'sporco', sostenuti da personaggi più o meno rispettabili. L'accesso a questi canali finanziari era a sua volta favorito dal boss mafioso Pippo Calò, padrino della cosca palermitana di Porta Nuova, tesoriere dell'organizzazione con il compito di mantenere i rapporti con gli ambienti di potere, al fine di riciclare i proventi delle attività di 'Cosa nostra'. Anzi, col passare degli anni, mi sono convinto che proprio Pippò Calò fosse la vera 'mente strategica' della banda della Magliana, poiché risultava in amicizia con Danilo Abbruciati, anch'egli in 'odor di mafia'. Fra le altre amicizie 'interessanti' c'è poi da annoverare un certo Toni Chicchiarelli, il falsario autore del comunicato brigatista del lago della Duchessa in cui venne annunciata l'eliminazione dell'onorevole Aldo Moro durante i giorni del suo sequestro, operazione finalizzata a depistare le forze dell'ordine impegnate nella ricerca del 'covo' in cui era tenuto prigioniero il presidente della Dc. E' stato comprovato da tempo che quest'ultima 'mossa', quella del comunicato n. 7 delle Br, sia stata organizzata proprio in seno ai Comitati di crisi del ministero degli Interni, infarciti da affiliati alla loggia P2 e messa a disposizione dell'esperto del Dipartimento di Stato americano, Steve Pieczenick. In ogni caso, Chicchiarelli era un altro delinquente comune di difficile decrittazione, per le sue frequentazioni e strane amicizie. Secondo alcuni 'ambienti', risultava coinvolto anche in un losco traffico di armi gestito da elementi deviati del servizio segreto civile. In rapporti con alcuni boss della banda della Magliana e con altri giovani neofascisti dei Nar, non disdegnava frequentazioni anche con alcuni 'autonomi' romani. Oltre che nell'operazione del falso comunicato brigatista, il suo nome ricorre nelle indagini per il delitto del giornalista Mino Pecorelli. I molteplici messaggi ricattatori delle sue imprese lo portarono presto verso la sua esecuzione, avvenuta per mano di ignoti nel novembre del 1984. Comunque sia, nel corso del 1975 i marsigliesi trovarono in lui un prezioso alleato per le loro imprese, soprattutto per la condivisione dei contatti con turchi e boliviani, l'acquisto delle partite di droga e l'organizzazione dei sequestri di persona. Altro criminale di ragguardevole statura era Francis Turatello, che dopo essersi accreditato anche all'estero mediante alcune rapine spettacolari, era riuscito a farsi una posizione nella città di Milano attraverso la gestione di lucrose attività, come il traffico di droga, le bische clandestine e la prostituzione. Questo giovane malavitoso milanese era riuscito a creare un gruppo in grado di 'tener testa' persino al boss mafioso di Corleone, Luciano Leggio, detto Liggio, che resosi latitante aveva dato vita a un pericoloso racket di sequestri di persona nel capoluogo lombardo. Si dice inoltre che Turatello fosse anche figlio naturale di un potente boss della mafia italoamericana: Frank Coppola. Costui era un vecchio 'padrino' della mafia direttamente discendente dal gruppo di boss di 'Cosa nostra' americana, nomi del calibro di Lucky Luciano, Joe Adonis e Frank Costello, esiliati dagli americani stessi e trasferiti nel loro Paese d'origine, l'Italia, dopo i 'servigi' forniti durante la seconda guerra mondiale. Dotati di un incontestabile senso per gli affari, questi boss furono coloro che, sostanzialmente, imposero e diffusero, nel nostro Paese, il traffico di stupefacenti. Tra costoro si distinse ben presto proprio il padre di Turatello, il quale iniziò a gestire i propri traffici da una villa di sua proprietà situata lungo il litorale laziale. Sicuramente, il gangster milanese ha potuto condurre i propri loschi affari 'millantando' la prestigiosa parentela e la protezione dei padrini italoamericani. Ma la concorrenza con la versione siciliana di 'Cosa nostra' cominciò a destare 'tensioni', dovute soprattutto alla competizione sul mercato della droga. Venne dunque deciso di inviare a Roma un killer, tale Toni Riccobene, col 'preciso mandato' di assassinare Turatello. Ma quest'ultimo, che si attendeva tale 'mossa', riuscì ad anticiparla alleandosi con la banda dei marsigliesi e col potente boss della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, il quale stava sfidando, a Napoli e su tutto il territorio della Campania, lo strapotere delle cosche subordinate a 'Cosa nostra' siciliana. Com'era prevedibile, l'accordo tra Cutolo e Turatello creò un innovativo e potente 'cartello' per il controllo del traffico della droga sull'asse Milano-Roma-Napoli. Ma le fortune del bandito milanese Turatello e della sua banda iniziarono ben presto a declinare, legando il proprio nome anche ad alcuni dei più 'torbidi' misteri italiani. Ricapitolando: Bergamelli, Turatello, Abbruciati, i marsigliesi e la banda della Magliana facevano tutti parte di una criminalità attiva e spietata, capace di esercitare un pesante controllo sul territorio, di lanciare arroganti sfide alle autorità, che per lunghi anni sembrarono impotenti di fronte al loro imperversare e che, al contempo, sembrava godere di protezioni e rapporti politici di potere. In Italia, il nome di Albert Bergamelli era già salito alla ribalta delle cronache nel lontano 1964, quando insieme a una banda composta da elementi francesi aveva messo a segno una spettacolare rapina alla gioielleria Colombo in piena via Montenapoleone, a Milano, a pochi passi dalla questura. Una sfida di questo genere alle autorità non era mai stata lanciata. La banda, capeggiata dal Bergamelli stesso, aveva fatto uso di tecniche che appartenevano all'armamentario militare più che a quello delinquenziale: si erano messi a sparare apparentemente all'impazzata, seminando il panico fra la folla, mentre due vetture erano state utilizzate per bloccare il traffico per un lungo tratto della via. Tutti i membri della banda vennero presto catturati dalla polizia, grazie anche alla collaborazione dei servizi di informazione francesi. Ma quel che più sconforta è il fatto che questo Bergamelli, dopo aver trascorso solo pochi anni nel carcere ad Alessandria, abbia ben presto ottenuto un regime di semplice 'soggiorno obbligato' nel modenese, che gli consentì di fuggire facilmente e di poter proseguire la propria 'carriera' criminale. Prima di tornare in Italia, il suo nome era addirittura diventato il più ricercato d'Europa grazie alle clamorose imprese della sua banda del 'Mec', che riuscì a farsi notare in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Secondo Arrigo Molinari, all'epoca funzionario della questura di Milano e in seguito questore di Genova, nonché affiliato alla loggia P2, la rapina di via Montenapoleone fu "la prima vera azione terroristica in Italia, il primissimo atto della strategia della tensione". Quell'impresa, così spettacolare da essere percepita come una sfida alle autorità e alle forze dell'ordine, doveva servire a 'silurare' il capo della polizia italiana, Angelo Vicari. Era il 1964, l'anno del Piano Solo, architettato dal comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, già direttore del Sifar, che sottoscrisse l'accordo con la Cia per la formalizzazione della 'Stay Behind' e di 'Gladio'. Tutti questi rapinatori, criminali e mercenari vennero immessi in circolazione secondo un preciso scopo di destabilizzazione, per la creazione di un clima di insicurezza sociale, che avrebbe dovuto giustificare la richiesta di maggior ordine da parte dei cittadini. Inoltre, dopo l'indipendenza algerina dalla Francia e lo scioglimento dell'organizzazione terroristica e colonialista 'Oas', molti ex legionari ed ex militanti erano divenuti disponibili sul 'mercato'. A Lisbona era sorta, già nel 1962, una centrale terroristica sotto la copertura dell'agenzia di stampa Aginter Press, su iniziativa di ex militari dell'Oas. Oltre a essere in collegamento con l'estrema destra europea e internazionale, questa centrale offriva i suoi servigi alla Cia, all'organizzazione Gehlen e ad altri servizi segreti della Nato, oltre che a quelli dei Paesi colonialisti e fascisti. Secondo lo scrittore e saggista Cristiano Armati, lo stesso Bergamelli doveva le sue rocambolesche e fortunose evasioni agli ex camerati dell'Oas. Insomma, tutta un'intera generazione di criminali era stata aiutata, o addirittura 'assistita', da questi ex legionari, mercenari e malavitosi esclusi dai giri della malavita francese. Forse, alcune delle nuove bande, fra cui quella di Bergamelli, avevano anche finalità politiche in funzione anticomunista e antisovietica. La collocazione ideologica di questi nuovi criminali, dotati di una propensione alla violenza sconosciuta alla vecchia malavita italiana, è sempre apparsa evidente. Lo stesso Bergamelli dichiarò di essere "un convinto neonazista", mentre il suo amico milanese Turatello girava con una catena d'oro a forma di svastica appesa al collo. Fascista e ammiratore di Mussolini era pure Franco Giuseppucci, un 'boss' che ha sempre cercato di mantenere 'in piedi' la banda della Magliana in vari modi. Così come fascista e amico di neofascisti era l'altro boss del gruppo, Danilo Abbruciati. Ci si può chiedere se non sia stato l'influsso dei marsigliesi, le cui gesta erano presumibilmente ispirate dall'Oas, a determinare gli orientamenti ideologici delle bande che hanno imperversato a Roma e a Milano in quegli anni. La documentazione giudiziaria e le testimonianze ci dicono che i vari Bergamelli, Berenguer, Turatello, Giuseppucci e Abbruciati appartenevano tutti alla razza dei malavitosi 'comuni', talvolta associati ai 'politici' per finalità soprattutto patrimoniali. Si chiarisce, insomma, per quale motivo si sia insediato a Roma un miscuglio di neofascismo, criminalità di alto livello e piccola malavita. Nota era l'ammirazione dei giovani neofascisti romani per i marsigliesi: uno dei massacratori 'pariolini' del Circeo, Andrea Ghira, disse alle vittime delle sevizie di essere Berenguer. Il culto della violenza si trasformava, dunque, in emulazione. Con il fiorire della lucrosa industria dei sequestri di persona venne, inoltre, alla luce una contiguità fra 'pezzi' dello Stato e bande come quelle dei marsigliesi, di Turatello e della Magliana, che poste al servizio di alcune potenti 'consorterie' misero a disposizione la loro particolare professionalità. A rileggere le cronache di quegli anni, la sequenza dei sequestri di persona è impressionante: durante tutti gli anni '70, oltre ai marsigliesi, ai mafiosi 'corleonesi' del boss Liggio, a frange della camorra e ai calabresi dell'ndrangheta, si dedicarono a tale forma di criminalità anche i malavitosi romani consorziati con la banda della Magliana, la banda Turatello, i banditi sardi e altre bande della criminalità comune, come quelle di Vallanzasca e di Lallo 'lo zoppo'. Alcune 'squadre' politicizzate, di estrema destra e di estrema sinistra, effettuarono persino sequestri di persona a scopo dimostrativo, o per autofinanziamento. Eppure, il semplice movente pecuniario, così come l'azione politica, non spiegano appieno la diffusione del fenomeno. Per effettuare e gestire i rapimenti era necessario disporre di un'organizzazione sufficientemente strutturata, con una divisione di compiti ben precisa, in cui non doveva mancare il danaro per poter acquistare gli appartamenti da allestire come prigioni. Pertanto, appare assai probabile che i sequestri di persona servissero soprattutto a spargere terrore tra i ceti abbienti, alternando la paura dell'estremismo eversivo 'nero' con quello del terrorismo di estrema sinistra, al fine di alimentare la cosiddetta "strategia della tensione". Serviva a colpire gli avversari politici o, nel campo degli affari, a esercitare pressioni indebite. Serviva anche a riciclare capitali illeciti, o di discutibile provenienza. Non stupisce che la banda dei marsigliesi, a un certo punto, abbia deciso di abbandonare le troppo rischiose rapine a mano armata, in favore del nuovo tipo di attività. Nell'arco di un anno, fra il 1975 e il 1976, questo gruppo portò a termine cinque sequestri, con relativi riscatti. Fu il pm romano Vittorio Occorsio a occuparsene per primo, avviando un'inchiesta che si concluse con lo smantellamento della banda dei marsigliesi. Occorsio era un magistrato scrupoloso che, pur avendo coltivato a lungo la pista anarchica nel corso delle indagini per la strage di piazza Fontana e ad altri attentati romani successivi, si era poi fatto notare come abile indagatore proprio delle organizzazioni neofasciste a tinte terroristiche, come per esempio Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1975. Albert Bergamelli, quando venne arrestato a Roma in un appartamento del 'residence Aurelio', con toni minacciosi evocò la protezione della sua persona da parte di una "grande famiglia", che gli avrebbe assicurato una sostanziale impunità. Inizialmente, si era pensato a una protezione dei marsigliesi, oppure della mafia. Ma le cose si erano via via 'ingarbugliate'. Occorsio individuò, invece, un collegamento specifico tra la massoneria deviata, il neofascismo romano e i marsigliesi: verrà assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, leader del gruppo neofascista 'Ordine Nuovo'. Poco tempo prima di morire fece alcune importanti confidenze a un giornalista de 'l'Unità', Franco Scottoni: una parte consistente dei riscatti provenienti dai sequestri di persona era stata destinata all'acquisto della sede dell'Onpam (Organizzazione nazionale per l'assistenza massonica) promossa da Licio Gelli. In particolare, i sequestri compiuti dai marsigliesi lasciano intravedere numerose tracce di 'Propaganda 2': l'avvocato Gian Antonio Minghelli, segretario della loggia, fu sospettato di aver riciclato i proventi dei rapimenti. E anche il padre, Osvaldo Minghelli, risultava affiliato alla P2. Il responsabile dell'operazione che portò all'arresto di Bergamelli era il funzionario di pubblica sicurezza Elio Cioppa, che venne trasferito al Sisde, il servizio segreto civile. E alcuni sequestrati appartenevano proprio alla loggia 'gellina'. Amedeo Ortolani era figlio di Umberto, principale collaboratore di Licio Gelli con 'amicizie' in Vaticano. Iscritto alla P2 era anche Alfredo Danesi, il re del caffè. Mentre il negozio del gioielliere Giovanni Bulgari si trovava sotto la sede del 'Centro studi di storia contemporanea', la 'copertura' della loggia di Gelli e Ortolani. Non è mai stato fugato il dubbio che, in realtà, alcuni di quei sequestri fossero stati simulati per celare altre manovre criminali, oppure al mero scopo di ricavare denaro liquido. Per esempio, la società di cui era presidente Amedeo Ortolani, la Voxon, navigava in cattive acque e rischiava il fallimento. Ebbene: dopo la vicenda del suo rapimento, la Voxon venne miracolosamente 'salvata' attraverso consistenti finanziamenti pubblici, tali da consentire all'azienda il pareggio di bilancio. L'esistenza della loggia 'Propaganda 2', il suo potere e le sue diramazioni non erano ancora venute alla luce. Ma l'attivismo di Gelli era già all'attenzione di inquirenti ed efficienti funzionari di polizia. Era noto, per esempio, il suo passato di collaborazionista dei nazisti durante l'occupazione dell'Italia settentrionale negli anni 1943-'45. E l'astro nascente della banda della Magliana, Danilo Abbruciati, aveva rivelato a un altro esponente del consorzio criminale romano, poi collaboratore di giustizia, Antonio Mancini, che Bergamelli godeva di potenti 'aderenze', poiché il 6 ottobre 1975 aveva partecipato all'attentato contro l'ex vicepresidente democristiano del Cile, Bernardo Leighton e di sua moglie. Nel tentato delitto, che fallì, erano coinvolti anche alcuni sicari della Dina, la polizia politica del dittatore cileno Augusto Pinochet, insieme ad alcuni neofascisti italiani come, per esempio, Stefano Delle Chiaie. Qualche anno dopo, emersero i saldi legami fra la loggia P2 e le dittature latinoamericane, fra cui quella dei militari argentini. Infine, anche il banchiere Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano ritrovato impiccato sotto al ponte dei 'Frati neri', a Londra, nel giugno del 1982 era notoriamente affiliato alla loggia massonica P2.

PASOLINI SAPEVA
Tutto questo coacervo di crimini, bugie, delitti e nefandezze ha incrociato anche la vicenda umana e intellettuale di Pier Paolo Pasolini. Nell'immediato, Pino Pelosi si ritrovò a essere l'unico imputato del suo assassinio. La difesa del ragazzo venne dunque assunta dagli avvocati Tommaso e Vincenzo Spaltro, ma questi vennero quasi subito sostituiti da Rocco Mangia, un democristiano che aveva già assunto la difesa dei giovani 'pariolini' torturatori e stupratori del Circeo. La nomina di quest'ultimo sarebbe stata suggerita, stando a quanto riferisce lo stesso Pelosi, da Franco Salomone, giornalista del quotidiano 'il Tempo' che era andato a intervistare i suoi genitori. La strategia preparata dall'avvocato Mangia è molto semplice: Pelosi avrebbe dovuto accollarsi la responsabilità esclusiva della morte del poeta e dichiarare che quella sera, all'idroscalo di Ostia, non era presente nessun altro. Il legale promise poi al ragazzo che sarebbe uscito di prigione nel giro di una quarantina di giorni, poiché l'istruttoria non sarebbe mai stata completata. L'avvocato Mangia nominò come periti di parte alcuni illustri professori, su cui tanto si sarebbe discusso: il professor Franco Ferracuti, psichiatra forense; il professor Aldo Semerari, criminologo; e la sua assistente, dottoressa Maria Fiorella Carraro. A posteriori, valutando anche altri elementi del caso, appare chiaro come fosse in atto un tentativo di organizzare intorno al Pelosi un 'cordone sanitario' teso a impedire l'emersione della verità sulla notte all'idroscalo. Il professor Ferracuti, oltre a essere considerato un luminare nel suo campo di ricerca e di attività, era iscritto alla loggia P2 e collaborava con la Cia e l'Fbi. Qualche anno più tardi fu chiamato dal ministro degli Interni, Francesco Cossiga, per entrare a far parte del Comitato di esperti che avrebbe dovuto occuparsi del caso Moro insieme all'esperto del Dipartimento di Stato americano, Steve Pieczenick, al quale Ferracuti offrirà la sua competente collaborazione. Il contributo dello psichiatra fu quello di sminuire la portata delle lettere scritte da Aldo Moro, mettendo in dubbio persino la capacità di intendere e di volere dell'ostaggio. Su questa congettura, funzionale a isolare definitivamente Moro, Ferracuti si ritrovò in piena sintonia con l'esperto americano. Inoltre, sua fu l'idea di far rapire alcuni brigatisti nelle carceri per condizionare l'esito del sequestro e mettere sul piatto della trattativa altra merce di scambio: un'operazione rischiosissima, dagli sviluppi imprevedibili. Qualcuno chiese persino a Turatello di cominciare a reclutare elementi della malavita per attuare il progetto. Ma il bandito milanese rifiutò, giudicando la cosa totalmente "strampalata", sia sotto il profilo organizzativo, sia in termini di utilità effettiva. Il professor Aldo Semerari, amico di Ferracuti, era invece un collaboratore del cosiddetto 'SuperSismi' diretto da vertici 'piduisti' e dal promettente faccendiere Francesco Pazienza, massone e diplomatico del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta. Semerari, innanzitutto, era un convinto nazista, che voleva rinnovare la strategia terroristica attraverso l'alleanza tra estrema destra e malavita comune. In questo senso, il criminologo romano è un personaggio centrale nella storia della banda della Magliana: nell'estate del 1978, a seguito all'opera di convincimento di un criminale comune con tendenze 'destrorse' - Alessandro D'Ortenzi detto 'zanzarone' - Semerari incontrò alcuni boss della banda della Magliana, tra i quali Franco Giuseppucci, presso la villa di Rieti del neofascista De Felice. Il professore voleva mettere in pratica il suo progetto terroristico, coinvolgendo quel consorzio criminale che stava scalando rapidamente le gerarchie della malavita romana. Giuseppucci e i suoi rifiutarono: pur essendo in gran parte simpatizzanti del neofascismo, essi erano soprattutto rapinatori, trafficanti, spacciatori e usurai. Ciò che li spingeva al crimine era solo il denaro. L'alleanza saltò, anche se in seguito non mancarono le occasioni in cui la banda della Magliana e i giovani neofascisti dei Nar collaborarono, specie per ciò che riguardava le rapine a mano armata, il riciclaggio di denaro sporco e altri generi di truffe. Pur non essendo riuscito nell'intento di reclutare la malavita più tracotante e a convertirla alla causa stragista, Semerari non fece mai mancare il suo aiuto a Cutolo, ai boss della Magliana e ai marsigliesi. Nei suoi propositi deliranti, nel luglio del 1980, in un periodo compreso tra la tragedia del DC9 di Ustica e la strage alla stazione di Bologna, compì due viaggi; prima nella Libia del colonnello Muhammar Gheddafi, poi negli Stati Uniti, per incontrare l'amico e collega Ferracuti. Cosa accadde in quell'arco di tempo? Gli inquirenti si convincono quasi subito che i responsabili della strage alla stazione di Bologna sono da ricercarsi nel frastagliato mondo della destra eversiva, fra Terza Posizione e i Nar. Dal momento in cui Semerari venne incarcerato iniziarono subito i tentativi di depistaggio del 'SuperSismi' di Gelli e Pazienza. Il professore potrebbe fare rivelazioni pericolose per tutti. Perciò, nel gennaio del 1981, alla stazione di Bologna centrale fu fatta ritrovare una borsa con giornali tedeschi e francesi, barattoli con esplosivo simile a quello utilizzato nella strage dell'anno precedente e un fucile automatico. Quest'ultimo proveniva dal deposito di armi collocato all'interno del ministero della Sanità, nella piena disponibilità della banda della Magliana e di quelle della destra neofascista. Qualche giorno prima, i centri di controspionaggio avevano lanciato un allarme sul pericolo di una 'Operazione terrore sui treni' da parte di organizzazioni terroristiche straniere. Ma si trattava di un altro depistaggio, ideato e organizzato dai 'piduisti' del 'SuperSismi' allo scopo di alleggerire anche la posizione del professore. Al di là dell'effettiva responsabilità della strage italiana più grave di sempre, la vicenda che investì anche il professor Semerari illumina una rete di rapporti fra P2, servizi segreti militari, banda della Magliana e destra eversiva. Non essendo emerse prove a suo carico, il professore venne scarcerato e il suo nome riapparve più avanti in un'altra brutta storia, che coinvolse ancora una volta il solito 'SuperSismi'. Qualche giorno prima della morte rivendicò la paternità di un documento, falso, che accusava alcuni esponenti democristiani di essere coinvolti nelle trattative per la liberazione dell'assessore campano Ciro Cirillo. Il documento era stato pubblicato da 'l'Unità'. Ciro Cirillo era stato sequestrato, nell'aprile del 1981 da un commando delle Brigate Rosse - Partito guerriglia, una nuova 'colonna' fondata da un ambiguo collega di Semerari, Giovanni Senzani, anche lui in odore di 'servizi deviati'. Per la liberazione si attivarono alcuni amici democristiani di Napoli e vari settori dei servizi segreti militari. Venne chiesta persino la mediazione del boss in carcere della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo. Si giunse alla liberazione dopo una trattativa dai contorni oscuri. E non solo per il pagamento di un riscatto: sul 'piatto' vi erano anche gli appalti per la ricostruzione del 'dopo terremoto' in Irpinia. Il 1 aprile 1982, il corpo decapitato del professore venne ritrovato a Ottaviano, davanti all'abitazione di Cutolo. Sullo sfondo, la sanguinosissima guerra di camorra che opponeva la Nuova camorra organizzata alla Nuova famiglia di Ammaturo, organizzazione criminale che rappresentava quelle fazioni della camorra ancora legate a 'Cosa nostra' siciliana. Ma il professor Semerari era caduto vittima dell'ennesima guerra di mafia, oppure si era voluto eliminarlo in quanto testimone 'scomodo' in quegli anni di atrocità e di 'connubi' criminali? Quel macabro ritrovamento fece pensare anche a un messaggio lanciato proprio a Cutolo, invischiato nelle trattative per la liberazione dell'assessore Cirillo. Nel medesimo giorno venne rinvenuto il corpo della collaboratrice e compagna, Maria Fiorella Carraro, presumibilmente 'suicida'. Insomma, un collegio di periti veramente 'raccomandabile', quello di Pino Pelosi, che comunque finì col rimanere in carcere per più di nove anni! Emerge, con una certa chiarezza, come negli anni '70 del secolo scorso - e chi non lo vuol ricordare, più che dalla propria ipocrisia dovrebbe cominciare a guardarsi, a questo punto, dal proprio 'rimbambimento'... - alta criminalità, violenza a sfondo politico e malavita comune convivevano fondendosi e confondendosi tranquillamente tra loro, in un circuito criminale complessivo che venne a lungo utilizzato dai cosiddetti 'poteri forti' e dalla criminalità mafiosa, per compiere i delitti più efferati. Pasolini era assolutamente certo dell'esistenza di questo tipo di relazioni. E molti elementi raccolti in questi anni mi hanno indotto a credere che egli fosse alla ricerca di quelle prove che, dalla periferie e dai bassifondi romani, lo conducessero direttamente al 'Palazzo', con le sue consorterie, le sue congreghe, i suoi conflitti di potere. E' assai probabile che, tramite le sue frequentazioni di borgata, avesse cercato di indagare sui malfattori siciliani e romani coinvolti nella "strategia della tensione", o su quel neofascismo capitolino che reclutava adepti non solo tra i 'pariolini', ma anche tra malavitosi e 'borgatari'. Una simile indagine in quegli anni era da considerarsi assai rischiosa, poiché esponeva Pasolini a pericoli enormi. Allo stesso tempo, pur essendo estraneo al Palazzo, il poeta friulano si stava impegnando per individuare i reali mandanti della "strategia della tensione", al di là delle coperture offerte dai democristiani. Sappiamo, inoltre, che egli s'era gettato alacremente nell'impresa di congegnare e ultimare il romanzo 'Petrolio', nella certezza che il vero potere fosse gestito, in Italia, da chi, a quei tempi, aveva in mano la politica energetica. Il giorno stesso della morte di Pier Paolo Pasolini, la cugina Graziella Chiarcossi denunciò un furto nella casa del romanziere: oltre a valori e gioielli sarebbero state rubate delle carte a cui, evidentemente, i mandanti dei ladri erano assai interessati. Semplice coincidenza? 'Petrolio' è rimasto incompiuto, una sorta di 'Zibaldone' di schemi e appunti per un romanzo che, sorprendentemente, la casa editrice Einaudi decise di pubblicare solamente 'all'alba' del 1992, dopo quasi vent'anni dalla scomparsa del suo autore, al termine della Guerra Fredda e in piena Tangentopoli, quando alcuni 'altarini' - solamente alcuni, come testimoniato dalla controversa vicenda di Bettino Craxi, utilizzato come principale capro espiatorio di un sistema di potere da sempre 'pilotato' da potenze straniere, che non intendeva più farsi ricattare politicamente e che stava invece già pensando a 'riciclarsi' - iniziarono a venire alla luce. Ma cosa poteva dare così tanto fastidio di 'Petrolio'? In particolare, i ladri che erano riusciti a entrare in casa di Pasolini nella notte stessa della sua uccisione avevano 'sfilato' l'appunto numero 21, intitolato 'Lampi sull'Eni' e dedicato alla figura di Eugenio Cefis, potente manager del settore petrolifero che era stato prima braccio destro di Enrico Mattei e che, dopo la morte di quest'ultimo, gli era succeduto nella carica di presidente. In seguito, Cefis, nel 1971, era anche riuscito a 'scalare' i vertici della Montedison. Spregiudicato e senza molti scrupoli, costui tentò di costituire in Italia un monopolio energetico per creare un sistema di potere finanziario, industriale e politico in competizione con quello delle storiche famiglie del capitalismo industriale italiano (Agnelli, Pirelli, Falck). In effetti, 'Petrolio' è imperniato proprio sul difficile rapporto tra i due personaggi che avevano portato l'Eni tra le potenze economiche internazionali: se Mattei/Bonocore, pur nella sua condotta spregiudicata, cercava di mettere le proprie capacità al servizio della collettività attraverso una visione del capitalismo che, comunque, soggiacesse agli interessi generali, Cefis/Troya mira a estendere la propria influenza personale attraverso quella commistione fra speculazione finanziaria ed economia privata, in quella confusione tra etica pubblica e interesse privato che rappresentano i veri tratti distintivi dei molteplici conflitti di interesse che hanno finito col caratterizzare l'attuale fase di neocapitalismo globale. Comunque, i due erano antichi amici, avendo militato insieme nella brigata partigiana 'bianca' della Val d'Ossola di Alfredo di Dio, che collaborava intensamente con gli alleati angloamericani e con il Sim, il servizio segreto militare della monarchia. Militare di carriera, Cefis aveva familiarizzato con Enrico Mattei, che si era dimostrato un organizzatore efficiente e infaticabile. E' assodato che, attraverso le formazioni 'bianche' della Resistenza come quella di Alfredo di Dio, ebbero origine i primi nuclei di quella che diventerà la 'Gladio', cioè la sezione italiana della 'Stay behind' allestita dagli americani. Lo stesso Mattei è stato spesso indicato come uno dei fondatori della struttura paramilitare. Tuttavia, in qualità di presidente dell'Eni, il potente manager voleva porre le condizioni per l'indipendenza energetica ed economica dell'Italia, condizione imprescindibile per proiettare il nostro Paese tra le grandi potenze, facendolo emergere dalla limitata condizione di mera 'provincia' dell'impero americano. Come abbiamo visto, il suo attivismo lo mise in contrasto con il cartello petrolifero americano, inglese, olandese e francese delle 'Sette sorelle'. Per contro, la figura di Cefis è sempre stata avvolta da una serie di ambiguità e di misteri che non sono mai stati spiegati fino in fondo. Sarà forse il dubbio sull'affidabilità dell'amico a convincere Mattei a chiederne le dimissioni, qualche mese prima della sua morte? Sembra infatti che Cefis avesse cercato di trafugare alcuni documenti riservati dell'Eni. Dopodiché, avvenne la nota fine di Mattei: il 27 ottobre 1962, il suo aereo privato si schiantò sul suolo di Bascapè, in provincia di Pavia. Eccoci, dunque, tornati esattamente al punto di partenza: non ci vogliono certo poteri taumaturgici per individuare, in tutti questi fatti, un'unica regia, probabilmente sostenuta da forze che facevano riferimento ai servizi segreti della principale potenza bellica mondiale: quella americana. La tragedia di Bascapè fu il primo autentico atto di terrorismo compiuto nel nostro Paese, che ha segnato l'inizio di un fosco periodo di attentati, stragi e lutti. Per interi decenni, ha resistito la versione ufficiale dell'incidente e, solo recentemente, grazie all'inchiesta del giudice di Pavia, Vincenzo Calìa, è stata approfondita l'ipotesi del sabotaggio, affidato a sicari della mafia italoamericana e siciliana, o a uomini dell'organizzazione terroristica Oas. Mattei aveva sostenuto l'indipendenza algerina da Parigi e aveva appoggiato il Fronte di liberazione nazionale dell'Algeria, suscitando le ire dei colonialisti dell'Oas. A ogni modo, come in tutti i grandi delitti possono avere agito cointeressenze, poiché l'eliminazione di Mattei era certamente cosa gradita a molti, a cominciare dal 'cartello' petrolifero delle 'Sette sorelle'. Cefis era quantomeno a conoscenza del tentativo, poi riuscito, di eliminare Mattei. E qualche anno dopo, nel 1967, assunse la carica di presidente dell'Eni sotto i migliori auspici dei potenti ambienti della finanza e dell'economia americana. Con l'aiuto del presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia, è poi riuscito a scalare la Montedison. Al contempo, per rinsaldare il proprio potere e la propria influenza, diede l'assalto ai mass media e alla carta stampata, contribuendo alla fondazione del 'Giornale Nuovo' insieme al più autorevole giornalista italiano, Indro Montanelli, che si era allontanato dal 'Corriere della Sera' diretto da Piero Ottone perché troppo 'spostato' a sinistra. L'interesse di Pasolini per Cefis e il suo sistema di potere era nato dalla lettura del pamphlet: 'Questo è Cefis: l'altra faccia dell'onorato Presidente', da cui gran parte delle notizie riportate in 'Petrolio' sono tratte. L'autore era un tal Giorgio Steimetz, pseudonimo del giornalista Corrado Ragozzino, direttore dell'Ami (Agenzia Milano Informazioni). Quest'ultima era finanziata da Graziano Verzotto, un altro discusso personaggio, già collaboratore di Mattei e presidente dell'Ems (Ente minerario siciliano). Il poeta friulano ricostruì ben presto il complesso sistema finanziario allestito da Cefis e dai suoi alleati, individuando altresì un complesso e trasversale sistema di potere in grado di manovrare tanto l'estrema destra, quanto l'estrema sinistra tramite l'utilizzazione di elementi della criminalità organizzata e comune. Era chiaro, per Pasolini, che l'origine di una simile organizzazione risaliva sino alla guerra e a quel gruppo di resistenti anticomunisti e antifascisti che avevano collaborato con gli angloamericani. Perciò, iniziò a suddividere il periodo della "strategia della tensione" in due fasi ben distinte: la prima - che culminò con la strage di piazza Fontana - con finalità anticomunista, che doveva promuovere la repressione delle sinistre italiane; la seconda, risalente alla fase 1973-'74, che viceversa si prefiggeva di 'scaricare' i fascisti per "rifarsi una verginità" dopo il fallimento della 'crociata' anticomunista. Un'analisi lucida, fondata su indizi consistenti. La tesi 'pasoliniana' pare esser stata apparentemente avvalorata da un misterioso testimone di destra in un'intervista del giornalista Paolo Cucchiarelli, riportata nell'opera 'Il segreto di Piazza Fontana', edizioni Ponte alle Grazie. L'ex sedicente militante neofascista, che afferma di essere a conoscenza di molti segreti sulla madre di tutte le stragi, asserì che i capitali del petrolio di Cefis - assieme a quelli americani - servirono a finanziare la "strategia della tensione" attraverso il traffico d'armi. Non è dato sapere quanti retroscena fossero a conoscenza di Pasolini. Quel che appare certo è che il suo omicidio venne accuratamente pianificato. Quanto a Cefis, apparentemente il suo potere declinò nel 1977, allorquando fu costretto a lasciare il Paese per la Svizzera e il Canada, poiché il suo nome iniziò a venir associato a vari tentativi di 'golpe', come quello del principe 'nero' Junio Valerio Borghese. Secondo una nota riservata del Sismi, emersa durante le indagini sulla morte di Mattei condotte dal pm Vincenzo Calìa, Eugenio Cefis era il vero capo della loggia P2. E solamente in una seconda fase egli la affidò nelle mani di Licio Gelli e di Umberto Ortolani, da sempre suoi uomini di fiducia. In effetti, con la fuga di Cefis, l'influenza della P2 aumentò a dismisura, penetrando nelle istituzioni, negli organismi dei servizi segreti, nelle banche, nei giornali e nei telegiornali. Tutto in attuazione di quel 'Piano di rinascita democratica' che non era un progetto semplicemente golpista, ma il tentativo di 'esautorare' l'assetto costituzionale dello Stato, per mutarne la sua natura parlamentare. Si è visto come Cefis attribuisse grande importanza ai mass media e ai giornali nel plasmare l'opinione pubblica, orientandola secondo gli indirizzi voluti. Infatti, il piano della P2 ha sempre assegnato un ruolo fondamentale al controllo di stampa e televisione. Attraverso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, nonché coinvolgendo Rizzoli e Tassan Din, la P2 era riuscita a ottenere, per qualche anno, persino il controllo del 'Corriere della Sera', il più importante quotidiano italiano. Ma il 'sistema Cefis' e la loggia P2 di Gelli e Ortolani erano una cosa sola? Oppure, la seconda è la derivazione 'storica' della prima? Nel 1973, nel corso del processo di unificazione massonica fra la comunione del Grande Oriente e quella di piazza del Gesù, i 'fratelli' della loggia 'coperta' di piazza del Gesù, 'Giustizia e Libertà', confluirono direttamente nella P2 del Grande Oriente. Fra le personalità più eminenti e influenti della prima vi era proprio quella di Eugenio Cefis. L'intero processo rientrava nel tentativo di dare alla massoneria italiana un indirizzo saldamente conservatore, creando una sorta di Partito 'occulto', capace di incidere profondamente nella società e nelle istituzioni. Nella sua scalata ai massimi vertici del potere finanziario, industriale ed economico, Cefis contò fra i suoi alleati proprio il finanziere 'piduista' Ortolani e altri. La continuità si evince anche da altri riscontri: innanzitutto, negli anni '70, la Banca Nazionale del Lavoro, di cui era presidente il 'piduista' Alberto Ferrari, si presentava come una generosa cassaforte a disposizione sia di Cefis, sia della P2. Fra gli altri facoltosi 'clienti' spiccavano anche i nomi del finanziere Michele Sindona, un losco personaggio per lungo tempo tenuto in gran conto da più potenti ambienti finanziari e politici americani e italiani, insieme a un certo Silvio Berlusconi, a quei tempi costruttore edile. Le transazioni venivano effettuate grazie alla holding della Bnl 'Servizio Italia', diretta da Graziano Graziadei. Come sappiamo, fra gli obiettivi più impellenti perseguiti dalla P2 c'era l'istituzione di una sorta di monopolio mediatico tramite il controllo della stampa e dell'editoria, insieme alla dissoluzione della televisione pubblica, da rimpiazzare con un grande network privato di portata nazionale. Non è difficile rintracciare nell'impero mediatico 'berlusconiano' la concretizzazione di tali propositi. In conclusione, il 'sistema Cefis' venne in qualche modo 'ereditato' dal gruppo di esponenti politici e personalità pubbliche raccolte attorno alla loggia P2. Furono questi i 'fili mortali' che Pier Paolo Pasolini aveva individuato sin dai primissimi anni '70 del secolo scorso. Ammettiamo che Pasolini sia riuscito non solo a comprendere le logiche di quel potere 'invisibile', ma anche a ricostruirne, almeno in parte, alcuni segmenti; supponiamo che, attraverso confidenze e testimonianze raccolte nelle borgate fosse riuscito a 'scovare' alcuni luoghi di incontro tra la malavita romana e l'estremismo neofascista; ipotizziamo, inoltre, che intuitivamente avesse compreso che nella capitale d'Italia fosse presente un 'miscuglio' criminale e mercenario, che offriva i propri servizi ai 'poteri forti'; immaginiamo vieppiù che fosse riuscito a ricomporre alcune fasi importanti della biografia di Cefis e di quel sistema di potere ereditato, in seguito, dalla P2. E' chiaro che non è poi così assurdo ipotizzare che qualcuno abbia potuto pianificare il suo omicidio; che con la scusa del recupero delle 'pizze' di 'Salò' possa esser stato attirato in una 'trappola'; che Pelosi sia stato utilizzato, consapevolmente, come 'esca'; che Pier Paolo Pasolini sia stato ucciso all'idroscalo, ovvero in un posto generalmente frequentato da prostitute e 'marchettari', al fine di sviare le indagini verso la pista del delitto maturato negli ambienti della prostituzione omosessuale; che la presenza di alcuni ladruncoli sul posto servisse ad attirare l'attenzione sul "tentativo di furto finito male"; che, al contempo, mentre Pasolini veniva massacrato da un gruppo di picchiatori professionisti, reclutati probabilmente nell'ambiente dello squadrismo neofascista o fra gli elementi più decisi e pericolosi della delinquenza romana, altri si occuparono di trafugare gli appunti più compromettenti del grande romanziere presso la sua abitazione. Bastava solo che si diffondesse il timore che Pasolini sapesse molto di più di quello che aveva scritto in quell'editoriale sul 'Corriere della Sera' intitolato, non a caso: 'Il romanzo delle stragi'. E che stesse per pubblicare delle prove che avrebbero potuto 'inchiodare' una serie di influenti personaggi immischiati, in un modo o in un altro, nei giochi di potere più 'sporchi' della nostra Storia.
 



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Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - domenica 25 marzo 2018 21.20
RISPOSTA AD ARBOR N. 2: qui di isterico ci sono solamente le sue di rispote. Le ho dimostrato che il suo presupposto è puramente moralista, cioè non discendente da alcuna etica del lavoro. Lei proprio non vuol capire che un lettore può certamente criticare, ma che le sue critiche, quelle cioè del signor ARBOR tutto maiuscolo, lasciano solamente il tempo che trovano. Un giornalsita scrive per il lettore e svolge un servizio estremamente altruista. Eppure, lei senza aver mai scritto una riga in vita sua, si permette di criticare: è la stessa pessima figura di chi al ristorante maltratta un cameriere che ha cercato di servirla con efficienza e disponibilità. E questa sua mancanza di rispetto appare talmente evidente da non meritare alcuna risposta, poiché vale esattamente quello che vale. E cioè nulla.
ARBOR - MILANO - Mail - sabato 31 ottobre 2015 17.50
Egr. Sig. giornalista (sic!) Lussana, vorrei rammentarLe che chi scrive, e pubblica i suoi scritti, ovviamente si espone alla critica di chi legge, altrimenti i suoi articioli se li ponga sul comodino e se li legga ogni sera dicendosi quanto sono belli e profondi. Ma non si permetta di chiedere agli altri che leggono che titolo hanno per criticare: io sono un lettore e mi avvalgo del dirtitto di criticare chiunque offra le sue opinioni al pubblico.
Per quanto riguarda Roma stendiamoci un pietoso drappo funereo, chiunque abbia l'opportunità di transitare per le strade (o negli uffici) dell'Urbe ha modo di vedere lo stato pietoso in cui la città si dibatte, per non parlare della periferia che è il vero quadro della situazione. Tralasciando i secoli che ha alle spalle ci vuole poco per fare una semplice cartina di tornasole, basta andare a Merano, Pordenone, Lodi, Ferrara, Verona e ci si rende conto che con un po' di senso civico è possibile creare una comunità (anche se non perfetta) dove socialmente si possa vivere senza senza sottostare alle imposizioni di organizzazioni (statali o parastatali) al di fuori della legge e del senso civico. Fermo restando che quelle organizzazioni sono composte da Romani non da marziani.
Per quanto riguarda Pasolini (che era friulano, quasi un mio conterraneo) mantengo il mio pensiero: grande scrittore, ottimo regista, ma molto opinabile dal punto di vista morale, fose stato anche Dante Alighieri questo non lo giustificava se andava a fare marchette a pagamento con dei ragazzini, se lei ritiene che il genio possa concedere questi diversivi rimane una sua opinione, io la penso in modo diverso senza però dare del mentecatto alla controparte. Come invece sembra sia il suo intendimento.
Quando risponde ad un lettore cerchi di scendere dalla cattedra, ed esamini con un po' ragionevolezza quanto ha letto, non iscrivendosi de facto alla schiera di quelli che appaiono alla madonna e conseguentemente hanno sempre ragione. La sua risposta mi è apparsa un po' isterica e preconfezionata.
Cordiali Saluti
Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - giovedi 29 ottobre 2015 23.14
RISPOSTA AD ARBOR: caro lettore, sa cosa dicono a Roma dei milanesi che la pensano come lei? "Di dove sei, tu? Di Milano? A bello! Non hai capito un cazzo...". In secondo luogo, che lei definisca "santino" un'inchiesta giornalistica ben documentata, costata anni di sforzi e di ricerche, dà la misura intorno all'esistenza di una forte mancanza di cultura del rispetto nei confronti delle professioni esercitate da altri. Un populismo schifoso e bastardo, che porta quelli che la pensano come lei a esprimere giudizi sul lavoro del prossimo senza averne alcun titolo. Nessuno viene a contestare o a criticare il suo di lavoro, ma lei si permette di farlo con quello degli altri con toni e giudizi francamente inaccettabili. Le ricordo inoltre che la città di Roma è capitale d'Italia dal 1870. E che solamente per questo ha dovuto convivere per un secolo e mezzo con la gran parte del marcio di cui cerchiamo di occuparci ogni giorno, a cominciare dalle borgate di una città senza industrie, puramente amministrativa e con un'economia di servizi. Un peso che Roma ha portato sulle proprie spalle con grande generosità e umanità, sopportando di tutto. E che le altre città d'Italia dovrebbero soltanto provare a portare, anche solo per un decennio, per riuscire a comprendere cosa significhi. Infine, su Pasolini il suo giudizio, ingeneroso e distante, è troppo esogeno e condizionato dal moralismo televisivo superficiale e perbenista di chi si limita a osservare la Storia dal buco della serratura. Non si permetta mai più di macare di rispetto nei confronti del lavoro altrui, alla luce soprattutto di tutte le schifezze fatte circolare ogni giorno da gente che, nel condurre un'inchiesta, non saprebbe neanche da dove cominciare: si vergogni di se stesso, se possiede ancora un minimo di decenza. VL
ARBOR - MILANO - Mail - giovedi 29 ottobre 2015 17.16
Il santino (anzi il santone) relativo a Pasolini, lascia molto perplessi: si mescolano tutti i problemi insoluti (Mattei, Moro, P2, ENI, Piaza Fontana, strategia del terrore, ecc. ecc. forse mancano Barabba e Lazzaro) lasciando intravvedere che lui ne avesse la soluzione in tasca, ma chissà per quale motivo non voleva fare nomi e cognomi. Io so .... ma non dico.
Riguardo al personaggio dovremmo essere uo po' più pragmatici, senz'altro era un buon scrittore e regista (con leggeri risvolti da guardone, vedi Salò), però dal punto di vista umano decisamente criticabile. Omosessuale (non è una colpa) che andava nelle borgate a ramazzare ragazzini (di vita) che per pochi spiccioli gli fornivano prestazioni sessuali, praticamente siamo a livello delle minorenni romane che recentemente scoperte facevano lo stesso servizio, però nessuno le ha giustificate e tantomeno i loro clienti, non essendo illustri intellettuali.
Cerchiamo di non santificare nessuno sulla base delle sue opere, e non facciamone un'icona a 360 gradi dandogli la patente di vate sotto tutti i punti di vista.
Anna Maria - Genova - Mail - giovedi 29 ottobre 2015 0.12
Pasolini aveva un gran fiuto..... eccome indovinava.....
Laura - Cesenatico (FC) - Mail - mercoledi 28 ottobre 2015 19.45
Quanto ci manca Pasolini oggi.....
Marina - Urbino - Mail - mercoledi 28 ottobre 2015 1.24
Pelosi dopo avergli tolto la vita ha cercato anche di togliere la dignità a questo uomo meraviglioso e "scomodo" a molti.
Dentro di me è come se lo avesse ucciso più e più volte.
Con Pasolini è morto il pensiero libero e la verità !
Mario Di Domenico - Roma - Mail - lunedi 26 ottobre 2015 14.10
Complimenti per la lucida trascrizione dei fatti piu' rilevanti di quei torbidi anni e le deduzioni sulla morte del grande poeta condivise quasi in tutto dal mio amico Silvio Parrello.
Massimo - Roma - Mail - domenica 25 ottobre 2015 19.23
Io non sono di sinistra, anzi proprio l'opposto, ma quanto mi manca Pasolini....e bisogna trovare la verità sulla sua morte
Maria - Roma - Mail - domenica 25 ottobre 2015 17.58
L'introvabile Petrolio lo consegnò alla morte...


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