Alessandro LozziCon l’appello del 20 settembre, riecheggiando Lenin, ci siamo posti una domanda: laici che fare?
La manifestazione dell’8 ottobre ha dato una risposta: esserci! E, secondo l’insegnamento di Amendola, non in nome del passato.
Il passato dei laici italiani: liberali, repubblicani, socialdemocratici, socialisti rispetto a quello storicamente riferibile sia alla chiesa cattolica che a quella comunista è tanto minoritario quanto prestigioso e, per ciò che ha rappresentato, basterebbe da solo a giustificare una presenza politica testimoniale.
Ma non è la testimonianza che ci interessa.
L’Italia della lunga transizione e del bipolarismo imperfetto ha un deficit di politica laica, cioè di quella serena confluenza tra tradizione e avvenire, che è la più adatta per governare la complessità contemporanea. Questo deficit condanna il nostro Paese ad un processo politico schizofrenico che altalena tra un modernismo tecnocratico senza anima e un ottuso rifiuto di tutto ciò che di moderno le scienze naturali e sociali propongono.
Ma non si tratta solo di questo: accanto al deficit politico ce n’è un altro, non meno grave, quello della classe politica.
Lo diciamo senza supponenza o presunzione, ma la politica non può essere lasciata solo allo scontro tra i funzionari di partito da un lato e i dipendenti e consulenti di un titolare, sia pure eccezionalmente capace ed illuminato, dall’altro.
La politica è al tempo stesso Tommaso Moro e Niccolò Machiavelli, cioè utopia e realtà, passione e realismo. Per queste qualità vale il principio indicato per il coraggio di don Abbondio: se uno non ce l’ha non se lo può dare.
Dobbiamo superare le piccole meschinità umane, che purtroppo hanno sempre caratterizzato anche i personaggi più significativi del nostro passato e del nostro presente, per abbracciare ciò che di più grande fa parte del nostro modo di intendere la politica.
Dovremo esserci, per conferire al governo del Paese ciò che adesso manca: la nostra passione e il nostro realismo.

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