Andrea GiuliaFatte salve alcune eccezioni, per l’intellighentia intellettuale di sinistra la società italiana è sempre stata, per lunghi decenni, puramente ‘supposta’, immaginata, mai indagata nelle sue movenze più profonde. Si tratta di una lacuna di non scarso rilievo, aggravata dalla colpevole sufficienza con cui si è guardato ai cataloghi delle scienze sociali, in altri Paesi in pieno rigoglìo. L’antropologia culturale, per esempio, a livello accademico è rimasta materia per troppo tempo tributaria della Storia delle religioni e delle cosiddette ‘tradizioni popolari’, le quali hanno fatto passare inosservati lavori notevolmente interessanti come quelli di Franco Ferrarotti e Sabino Acquaviva. Eppure, di analisi di costume si è sempre avvertito il bisogno. Se non altro, perché la cultura, in quanto sistema normativo – ovvero come repertorio di valori e comportamenti applicabili nella vita quotidiana e non come mero ‘bagaglio formale’ di conoscenze – subisce modificazioni continue, che non possono venir genericamente addebitate a un’appendice industriale della cosiddetta ‘società di massa’. Per tali motivi, oggi l’Italia è un aggregato senza alcuna identità, poiché il mondo della nostra cultura preferisce rimanere a bordo della propria ‘mongolfiera’ senza accorgersi, se non in rari casi, delle ripercussioni di un progresso totalmente materialistico sulla mentalità, sulle abitudini, sui costumi, sui comportamenti degli italiani. Questo è uno dei nodi cruciali, che dovrebbero impegnare la sinistra italiana in una realistica e credibile ristrutturazione ‘interiore’ di se stessa, finalizzata a smettere di architettare ‘castelli teorici’ che la espellono totalmente dalla Storia. E’ questo grave pregiudizio ad affliggere e svariate e molteplici culture di sinistra italiane: la convinzione che un sistema produttivo non possa esser modificato dall’interno, ma solamente abbattuto dalle fondamenta, per poi passare all’eccesso opposto di un soggettivismo esasperato, in cui compito del pensiero ‘operaista’ non dev’essere quello di intuire i progetti del capitale per organizzare una risposta efficiente, ma di scompaginarne le previsioni, di anticiparne le mosse, di rendere obbligatoria una direzione di marcia che ne determini una crisi irreversibile o un capovolgimento rivoluzionario. Per troppo tempo a sinistra si è esclusivamente teorizzata l’instabilità, il radicalismo, il rifiuto di ogni mediazione, respirando a pieni polmoni quella ‘critica della democrazia’ che ha caratterizzato la militanza politica massimalista della prima metà del novecento. L’operaismo ‘intellettualoide’ ha perciò finito col trasmettere un’eredità nefasta, poiché ha finito col perseguire il delirio della ragione e la deformazione grottesca di ogni evidenza concreta, misurabile, fattuale. Per poter evadere da una simile concezione e riuscire veramente a giuocare un proprio ruolo come forza politica e culturale credibile, una moderna sinistra riformista deve convincersi a non rimuovere ogni spirito di indagine della realtà sociale e dei multiformi interessi che in essa si accavallano, a non limitarsi a produrre qualche cupo brontolìo sul cielo di un Paese in cui gli intellettuali cosiddetti ‘progressisti’ non sono quasi mai riusciti a rappresentare - o quanto meno a ‘centrare’ veramente - il pensiero di fondo degli italiani, poiché hanno sempre creduto di rappresentare, essi stessi, un’umanità rigenerata. A vario titolo.


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