Carla De LeoNel 2013 appena trascorso è diminuito il numero degli italiani con un impiego (55,4 % della popolazione) ed è salito il tasso di disoccupazione (+391 mila rispetto all’anno precedente). Colpiti anche i giovani senza lavoro in età compresa tra i 15 e 24 anni. La situazione sta comportando un notevole aumento delle persone che versano in condizioni di povertà, sia relativa (15,8%), sia assoluta (8%), indici di un Paese in coma profondo. Inevitabilmente, il nuovo anno ‘costringe’ a tirare le somme di quanto accaduto nell’arco dei 365 giorni trascorsi. Proviamo, allora, a fare un ‘punto’  in merito ai risultati raggiunti in Italia nel 2013 appena conclusosi. Il quadro generale della situazione economico-sociale a cui, ormai da lungo tempo, stiamo assistendo non ha nulla a che vedere con l’immagine di un Paese dinamico, pronto e maturo per affrontare e superare la crisi e diretto verso obiettivi (soprattutto politici) che possano riaccendere il motore economico, ridare credibilità alla nostra Italia e rendere nuovamente competitive aziende, prodotti, eccellenze ma anche personalità del nostro territorio. Una classe dirigente che da troppo tempo ha ‘smarrito la dritta via’ e che - come accade quando ormai è troppo tardi per rimediare ad un danno di proporzioni enormi - non sa proprio dove ‘sbattere la testa’ da una parte; la profonda recessione dall’altra, che di fatto ha paralizzato un intero Paese e arrestato una qualsiasi marcia in avanti e di sviluppo. Queste le tristi realtà con le quali si devono confrontare, ogni giorno, i cittadini. “Gli italiani sono capaci di grandi sacrifici”, rassicurava qualcuno durante il Governo tecnico del professor Mario Monti. Ma agli enormi sforzi richiesti, le attese sono state, il più delle volte, deluse. Tant’è che in tanti hanno gettato la spugna: accantonate le speranze di riuscire a trovare una qualsiasi occupazione (molti non ci provano nemmeno più), lo ‘sport’ principale dell’italiano è diventato, in un primo momento, il ‘camaleontismo’, ovvero l’abilità e la capacità (dettata più da necessità pratiche che da personali ‘vocazioni’) di districarsi ‘alla meno peggio’ fra i tanti problemi quotidiani. E, successivamente, ‘la bella statuina’. Si, perché un’intera popolazione, purtroppo, è stata testimone oculare di una situazione in cui sembra che al peggio non vi sia mai fine. E quando anche l’ultima certezza è crollata, non si è potuto far altro che assistere inermi e impotenti alla disfatta di un Paese che non è più in grado di offrire alcuna sicurezza ai suoi figli. A questo punto, il malessere non ha tardato a farsi sentire. Il principale disagio a cui facciamo riferimento è quello generato dall’instabilità del mondo del lavoro, in un contesto sociale che sta quasi dimenticando cosa significhi persino la parola ‘lavoro’, dal momento che ogni giorno centinaia (per non dire migliaia) di piccole e medie imprese chiudono i battenti e che di posti da occupare non se ne vede nemmeno l’ombra. Quella del lavoro dovrebbe essere la priorità e la prima urgenza di un’agenda politica che si rispetti. Avere un’occupazione dovrebbe essere una garanzia (e non una ‘grazia ricevuta’), che tutti dovrebbero vedersi riconosciuta. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Parole sagge (ma, oggi, solo parole, alle quali si stenta a credere che costituiscano l’articolo fondante della nostra Costituzione) non solo perché, attraverso il salario, si possono soddisfare le necessità materiali, quantomeno quelle primarie, degli individui, bensì perché favorire le condizioni per generare posti di occupazione significa dare speranza e dignità alle persone, affinché tutti possano sentirsi utili e parte integrante della società, concorrenti al bene proprio, a quello della propria famiglia e anche a quello collettivo. Senza lavoro siamo solo fantasmi che nessuno vuole, nessuno vede, nessuno riconosce. Allo stato, bisogna ammettere che la situazione italiana sia questa: viviamo all’insegna dell’incertezza e di un futuro che si prospetta più ignoto che mai. Il senso di preoccupazione cresce vertiginosamente quando si prendono in analisi alcuni ‘disastrosi’ parametri, riferiti al 2013: mentre a settembre le persone con un impiego erano 22 milioni 349 mila, se risaliamo all’inizio dell'anno, gli occupati erano 490 mila in più (il tasso di occupazione risulta, quindi, in diminuzione del 2,1% su base annua e dello 0,4% rispetto al solo mese precedente); il numero di disoccupati, che era pari a 3 milioni 194 mila, nel corso dell’anno appena trascorso è aumentato del 14% (+391 mila) e dello 0,9% rispetto al mese di agosto (+29 mila). La piaga della mancanza di lavoro investe inesorabilmente il mondo dei giovani in cui, sempre nel 2013, i disoccupati tra i 15 e i 25 anni sono arrivati a quota 654 mila, ovvero il 40,4% del totale (fonte: Istat). A queste cifre va aggiunto il considerevole tasso di inattività (36,4%). Gli individui inattivi, in età compresa tra i 15 e i 64 anni, sono infatti aumentati dello 0,5% rispetto al solo mese precedente (+71 mila). In un contesto in cui diminuisce il numero dei lavoratori mentre cresce quello dei disoccupati e degli inattivi, aumenta anche il numero di persone che disporranno di un reddito e di un potere economico vicini allo zero. Infatti, sempre nel 2013, bisogna inserire un altro elemento di forte preoccupazione: quello dato dall’allarmante aumento del numero delle famiglie che versano in condizioni di povertà - sia relativa, sia assoluta - che negli ultimi anni si sta manifestando in costante crescita. Andando all’indietro, nel 2012 erano 3 milioni 232 mila le famiglie italiane relativamente povere (pari al 12%), mentre 1 milione 725 mila (6,8%) versavano in condizioni di povertà assoluta. In termini di persone, stiamo parlando del 15,8% (povertà relativa) e dell’8% (povertà assoluta) della popolazione. Nel 2011, la povertà relativa coinvolgeva, invece, l’11,1% delle famiglie, quella assoluta il 5,2%. Nel 2010 le famiglie in povertà relativa costituivano l’11% e quelle in povertà assoluta il 4,6%. Nel 2009 l’incidenza della povertà relativa era pari al 10,8%, mentre quella assoluta risultava pari al 4,7%. Va da sé che, ripercorrendo i trend della povertà in Italia, questa risulta crescente di anno in anno. E tutto fa presagire che, sebbene non siano ancora disponibili le stime definitive riferite a tutto il 2013, le percentuali saranno, anche in questo caso, in aumento rispetto all’anno precedente. Un siffatto ‘quadro’ offre l’immagine di un Paese in declino, con milioni di individui abbandonati a loro stessi, o in condizioni di forte difficoltà economica. Tant’è che qualcuno si è ‘risvegliato’, capendo la portata e l’importanza dell’emergenza e la necessità di favorire la coesione sociale nel nostro Paese. Con questo scopo è nata, per esempio, ‘Labitalia’, l’alleanza da poco stretta e sottoscritta tra associazioni, sindacati e organizzazioni di categoria che sta prendendo molto sul serio il tema della povertà assoluta. La promessa è quella di considerare primaria una questione che dev’essere affrontata immediatamente, attraverso la costituzione di un piano che garantisca qualcosa di duraturo e continuativo perché solo in questo modo si può restituire dignità ed eguaglianza ai cittadini. Sicuramente, iniziative del genere sono ammirevoli e costituiscono più che un ‘palliativo’, assicurando alle persone che non ce l’hanno, almeno un pasto caldo. Ma non basta: agli italiani non deve e non può bastare il pane offerto da qualcun altro. L’Italia ha bisogno di risposte, di riforme, di leggi che tutelino i lavoratori e le piccole aziende (il cuore e il motore del Paese) e non più di normative create ad hoc per proteggere gli interessi della classe politica. Basta polemiche, intrighi di palazzo e corruzione. Altrimenti, tra non molto non vi sarà più nulla da governare: il nostro è già un Paese alla deriva.


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