Carla De LeoPer il 96% degli italiani, la riservatezza dei propri dati costituisce un diritto inviolabile, ma nell’era digitale la tecnologia può diventare un’arma a doppio taglio. A voi che siete costantemente ‘connessi’: non rivelate ‘in rete’ ogni vostra minima azione quotidiana. Pena: la certezza di essere ‘spiati’

Cosa pensano gli italiani della tutela del loro privato? Soprattutto nell’era telematica, dove i ‘navigatori’ della rete possono essere monitorati e rintracciati in ogni azione quotidiana? Una recente ricerca del Censis ce lo ha rivelato, facendoci scoprire che, per il 96,2% della popolazione ‘nostrana’, la protezione e la riservatezza dei dati personali è considerato un diritto inviolabile. Inoltre, dalla stima emerge anche un profondo scetticismo poiché è largamente condivisa la convinzione che garantire la privacy sul web sia impossibile, in particolar modo sui social network, dove la mancata distinzione tra ‘pubblico’ e ‘privato’ rende vana la definizione stessa di privacy, svuotata del suo intrinseco valore. Tra i ‘connessi’, infatti, solo il 7,5% degli utenti considera soddisfacente la legislazione vigente sulla privacy, mentre il 54% ritiene necessario introdurre misure cautelari più severe e sanzioni più dure nei confronti dei trasgressori. E ancora, una buona parte degli italiani (1 su 10) è convinta che sia meglio non lasciare tracce su internet e considera pericoloso fornire i propri dati personali, poiché espone anche al rischio di truffe. Utilizzare la carta di credito per effettuare acquisti on line? Anche questo è poco consigliabile: meglio evitare. Con percentuali così elevate, non ci sono dubbi: per gli italiani la privacy ‘non-si-tocca’. Essa costituisce un elemento imprescindibile dell’identità di ogni singolo individuo e non deve essere profanata. Nemmeno oggi, nella grande era delle condivisioni e nonostante i grandi cambiamenti in materia di accesso alle informazioni suscitati dalla larghissima diffusione di internet, dei social network e dei media digitali. Sarà, perciò, sufficiente apportare qualche piccola modifica nel nostro stile di vita. E nessuno correrà il rischio di vedersi violata la privacy. Resta pur vero che, nel ‘Belpaese’, le persone adorano chiacchierare, amano stare in compagnia e ‘condividere’ le loro esperienze di vita con gli altri. Oggi, tuttavia, con una tecnologia che come un ‘Grande fratello’ tutto osserva e tutto conosce, bisogna stare veramente in guardia. A queste condizioni, anche il soggetto più socievole si converte: condividere sì, ma fino ad un certo punto. Ecco perché gli utenti della rete incitano a stare con ‘gli occhi aperti’ e a ‘barricarsi’, per contrastare efficacemente il rischio ‘spiate’. La paura maggiore risiede nella consapevolezza che ‘i principali indiziati’ - i grandi operatori del web (come Google o Facebook) - possiedono enormi banche dati sugli utenti. E ciò fa sorgere il sospetto che tutte quelle informazioni potrebbero essere utilizzate ‘contro di loro’, a scopi commerciali (per il 72,3%) o politici (per il 60,7%). La cosa lascia presagire un futuro funesto, in cui il potere risiederà nelle mani di chi deterrà il maggior numero di dati personali, che potranno essere utilizzati per i fini più svariati. Ecco, allora, che sta prendendo sempre più piede - raccogliendo molti consensi - un’idea di protezione ‘retroattiva’, ovvero l’ipotesi di introdurre nell’ordinamento giuridico il ‘diritto all’oblìo’. Questo diritto si basa sulla possibilità di poter ‘rimediare al danno’, richiedendo cioè l’eliminazione dal web di tutta una serie di fattori del passato negativi o imbarazzanti (informazioni, opinioni o fotografie) che, se ‘ripescati’ in un qualsiasi momento, potrebbero ledere la reputazione personale. Ma perché mettere sempre delle ‘toppe’? Non sanno gli italiani che ci si può tutelare ‘ex ante’? Probabilmente non lo sanno, perché a ben guardare solo una modesta percentuale di chi naviga in rete (40%) utilizza almeno una delle misure disponibili per difendere la propria privacy e salvaguardare la propria identità digitale (attraverso la limitazione dei cookie, la personalizzazione delle impostazioni di visibilità dei social network o la navigazione anonima). Lanciamo gridi di allarme per denunciare la scomparsa della privacy, ma nel concreto non facciamo nulla per proteggerci. Anzi: convinti che il ‘nemico’ provenga solo dall’esterno, indirizziamo pensieri e sforzi per adottare misure protettive soltanto nei confronti dei big player della rete quando, invece, qualsiasi nostra attività oggi è reperibile da chiunque voglia impadronirsi di un ‘pezzo’ della nostra vita. E spesso, i principali artefici della violazione al nostra intimo e al nostro privato, siamo proprio noi. Prima di puntare il dito verso un ‘sistema’ marcio e pericoloso dovremmo prima provare a interrogare noi stessi e a riflettere sulle azioni che compiamo ogni giorno, frutto di una disinvoltura disinteressata e priva di scelte ponderate. ‘Taggare’ foto, video, luoghi, persone o opinioni politiche sui social network corrisponde a pubblicare (ovvero a rendere pubblico) ciò che, in realtà, dovremmo custodire gelosamente nella sfera del nostro privato. Autobiografie online, veicoli e telefoni cellulari geolacalizzabili, accessi a ‘WhatsApp’ sono tutti mezzi attraverso i quali noi stessi concorriamo ad ‘apparecchiare’ la grande tavola della condivisione, dando di conseguenza libero accesso alla nostra privacy. Dovremmo valutare in partenza la pertinenza o meno di quanto pubblicato. Dopo, sarà tutto alla portata e alla mercé di tutti. E gli artefici di questo saremo stati noi. Il problema di fondo risiede probabilmente nella vanità, nella fragilità e nell’insicurezza dell’uomo, che ama mettersi in mostra per dimostrare, forse più a se stesso che agli altri, che lui e la sua vita sono ‘una figata’: adori essere nel mirino dell’ammirazione e dell’invidia collettiva? Ti compiaci di te stesso quando mostri foto che ti ritraggono in luoghi paradisiaci o in serate all’insegna del divertimento estremo, magari circondato da donne bellissime? Ti esalta esprimere giudizi sulla tua giornata o pareri sull’attuale Governo su facebook? Bene: nessuno lo vieta. Ma ricorda che stai condividendo i tuoi momenti di vita privata e i tuoi pensieri con una collettività più grande della cerchia dei tuoi amici. Attenti, dunque: se avete detto al vostro capo di essere a casa ammalati, non scrivete su Facebook: “Oggi il mare è fantastico”. Se non volete far scoprire a vostro marito una ‘scappatella’ non scrivete un messaggino romantico al vostro amante su ‘WhatsApp’ alle 5 del mattino. L’accesso è visibile e, certamente, il vostro eterno amato potrebbe insospettirsi, domandandosi cosa stavate facendo in ‘chat’ a quell’ora. Non volete che si sappia di una vostra ‘defiance’, ma volete comunque vantarvi di un appuntamento con una ragazza ‘mozzafiato’? Accomodatevi. Ma fate attenzione al ‘chi’ e al ‘dove’ lo dite. Evitate la rete: Lulù (un’applicazione solo per donne che consente di dare un voto alle prestazioni dell’uomo con il quale si è trascorsa la serata, collegata al profilo del ‘Casanova’ e supportata da nome, cognome e fotografie del malcapitato, nonché assai prodiga di particolari che ‘spettegolano’ su tutto: dall’alito all’abilità nel baciare, dalla durata della performance alle dimensioni…) vi potrebbe smentire in un attimo, facendo scappare tutte le altre potenziali corteggiatrici. La violazione della privacy, dunque, può essere anche la diretta conseguenza dei nostri stessi comportamenti, spesso troppo ‘leggeri’. Quando gli accorgimenti per custodire la sfera intima, invece, sarebbero tanti. Basterebbe solo un po’ di buon senso.


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