Carlo Taormina è sicuramente un personaggio controverso. La seguente intervista non è rivolta all'avvocato, né al deputato, né tantomeno al Sottosegretario costretto alle dimissioni, bensì al giurista docente di Diritto Penale all'Università di Roma.

Iniziamo da uno dei punti più controversi, avvocato: la cosiddetta priorità dell'azione penale prevista nel 'pacchetto' di riforme del Csm dal Ministro di Grazia e Giustizia, Roberto Castelli. Cosa cambia rispetto al principio di obbligatorietà?
"Da un punto di vista strettamente costituzionale, la priorità non è una violazione del principio di obbligatorietà, perché si tratta soltanto di mettere in un 'ordine di precedenza' il tipo di reati da perseguire. Nessun reato viene, cioè, escluso.
Dire però, nel 2002, che la rapina non si persegue o che questa non sia più ai primi posti tra i reati da contrastare penalmente, può apparire un'oggettiva istigazione a commetterla. Di conseguenza, io ritengo che, nel caso in cui si giungesse ad una determinazione delle priorità con tutte le tecniche indicate dal disegno di legge, proprio dal disegno di delega si potrebbe stabilire, ad esempio, un criterio di priorità a 'macchia di leopardo', cioè per regioni. In alcune aree geografiche del Paese una priorità, in altre realtà territoriali altre priorità, secondo le caratteristiche di criminalità della zona. E’ chiaro che in Sicilia, questa sarebbe rappresentata soprattutto dalla mafia.
In ogni caso, questo è un modo un po' pericoloso di intervenire sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, in quanto, tra i due mali - una obbligatorietà non osservata e una discrezionalità regolamentata -, rimane a mio parere preferibile la prima, anche se difficilmente applicabile.
In questo, forse hanno ragione quei detrattori dell’obbligatorietà che propongono la discrezionalità a causa del numero altissimo di reati. Basta conoscere le ultime statistiche recitate proprio dal procuratore generale della Cassazione: l’81% dei reati non viene perseguito...
Il problema fondamentale rimane, infatti, quello di decidersi a depenalizzare in maniera massiccia. Se non ci mettiamo in testa di dover percorrere questa strada, non verremo mai a capo di niente. Anche quando si parla della discrezionalità dell’azione penale e si fa riferimento all’ordinamento anglosassone, non è assolutamente vero che quel tipo di sistema giuridico si basi su una vera discrezionalità, bensì su una regolamentazione dell’azione penale che passa attraverso un drenaggio fortissimo delle fattispecie di rilevanza - cioè proprio il percorso che noi potremmo intraprendere attraverso la depenalizzazione -, tenendo altresì presente che l’80 se non addirittura quasi il 90%dei processi si conclude anticipatamente attraverso procedure differenziate, molto ristrette, accorciate nei tempi e con grandissimi vantaggi sanzionatori.
Faccio solo un esempio: negli Stati Uniti la truffa è punita con pena pecuniaria sino ai 30 anni d'età. Le sanzioni penali previste dal nostro ordinamento sono ormai anacronistiche, non soltanto per il ricorso sistematico alla detenzione, ma anche perché sono molto alte. Pene fissate, tra l'altro, negli anni '30, in un'epoca, cioè, dove nell'arco temporale di un anno solare di vita si facevano 50 cose, mentre oggi se ne fanno almeno 5 mila.
Bisognerebbe, insomma, rivedere molte cose. Ad esempio, in Svizzera un anno di detenzione si riduce in realtà ad otto mesi, vale a dire quanto la durata effettiva dell'anno giudiziario di quel Paese. Se noi avessimo veramente a cuore l’efficienza del nostro sistema e la sicurezza della sanzione, dovremmo fare invece quest'altro tipo di ragionamento: meglio pene basse piuttosto che il nulla, poiché i casi sono tantissimi e le lentezze della giustizia addirittura pachidermiche, in un contesto complessivo di istituzione di un processo che si chiude, alla fine, dopo dieci - quindici anni.
Tutto questo significa soltanto andare a dire ad una persona che ha ricevuto una sentenza di condanna definitiva: "Adesso, qualunque cosa tu stia facendo e qualunque attività tu stia esercitando, vattene in carcere!"
Nel mio progetto di riforma, messo a disposizione della Casa delle Libertà, ho previsto che, prima dell’esecuzione di una sentenza di condanna, il giudice provveda alla convocazione del condannato per accertare se la situazione, dopo dodici anni, ad esempio, sia tale da entrare in rotta di collisione con la esercitabilità dell’azione penale, poiché potrebbe benissimo darsi che, in quel preciso momento storico della sua vita, il condannato abbia già da tempo cambiato modo di vivere, si sia dato a un’attività lavorativa stabile, si sia costruito una famiglia, dei figli..."

Se il processo rimane così com’è e il suo progetto di riforma viene approvato non va in galera nessuno. In dieci anni tutti cambiano vita…
"Lei allora mi deve dire qual è il gusto sadico di condannare una persona, un giovane, che a trent’anni ha commesso un reato e poi, a trentuno, si è sposato e ha avuto dei figli. E, magari, sino a quel giorno si era sempre comportato bene, non aveva mai commesso un reato e aveva sempre manifestato un perfetto inserimento nella società: perché mai, trascorsi i dieci anni che ci sono voluti per fare il processo, si debbono per forza ritrovare le condizioni per le quali una persona si debba vedere costretto ad andare in carcere per esecuzione automatica di una sentenza?
Io non dico che non ci si debba proprio andare, ma solo allorquando la situazione si sia evoluta in maniera tale da rendere concretamente valide determinate diagnosi. Ovvio che, in tal caso, il condannato debba scontare. Il carcere serve per rieducare, secondo un principio che, per la Costituzione, non è un fatto teorico. Ma se per dieci anni, a causa di lungaggini processuali, io ho vissuto in libertà e ho sinceramente modificato il mio modus vivendi, per quale motivo non ci deve essere un giudice che valuti la mia nuova situazione? Perché non introdurre questo 'momento di filtro', nonostante sia intervenuta la sentenza definitiva di condanna?
D’altra parte, situazioni che vigono nel sistema, come l’affidamento ai servizi sociali, sono già state inserite nell'ordinamento. E' insomma una logica già esistente".

E quali potrebbero essere, allora, questi reati depenalizzabili?
"Quelli di competenza del pretore o di competenza del giudice monocratico di una volta, sono tutti reati che, salvo alcuni, devono rimanere tali. Ce ne sono altri, invece, per i quali, con un’amministrazione efficiente, l'applicazione delle sanzioni amministrative sarebbe del tutto sufficiente.
Le faccio un esempio su ciò che intendo quando parlo di opportuno drenaggio dei reati. Prendiamo il furto: oggi, per l’81% dei casi, esso non viene praticamente perseguito. Se noi prevedessimo, invece, una sanzione pecuniaria oppure una perseguibilità a querela, avremmo risultati migliori. Quando, infatti, l’82% dei processi non si riesce nemmeno ad istituirli, ciò non significa che la magistratura non si voglia più occupare di quei casi, bensì che essa se ne occupa, la polizia se ne occupa, gli avvocati se ne occupano, tutti fanno indagini e accertamenti per un anno, un anno e mezzo e, alla fine, tutti dichiarano che non si può procedere perché il fatto è stato commesso da ignoti.
Un ricorso massiccio ad un regime sanzionatorio alternativo e premiale, come vede può essere la soluzione più logica. E queste sono le ragioni di fondo per le quali si reclama la discrezionalità dell’azione penale in luogo della obbligatorietà.
Stiamo attenti: tutto ciò non significa che, per un cattivo funzionamento del sistema, insomma per ragioni pratiche, io debba cambiare i miei princìpi. Il principio dell'obbligatorietà, in sé, è buono, poiché garantisce l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, divenendo, in termini concettuali, il 'giusto rovescio' dello stesso principio di legalità, ovvero quello espresso dalla formula della legge uguale per tutti. Noi però siamo arrivati ad un momento in cui è possibile fare delle riforme radicali, nel quale cioè possiamo prendere un bel catalogo e decidere quali reati possiamo mantenere in quanto gravi e quali possono essere depenalizzati.
Inoltre, oggi avremmo una risorsa fondamentale, rispetto alla quale quasi tutta l’avvocatura è contraria, ma che a me non dispiace affatto: il giudice di pace.
Quest'ultimo, io lo reputo una risorsa potenzialmente fondamentale per un'effettiva revisione del sistema giudiziario penale italiano, anche se sarebbe necessario diventasse un giudice di pace vero e proprio, ossia con la possibilità e gli strumenti per muoversi, nella legge, con ampie facoltà discrezionali in termini di valutazione del fatto. Un reato di modesta rilevanza, rispetto al contesto sociale nel quale si è verificato, può essere ritenuto poco importante, quindi non produttivo di conseguenze penali, soprattutto dal punto di vista del regime sanzionatorio. Pensi che i giudici inglesi s'inventano addirittura le sanzioni. Noi questo non possiamo farlo, poiché la Costituzione prevede che sia la legge medesima a stabilire la sanzione da applicare. Però, quest'ultima potrebbe essere prevista non solo entro un minimo e un massimo di anni, ma anche tra tipi distinti di sanzioni, quella detentiva, quella pecuniaria, gli arresti domiciliari, i lavori socialmente utili, dando cioè una gamma sempre più vasta di possibilità d'intervento sanzionatorio. E il giudice di pace queste cose potrebbe ben farle.
Se pensiamo viceversa alla creazione di una figura di giudice di pace così come facciamo la corte d’assise, vale a dire con lo stesso tipo di processo e con lo stesso tipo di procedure, allora l'introduzione dell'istituto continuerà a non essere funzionale, ad essere cioè solamente un quarto giudice dopo il monocratico, di tribunale e di corte d’assise. Se invece sarà messo in grado di giudicare tutte quelle fattispecie che oggi sono reato e che, depenalizzate, potrebbero consentire una ricerca di sanzioni concrete, efficaci, che tengano conto della personalità del soggetto e del tipo di attività che svolge, allora questo potrebbe trasformarsi, a mio parere, in un buon tentativo di razionalizzazione dei problemi".

Cosa ne pensa del progetto di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura nel suo complesso?
"Anche qui c’è un problema di riforme radicali che si dovrebbero porre in essere.
E’ evidente che, se avessimo la possibilità di recuperare i valori dell’ordinamento anglosassone, ad esempio quello della centralità delle giurie popolari o dell'eleggibilità dei pubblici ministeri, contenuti per esempio nel programma della Lega Nord, risolveremmo numerosi problemi".

Ma qual è la ratio dell'eventuale riduzione dei suoi membri?
"Rendere il Csm organismo snello, più efficace nello svolgimento delle sue funzioni. E non solo: anche quello di ostacolarne la lottizzazione interna.
Le ragioni per cui la magistratura si è rinserrata contro questa riforma sono proprio queste, in realtà. Si erano preparati alla campagna elettorale con i candidati già sistemati tenendo conto dell’attuale numero di componenti del consiglio, per cui ora ci sono un sacco di 'candidature tagliate'. Inoltre, la riduzione del numero dei partecipanti significherà una forte diminuzione del loro gioco di potere. Ma ciò che più conta, riguardo al Csm, è che bisognerebbe in ogni caso avere in testa di fare delle vere modifiche alla Costituzione. Dobbiamo, in altre parole, avere un’architettura della nuova giustizia.
C'è poi anche il problema del controllo sull’operato della magistratura: dobbiamo trovare un sistema per cui non siano i magistrati a giudicare altri magistrati. Nella Bicamerale fu discussa quest’idea, anche se la corte di giustizia allora ipotizzata sarebbe stata organismo competente soltanto per illeciti disciplinari. La novità importante di quella Commissione era, invece, quella di aver individuato un punto fondamentale: non far coincidere la Corte di giustizia dei magistrati con il Csm, perché è quest'ultimo che decide i trasferimenti, fa le promozioni, una vera e propria corte disciplinare la quale, essendo composta dagli stessi soggetti, diviene un 'mercato delle vacche'.
Massimo D’Alema aveva intuito che questa cosa era importante, ma alla Paciotti non andò bene. Sarebbe dunque il caso di creare un organismo competente per tutti i problemi di responsabilità penale e civile dei magistrati, costituito ad hoc e non composto da appartenenti all’ordinamento giudiziario (questa sarebbe una riforma da fare apportando le modifiche costituzionali di cui sopra).
In tempi non sospetti io proposi: prendiamo i componenti laici del Csm, quelli che sono eletti dal Parlamento in seduta comune con una maggioranza di due terzi, il che significa con una maggioranza molto qualificata. Poi, la sezione disciplinare la si dichiara composta per legge soltanto di questi componenti".

Ma questo non impedisce la politicizzazione dei membri il Consiglio…
"Si, invece. Perché non appartengono al Parlamento e necessitano di un'ampia maggioranza".

Quali sono, invece, le sue idee sul cosiddetto 'principio del giusto processo'?
"E' opportuna l'individuazione di una maggiore autonomia della polizia rispetto alla magistratura. Questo sarà uno dei punti sui quali ci confronteremo. In questo caso, si ha infatti a che fare con una norma costituzionale - l’art. 109 C. - la quale prevede che l’autorità giudiziaria disponga direttamente della polizia giudiziaria. Non è una regola che crea particolari problemi, poiché la disponibilità diretta significa proprio che la polizia deve rimanere al posto suo, in pratica faccia parte del potere esecutivo. Si potrebbero, tuttavia, ridisegnare i distinti ruoli senza dover cambiare la Costituzione.
L’idea di prevedere, inoltre, un tempo entro il quale - anche qui come avviene nell’ordinamento anglosassone -, la polizia possa venir messa in condizione di costruire autonomamente un’imputazione rimanendo sempre controllabile dal pubblico ministero, individuare un imputato e da quel momento mettere il PM in condizione di esercitare l’azione penale, mi pare sia in fondo la soluzione più razionale".

Cosa ci dice sul grave problema delle misure cautelari?
"Che dovrebbero venir adottate da un giudice collegiale. Il ritorno alla collegialità, non solo per la materia cautelare, ma anche per le competenze, supera i problemi di un giudice monocratico con grande ampiezza di poteri, soluzione ormai assolutamente impraticabile e tecnicamente discutibile.
Tornando alla collegialità ci sarebbe un forte ridimensionamento del giudice monocratico e, al tempo stesso, con la previsione di procedure più snelle, quelle cosiddette semplificate, si potrebbe giungere ad una più ampia possibilità d’accesso, acquisizione e salvaguardia delle prove. Nel corso delle indagini preliminari sarà, infatti, possibile, su istanza delle parti, blindarle, sia quelle dell’accusa, sia quelle della difesa, al fine di decidere se intraprendere una procedura semplificata o quella normale. Quanto più materiale si avrà, tanto più facile sarà capire quale sia la migliore strategia da seguire per calibrare la forma del procedimento.
Tale previsione di ritorno della collegialità con procedura semplificata andrebbe vieppiù applicata anche per reati di competenza della corte d’assise. Oggi, il giudice monocratico - quello dell’indagine preliminare - se segue la formula del giudizio abbreviato può decidere anche per una strage. Per quelle di Falcone e Borsellino, ad esempio, un solo giudice istituì il processo.
Noi prevediamo, invece, l’esigenza non solo della collegialità, ma anche della pubblicità: io chiedo, in pratica, il giudizio abbreviato innanzi alla corte d’assise come forma di maggior garanzia per l’imputato. Tante volte noi vediamo quasi il capovolgimento delle sentenze di primo grado decise dal giudice monocratico. Voglio dire: spesso la corte d’appello, cioè un organo collegiale, le ribalta. Come può ben capire da sola, un giudice solo sbaglia più facilmente di tre".

Ultima domanda: come affrontare il problema dei pentiti?
"Utilizzando solamente dichiarazioni frutto di conoscenza personale del dichiarante o in quanto reati commessi dal dichiarante stesso assieme alla persona che accusa, riscontrando che si tratti di fatti e dati certi e che non siano affermazioni fatte da altri pentiti".

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