Noi Siamo ChiesaSenza pretendere di dare un giudizio articolato e complessivo sul pontificato di Giovanni Paolo II, uno dei più lunghi della storia, ci limitiamo a valutare alcuni tra i più rilevanti aspetti della sua gestione, partendo dal rapporto di questo pontificato con il  Vaticano II. Del resto, lo stesso Karol Wojtyla ha più volte affermato che l’attuazione del Concilio doveva essere l’aspetto caratterizzante del suo compito papale.

Dialogo interreligioso
L’indicazione conciliare, espressa soprattutto dalla dichiarazione Nostra aetate, ha avuto sotto Wojtyla sviluppi inattesi e importanti. Sul versante del dialogo con i non cristiani, rimangono nella memoria le giornate di preghiera per la pace, ad Assisi, convocate dal papa nel 1986 e nel 2002, presenti i rappresentanti delle maggiori religioni del mondo. Mai il papato aveva immaginato “vertici” del genere.  Per quanto riguarda specificatamente gli ebrei, ricordiamo la sua visita alla sinagoga di Roma (1986) e al Muro del pianto di Gerusalemme (2000). E, per i musulmani, la visita in Marocco (1985), alla spianata delle moschee di Gerusalemme (2000) e alla moschea omayyade di Damasco (2001). Spettacolare sul piano dei gesti il dialogo inter-religioso voluto da Wojtyla che ha mostrato, però, irrisolte contraddizioni sul piano teologico.Difficilmente la Chiesa di Roma poteva dialogare “alla pari” con altri mentre riteneva la propria religione obiettivamente superiore alle altre, essendo il papa “vicario di Cristo”, unico Salvatore del mondo. Nel 2000, la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus, che riaffermava la centralità di Cristo e della Chiesa romana nel piano divino della salvezza, metteva a nudo questa contraddizione. E l’emarginazione, o la punizione, decisa da Roma, di Tissa Balasuriya o di Jacques Dupuis – teologi che avevano tentato nuove strade per impostare il rapporto Chiesa cattolica/Religioni non cristiane – ha dimostrato la difficoltà della Curia vaticana di saldare posizioni antinomiche.

Dialogo ecumenico
Giovanni Paolo II ha affermato più volte che la vocazione ecumenica della Chiesa cattolica romana è «irrevocabile e irrinunciabile». Moltissimi sono stati i suoi incontri con leaders delle Chiese non cristiane. A livello teologico, in campo ecumenico si sono registrati progressi ma anche retromarce. Un progresso importante – ad esempio – è stata la dichiarazione comune cattolica-luterana (1999) sulla giustificazione, il problema che nel secolo XVI divise irrimediabilmente le Chiese in Occidente. Ma nessuna conseguenza ecclesiologica Wojtyla ha tratto da questo Accordo, e con durezza ha rifiutato la “ospitalità eucaristica” tra cattolici ed evangelici. Il Giubileo del Duemila è stato gestito come se la fine del secondo millennio fosse questione esclusivamente di interesse  del centro romano della Chiesa cattolica. Al di là degli abbracci, non si è registrato alcun progresso con gli ortodossi, in particolare a causa del problema degli “uniati” (cattolici di rito orientale) – “ponte” di dialogo con gli ortodossi, per Roma; tentativo di distruggere l’Ortodossia, per gli ortodossi.  Dopo il 1989 non ha fatto che crescere la polemica tra Roma e Mosca anche a causa di talune imprese “missionarie” cattoliche di tipo proselitistico. Dolorosamente sorprendente, poi, in proposito, la decisione vaticana di elevare a diocesi le amministrazioni apostoliche della Russia, quando a Roma si sapeva che ciò avrebbe ferito la sensibilità del patriarca di Mosca Aleksij II e del Santo Sinodo. Il mancato viaggio del papa in Russia – molto desiderato dal papa slavo – è la prova evidente del fallimento su questo versante. Nessun passo ha mai fatto Wojtyla per “perdere” la sovranità dello Stato della Città del Vaticano. Una “regalità” che obiettivamente impedisce alla Chiesa di Roma di dialogare alla pari con le altre Chiese. E che le permette di avere uno “status” giuridico – e dunque un peso politico – negato al Consiglio ecumenico delle Chiese, alle altre Chiese e alle altre religioni nel consesso delle Nazioni Unite.

Unità senza diversità   
Sullo sfondo di tali difficoltà vi è il problema, storico e teologico, del papato romano, che lo stesso Wojtyla ha ammesso essere di fatto il più pesante ostacolo alla riunificazione delle Chiese cristiane. Perciò nell’enciclica Ut unum sint (1995) il pontefice si è detto disposto a cambiare le “forme” storiche del papato, lasciando immutata la sostanza del servizio petrino. In realtà da allora, come del resto era stato negli anni precedenti, le “forme” del papato sono rimaste immutate. Anzi, unanime è la sensazione che Wojtyla, e con lui la Curia,  abbiano progressivamente assunto un potere esorbitante rispetto all’episcopato mondiale, ed abbiano attuato una centralizzazione ostinata e onnivora. Un modo per facilitare un equilibrio tra “Chiesa universale” e “Chiese locali” sarebbe stato quello di dare attuazione concreta al principio della collegialità episcopale riaffermato dal Vaticano II. Ma anche in questo campo i segnali sono stati opposti a quelli del Concilio: i Sinodi dei vescovi, che avevano la funzione di coinvolgere i vescovi nella gestione della Chiesa, sono stati un mero esercizio comunicativo, senza alcun valore “deliberante”, e lasciando di fatto il potere di decisione tutto in mano al papa, e cioè alla Curia. Infatti l’agenda dei problemi, la selezione dei partecipanti, il metodo di lavoro delle commissioni, la segretezza degli incontri e le stesse conclusioni di ogni Assemblea sinodale  esprimevano chiaramente un disegno autoritario, anche se mascherato da formule pseudodemocratiche. Un pur comprensibile desiderio di dare una unità dottrinale alla Chiesa ha portato Giovanni Paolo II a scrivere encicliche, lettere apostoliche e documenti vari relativi a problemi biomedici o sociali; a emanare un voluminoso Catechismo per la Chiesa cattolica e un Codice di Diritto Canonico aventi un valore obbligante e indiscutibile per tutta la Chiesa, anche in assenza di un esplicito consenso dell’Episcopato. Molti di questi documenti sono stati oggetto di numerose e, spesso, clamorose critiche all’interno della Chiesa, in quanto troppo distanti dallo spirito del Vaticano II. L’assenso “assoluto” richiesto dalla Curia ha trasformato i vescovi in comunicatori degli insegnamenti del papa, di fatto unico Maestro. Al fine di assicurare una totale sincronizzazione interna, nel 1988 il papa ha imposto ai vescovi un giuramento di fedeltà che, mentre sottolineava il necessario vincolo di comunione di ogni vescovo con quello di Roma, nei fatti oscurava però l’autorità dei vescovi locali. Più volte il papa ha sostenuto che «la Chiesa non è una democrazia». Gli episcopati dell’Austria, Germania, Olanda e Stati Uniti e di altri paesi, ogni volta che hanno intrapreso Sinodi e Assemblee ecclesiali su temi contesi (il celibato ecclesiastico, la donna-prete, i contraccettivi, l’omosessualità, il rapporto ministeri ecclesiali/comunità) sono stati pubblicamente redarguiti o invitati ad abbandonare problematiche considerate di esclusiva pertinenza pontificia. La nomina dei vescovi è stata influenzata principalmente dal criterio dell’adesione dei candidati ai “desiderata” pontifici sui temi appena indicati. Per la prima volta nella storia della Chiesa romana si è verificato che la gran maggioranza dei suoi attuali 4000 vescovi siano stati scelti da un solo papa, quasi “clonati” a sua immagine e somiglianza. Inoltre, la Curia romana è intervenuta per controllare gli  ordini religiosi non allineati (come il “commissariamento della Compagnia di Gesù” nel 1981).

Esclusione delle nuove teologie
Sulla scia del dibattito a tutto campo favorito dal Vaticano II, nei diversi continenti sono germogliate, a partire dagli anni Settanta, esperienze pastorali e correnti teologiche estremamente innovative, come quella femminista, asiatica, africana, indigena, negra, ed ecologista. Nessuna di esse ha trovato accoglienza nei documenti  o nei discorsi del papa. I cultori di tali dottrine non hanno mai trovato un posto nelle commissioni teologiche pontificie. Alcuni di loro sono stati pubblicamente condannati e costretti a ritrattazioni. Per fronteggiare la libertà di ricerca invocata dai teologi e osteggiata dal papa, quest’ultimo ha provveduto a esigere da tutti i professori di teologia il seguente giuramento: ”Aderisco con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il romano pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo” (1988). E perciò ha proibito, ad esempio, ogni discussione che mettesse in dubbio il no papale all’ordinazione sacerdotale delle donne (1994). Esperienze innovative hanno trovato raramente accoglienza nella Curia papale. Alcuni esempi: bocciati, tra l’altro, i tentativi di revisione delle traduzioni della Bibbia secondo il linguaggio inclusivo (USA); l’autonomia delle università cattoliche (USA); l’uso frequente della confessione comunitaria (Australia); la gestione dei consultori per l’aborto (Germania). Più nota e sistematica è stata la tenace opposizione ingaggiata dal papato nei confronti della Teologia della Liberazione (TL). Nata nel continente latinoamericano, si era contraddistinta non tanto per i suoi contenuti biblici (in particolare l’Esodo), quanto per l’approccio sociologico-ermeneutico, dato che si considerava l’identificazione con i poveri come la conditio sine qua non per interpretare la Buona Notizia di Gesù e svolgere la missione evangelizzatrice. Il primato era posto nell’ortoprassi, non più nell’ortodossia. La TL ha subito una pubblica condanna tramite una Istruzione emessa dal Cardinal Ratzinger, praticamente copiata dalla rivista colombiana Tierra Nueva, fondata dal card. Trujillo. Accusati di ascendenze marxisto-comuniste, tutti i maggiori teologi della liberazione sono stati puniti in vario modo o emarginati. Vescovi, seminari, congregazioni religiose, movimenti ecclesiali con simpatie “liberazioniste” sono stati accuratamente indagati e/o rimossi. Salvo rare eccezioni, i vescovi latino-americani nominati da Wojtyla erano avversari della Teologia della liberazione. Il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – che a Medellin, Colombia (1968), nella sua seconda Conferenza generale, aveva assunto posizioni profetiche nella denuncia delle “strutture di peccato” che opprimevano il continente, e ammesso responsabilità della Chiesa per tale situazione – via via è stato “normalizzato” dal Vaticano, prima nella Conferenza di Puebla, Messico (1979), e soprattutto in quella di Santo Domingo (1992). Una “normalizzazione” che obiettivamente andava incontro ai desiderata del governo statunitense, timoroso degli sviluppi di una teologia contraria agli interessi di una potenza imperiale.     

Laicità  
Wojtyla ha continuamente proclamato che la Chiesa nutre il massimo rispetto per le istituzioni civili e per l’autonomia dei governi e dei rappresentanti delle realtà secolari. Allo stesso tempo, forte del principio secondo cui – a suo parere – il mondo laico non può dire una parola autorevole in fatto di etica, e tanto meno fondare etiche responsabili, ha premuto perché le leggi statali sul divorzio e, in particolare, sull’interruzione della gravidanza, si adeguassero alle leggi ecclesiastiche, definendo “tirannici” quei parlamenti che avessero legalizzato l’aborto. Coerentemente ha insistito che nella Costituzione europea fossero esplicitamente citate le “radici cristiane” del Continente e ha  spesso agito in modo che i rapporti Stato e Chiesa cattolica, fondati su Concordati o patti similari, garantissero non solo diritti legittimi ma anche privilegi in contraddizione con quanto affermato dal Concilio (Gaudium et Spes,76). I laici cattolici, che nel Concilio Vaticano II avevano riacquisito la dignità di “popolo sacerdotale, profetico e regale”, sono stati degradati a “sudditi” nel Codice di Diritto Canonico emanato da Wojtyla (1983). Essi sono indegni di leggere il Vangelo e commentarlo nelle celebrazioni eucaristiche. Buoni, come diceva Yves Congar, per le tre P: “pregare, pagare, piegare”, inginocchiandosi davanti all’autorità gerarchica. Coerentemente il papa ha finito per privilegiare quei settori del laicato cattolico che hanno mostrato una assoluta sudditanza verso la sua Cattedra, mentre non ha mancato di far sentire la propria contrarietà verso quelli (Azione Cattolica, Comunità di base, associazioni biblico-teologico-missionarie) che in vario modo hanno rivendicato una propria autonomia. Lo stesso «Appello dal popolo di Dio» promosso dall’ IMWAC (International Movement We Are Church) nel 1995-‘96 sottoscritto da due milioni e mezzo di cattolici che chiedevano una riforma della Chiesa, è stato disapprovato. E, sempre a proposito di proclamato rispetto per la dignità e indipendenza di ogni Stato, molti osservatori hanno denunciato il fatto che la Santa Sede, adducendo il principio della exstraterritorialità”, ha impedito alle competenti autorità italiane di accertare le responsabilità di mons. Paul Marcinkus, allora presidente dello Ior (la banca vaticana), nel clamoroso crack del Banco Ambrosiano (anni 80).
 
La donna
Per la prima volta nella storia, papa Wojtyla ha proceduto ad una parziale rilettura critica dei testi neotestamentari relativi alle donne, elogiando il “genio femminile” e dedicando ad esse una lettera apostolica sulla “dignità della donna” (Mulieris dignitatem, 1988). Il documento è stato osteggiato dalla maggioranza delle teologhe cattoliche e dei movimenti femministi, che hanno denunciato le gravi carenze teologiche, bibliche e antropologiche del testo e le sue contraddizioni. Del resto, come hanno rilevato le teologhe cattoliche, e come tutti hanno potuto constatare, l’intero organigramma ecclesiastico è rimasto, sotto Wojtyla, più che mai androcentrico. Tutti i posti-chiave della Curia romana sono rimasti saldamente in mano ai maschi. Negli anni 80 una originale e pluriennale esperienza  di ascolto reciproco tra le cattoliche statunitensi e i rispettivi vescovi aveva cominciato a produrre una bozza di documento assai interessante ed aperto, ma  la Curia papale interveniva per esigere che non si parlasse di «uguaglianza nella condivisione e responsabilità», ma di «complementarietà», che si esplicitasse la condanna della contraccezione e che si escludesse dalla discussione ogni riferimento al tema dell’ordinazione sacerdotale della donna. A causa di tale interferenza sia le donne che i vescovi nordamericani compresero che era inutile continuare il dialogo. Del disagio delle donne si è fatta interprete, a nome di un milione circa di suore, l’Unione Internazionale Superiore generali (Uisg), che fece pervenire al Sinodo dei vescovi sulla vita religiosa un ferma sollecitazione “per porre fine alla dicotomia spesso marcata tra le dichiarazioni della Chiesa ufficiale circa la dignità della donna e la pratica attuale di discriminazione, nonché per includere più completamente le donne competenti nei processi di riflessione e nei ministeri ecclesiali, ivi comprese le posizioni chiave nei dicasteri della Curia” (1994). Questa saggia e rispettosa petizione non ha trovato alcun ascolto in Vaticano.

La sessualità
Wojtyla ha ribadito con forza le normative papali esistenti in materia, dal “si” alla vita e alla “legge naturale”; al «no» alla contraccezione e al divieto alle nuove nozze in chiesa dei divorziati cattolici risposati/e, al «no» all’esercizio della sessualità nelle coppie di omosessuali, al «no» all’uso del preservativo in qualsiasi situazione, anche per prevenire il contagio dell’AIDS. Masturbazione e rapporti prematrimoniali sono stati considerati dal Catechismo del 1983 “peccati mortali”. Su tutti questi punti Sinodi nazionali, vescovi, teologi e teologhe hanno espresso riserve di ogni ordine, anche perché la prassi pastorale dimostrava ogni giorno di più che le decisioni relative all’etica sessuale, anche di papi precedenti, erano contrarie al sensus fidelium. La conseguenza – rilevata dagli osservatori religiosi – è che tra il papa e la maggioranza dell’episcopato, del clero e dei fedeli si è prodotto il più profondo e silenzioso scisma della storia della Chiesa, con grave danno per lo stesso Magistero papale. Analogo discorso vale per il rapporto clero-sessualità. Wojtyla ha respinto ogni ragionevole proposta di ridiscutere la fondatezza teologica e la validità pratica della legge del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa latina, nonostante fosse noto che questi ultimi, in una percentuale alta – soprattutto in certe regioni – non osservavano il voto o la promessa del celibato. A fronte dell’esodo massiccio di sacerdoti negli ultimi 30 anni (80.000 circa hanno abbandonato il ministero), al crescente invecchiamento del clero e alla carenza di ministri consacrati nei paesi del terzo mondo, numerosi episcopati hanno ripetutamente chiesto al papa di consentire l’esercizio del ministero a ex preti, a uomini sposati, e persino a donne, specialmente religiose. Nessuna delle richieste è stata esaudita. Tre scandali relativi alla vita sessuale del clero hanno scosso il pontificato di Wojtyla, andando sulle pagine e TV di tutto il mondo. Il primo è venuto alla luce a seguito di documentate  rivelazioni da parte di religiose, stanche di subire violenze sessuali, non esenti da ricatti, da parte di sacerdoti, soprattutto in Africa. Su questo problema nessun intervento significativo è stato fatto da Wojtyla. Il secondo è scoppiato negli USA, attizzato dalle richieste di indennizzi miliardari da parte di migliaia di fedeli che erano stati violentati nella loro adolescenza da sacerdoti pedofili. Di fronte al clamore mediatico il papa si è visto obbligato a richiamare a Roma vescovi e cardinali nordamericani, alcuni dei quali sono finiti sotto inchiesta da parte della magistratura per aver deliberatamente coperto, nel corso di decenni, gli abusi sessuali compiuti da centinaia di ecclesiastici. Il terzo scandalo ha fatto seguito al precedente: da anni si sapeva che molti appartenenti al clero erano persone omosessuali e che la struttura dei seminari costituiva un richiamo per esse. Questo problema, reale ma nascosto, è esploso alla luce del sole sotto il pontificato di Wojtyla. In tale contesto, nel 2002 la Congregazione per il culto divino ha emanato una normativa – giudicata “discriminatoria” dai gruppi di omosessuali cristiani – in cui si definisce “sconsigliabile”, “imprudente” e “rischiosa” l’ordinazione sacerdotale di omosessuali.

Diritti umani
La figura di Giovanni Paolo II è indubbiamente associata alla difesa dei diritti della persona umana nelle varie dimensioni sociali, economiche e politiche. Sono assai numerose le occasioni in cui egli ha preso posizione nei confronti dei poveri, degli emigranti, dei soggetti sfruttati e mal pagati, soprattutto se bambini e donne, comunque sottoposti a leggi o governati che violavano la dignità umana. Questi generosi appelli all’ottemperanza dei diritti fondamentali nella società non hanno trovato però corrispondenza  all’interno della Chiesa romana, in cui vigono due opposti principi: uno valido ad extra, per cui la società secolare deve concedere alla Chiesa il diritto alla libertà religiosa; ed uno valido solo ad intra, per cui  nella Chiesa “non si può fare appello a questi diritti dell’uomo per opporsi agli interventi del magistero” (Istruzione sulla vocazione del teologo, 1990). Questa contraddizione spiega la situazione della Santa Sede, che si è venuta a trovare nell’imbarazzante primato negativo riservato ai paesi segnati da dittature, avendo sottoscritto solo 10 dei 103 accordi internazionali sui diritti umani (Human Rights Law Journal). In particolare il papato romano non ha ancora ratificato nessuna delle Convenzioni sulla soppressione delle discriminazioni basate sul sesso, la libertà d’insegnamento, il giusto processo. Contrario ai diritti umani è il meccanismo giudiziario, specialmente dell’ex Sant’Offizio, che non prevede né una netta distinzione tra giudice e accusatore, né una chiara e pubblica “lista delle accuse”, né una reale possibilità di appello. La Santa Sede non ha mai acconsentito a eliminare dal proprio ordinamento canonico quella discriminazione, denunciata dal Concilio, che impedisce alle donne cattoliche di accedere a qualsiasi responsabilità direttiva nella Curia. Il Vaticano è peraltro restio a riconoscere i normali diritti “sindacali” ai propri lavoratori (sacerdoti o religiose), in caso di licenziamento o rimozione.

I «mea culpa»
Soprattutto nei suoi viaggi internazionali, Giovanni Paolo II ha espresso decine di «mea culpa» per comportamenti passati dei «figli della Chiesa»: le Crociate, l’antisemitismo, l’Inquisizione, le guerre di religione, l’invasione dell’America nel nome della «vera religione», le guerre in nome di Dio, lo schiavismo, l’oppressione di interi popoli. Il 12 marzo 2000 Wojtyla, con cardinali ed alti dirigenti delle Curia romana, ha celebrato la “giornata del perdono”, con l’ammissione di sette «confessioni di colpe» commesse dai “figli della Chiesa”; nel servizio della verità; nei rapporti con Israele; nei comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni; in atti che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano; con peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona. Questo gesto non ha portato però l’intera Chiesa romana ad interrogarsi sulle ragioni di fondo di quei peccati che si sono protratti per secoli, senza che teologi, vescovi e papi li avessero riconosciuti come contrari sia ai diritti fondamentali della persona umana che al Vangelo. Seppur contraddittorio  il “mea culpa” di Wojtyla ha comunque sollecitato anche episcopati nazionali ad intraprendere la stessa strada.

Santi e Beati
Desideroso di dare visibilità alla santità della Chiesa cattolica, macchiata da scandali, contraddizioni e lacerazioni,  Wojtyla ha provveduto a proclamare più santi e beati (circa 1800) di quelli fatti nell’insieme da tutti i papi degli ultimi quattro secoli. Tale politica ‘inflazionistica’ ha lasciato perplessi molti, cattolici e non, data la procedura segreta, costosa e teologicamente ambigua del riconoscimento stesso della santità, quasi sempre legata ad uno stato non matrimoniale. In altri casi l’ambiguità è stata del tutto evidente, come quando il 3 settembre 2000 Giovanni Paolo II ha voluto beatificare insieme due papi, Pio IX e Giovanni XXIII: l’uno che definì “deliramento” il principio della libertà religiosa e l’altro che volle un Concilio perché proclamasse anche questo intangibile principio. Pio IX aveva poi oggettivamente sostenuto quelle violenze contro gli ebrei di cui pure Wojtyla aveva chiesto perdono solamente sei mesi prima. Molti cattolici hanno criticato il papa per aver egli  beatificato e canonizzato a tempo di record Josemaria Escrivá de Balaguer (morto nel 1975), fondatore dell’Opus Dei, istituzione ricca, potente e per molti aspetti segreta, e sostenitore del regime franchista; mentre nel contempo ha lasciato nel cassetto la causa di beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador, accanito difensore dei poveri e martire della giustizia, assassinato da una dittatura militare (1980). Anche l’eccessiva enfasi posta da Wojtyla sul culto mariano, ha spesso incoraggiato – al di là delle intenzioni –  gli aspetti meno evangelici della religiosità popolare e creato difficoltà nel cammino ecumenico.

I viaggi
Papa Wojtyla ha compiuto 102 viaggi internazionali, toccando tutti i continenti. Questi viaggi hanno messo in evidenza, in modo paradigmatico, la sua audacia nel proporre il messaggio evangelico anche in paesi non cattolici e nell’affrontare grandi fatiche, soprattutto con il progredire dell’età e di vari malanni fisici. Ha certamente avuto modo di verificare e denunciare spesso l’entità della miseria e dell’ingiustizia di fronte a masse di poveri costretti a vivere in immense baraccopoli e senza servizi essenziali. E tuttavia tali viaggi sono stati oggetto di malumori e critiche all’interno della Chiesa cattolica per molte ragioni: mentre il papa enfatizzava il suo ruolo di pellegrino in visita ad una comunità, di fatto era ricevuto (perché tale era) come capo di stato, con i dovuti onori militari. Il costo delle manifestazioni di massa ricadeva sulla Chiesa locale, o su ambigue collaborazioni con multinazionali. Il tempo e le occasioni per conoscere la realtà della Chiesa locale e per interloquire con i fedeli era ridotto praticamente a zero. Capi di stato hanno fatto a gara per averlo al loro fianco e apparire come devoti fedeli davanti ai propri concittadini, non sempre entusiasti per tale complicità. Scandalosa, in particolare, è apparsa l’intesa sorridente tra il papa e il generale golpista e assassino Augusto Pinochet dal balcone del palazzo presidenziale di Santiago del Cile (1987).

I media
Wojtyla ha compreso l’importanza dei media per imporsi all’attenzione del mondo e diventare una specie di “star”  internazionale. E’ innegabile che attraverso l’uso dei media, in particolare della TV, di facile comprensione per i settori meno istruiti, Giovanni Paolo II ha avuto la possibilità di sottolineare con forza valori universali, diffondere la Buona Novella e introdurre tante persone alla solennità di celebrazioni liturgiche, anche di massa. Tuttavia, nel privilegiare l’uso quasi quotidiano della TV per ogni tipo di udienza, messe, rosari, pellegrinaggi, viaggi, incontri con capi di governo e diplomatici, non poteva non cadere nelle trappole strutturali dello star system,  che ha un legame indissolubile, anche di tipo mercantile, con l’intrattenimento, non con l’evangelizzazione e  la cultura. In sostanza il papa, affidandosi alla TV, non ha potuto evitare che la sua apparizione scivolasse nello “spettacolo”, finalizzato alla seduzione e all’applauso, non alla riflessione o al discernimento. Se lo “show” per sua natura illude e crea una realtà virtuale e affascinante, anche lo spettacolo di moltitudini oranti o plaudenti finiva per diventare ingannevole, dando la sensazione illusoria che la Chiesa cattolica resisteva e superava la crisi imposta dalla secolarizzazione dominante. Di conseguenza non meraviglia che nelle immagini televisive relative a Wojtyla, che quasi quotidianamente le emittenti di tutto il mondo hanno diffuso, siano scomparsi quasi completamente gli altri soggetti ecclesiali. Per 25 anni il papa “ha rubato la scena”, con vescovi e cardinali nel ruolo muto di semplici “comparse”.  A miliardi di persone, di fatto, il papa ha mandato un messaggio sub-liminàle così sintetizzabile: io sono la Chiesa e la Chiesa è nulla senza di me. Se lo ‘star system’ ha favorito la ‘papolatrìa’, il suo rovescio è stato l’oscuramento del resto della Chiesa cattolica.

Giustizia
Gli ammonimenti papali in difesa di poveri, emarginati, bambini ridotti in schiavitù, donne discriminate, anziani abbandonati potrebbero formare una enciclopedia. Giovanni Paolo II ha parlato contro una globalizzazione in atto, considerata “una forma di colonialismo” ed ha chiesto un “sussulto di moralità di fronte ai drammatici problemi economici, sanitari, sociali”. Ha definito “strutture di peccato”  il libero mercato e la globalizzazione selvaggia. Ha invitato tutti a non rassegnarsi “a un mondo in cui altri esseri muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro”. A Santo Domingo ha invitato l’assemblea dei vescovi latinoamericani a “rinnovare la scelta preferenziale dei poveri”  e a “evitare qualsiasi connivenza con i responsabili delle cause della povertà” (1992). Mentre il papa parlava in tal modo, le statistiche indicavano impietosamente che i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; che le 15 più grandi imprese avevano un reddito lordo che superava il PIL di 120 paesi; che il 75% della popolazione mondiale utilizzava solo il 15% dei farmaci (l’Africa appena l’1%); che ogni vacca europea godeva di un sussidio statale di 2 euro al giorno, pari alla somma con cui quotidianamente viveva ogni persona della massa dei due miliardi di poveri della popolazione mondiale. Se negli ultimi due decenni l’ingiustizia planetaria ha assunto un tono quasi tragico; se 86 paesi, nel 1996, stavano peggio di 10 anni prima, ciò ovviamente non poteva essere attribuito al papato romano, predicatore della giustizia. Resta il fatto che milioni di baraccati, di assetati, di affamati, di malati, di disoccupati non hanno trovato nel papa romano un referente da cui partissero – come era accaduto per questioni come l’aborto o il controllo demografico (conferenze del Cairo e di Pechino) – concrete campagne religiose, seri interventi diplomatici, severe ammonizioni ai politici, tenaci pressioni sui vescovi, per analizzare le cause e ad impostare terapie atte a contenere l’ingiustizia devastante. Poveri e animatori di organizzazioni sociali si sono chiesti come mai i telegiornali riferissero delle udienze che il papa riservava a capi di stato, campioni dello sport, ricchi epuloni; mostrando ben raramente il pontefice seduto attorno ad un tavolo con dirigenti delle organizzazioni contadine, con i sindacati di multinazionali schiaviste, con le vittime della repressione politica. Né il papa ha mai partecipato, e neanche ha mai espressamente incoraggiato i “forum” sociali mondiali o continentali nei quali, dal 2000 in poi, centinaia di migliaia di persone di buona volontà si sono incontrati  pacificamente, convinti che “un altro mondo è possibile”.

Pace e ordine internazionale
Wojtyla ha predicato instancabilmente la pace ed ha sempre difeso il ruolo insostituibile dell’Onu e la sua funzione “mediatrice” per risolvere con la diplomazia e la trattativa, evitando la guerra, eventuali conflitti tra nazioni. Egli ha certamente favorito la caduta incruenta e pacifica del comunismo nei paesi est-europei attraverso vari viaggi “missionari” nella nativa Polonia e aiutando, moralmente ed economicamente,  il sindacato polacco Solidarnosc (anche attraverso finanziamenti concordati con il presidente USA, Ronald Reagan). Negli anni Novanta la Santa Sede ha favorito la dissoluzione della ex Jugoslavia, approvando con straordinaria rapidità l’autoproclamazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia (1992), ma sottovalutando i rischi che i nazionalismi avrebbero innescato nei Balcani dopo lo sgretolamento selvaggio della Jugoslavia. La voce di Wojtyla si è levata con puntualità e passione in occasione delle numerose guerre che hanno devastato diverse aree del globo, invocando talora – come nel Kosovo – l’intervento militare umanitario per superare i conflitti più intricati. Inflessibile è stato il “no” di Wojtyla alle iniziative di guerra senza l’avallo ONU, come nel caso della guerra in Iraq (2003), quando contestò la legittimità morale della «guerra preventiva» anglo-americana. Nel marzo-aprile del 2003 – prima, e durante la guerra di George W. Bush contro l’Iraq – le parole di denuncia del papa hanno dato speranza a molti e molte impegnati per la pace. Molto problematica risulta la valutazione dell’operato papale relativo al nuovo assetto conseguente alla caduta dell’impero sovietico, da lui patrocinata, senza che esistessero le premesse per un nuovo ordine internazionale libero da potenze dominanti. La politica papale, di fatto, e malgrado esplicite affermazioni verbali in contrario, ha lasciato campo libero all’egemonia statunitense in ogni settore, apparendo dunque in “contiguità di interessi” con i poteri forti legati alla Casa Bianca, e perciò con l’impero. Di fronte all’avanzata inarrestabile del capitalismo Wojtyla si è limitato a condannare gli “eccessi” di questo sistema, ma non la loro “radice”, senza impegnare adeguatamente la comunità cattolica nella riduzione delle abissali diseguaglianze sociali, soprattutto tra Nord/Sud, nel contenimento della violenza e nella salvaguardia del creato. In questa obiettiva “convergenza” vi sono state delle variazioni importanti: il papa ha censurato espressamente le leggi relative alla contraccezione e all’aborto, varate dal governo americano del “progressista” Bill Clinton, ma ha evitato di condannare con la stessa chiarezza quello “conservatore” di George W. Bush, nonostante questi abbia dichiarato di voler “agire senza l’accordo di organismi internazionali”, e di considerare come propria missione quella di “liberare il mondo dal male” e “la guerra non come un pericolo ma come una opportunità per portare ovunque la libertà, il diritto e la giustizia”. Seppure qualche volta Wojtyla ha levato la voce contro la “corsa agli armamenti”, questa protesta in realtà è stata flebile e non è mai giunta ad una opposizione esplicita del complesso finanziario-industrial-militare, la cui enorme potenza impedisce di giungere ad un nuovo ordine mondiale senza eserciti “nazionali”, e, conseguentemente, di dirottare le risorse finanziarie verso i bisogni primari di miliardi di indigenti.

Un papato più di parte che d’insieme
Pur consapevoli delle difficoltà di un giudizio globale in tempi così ravvicinati, la somma dei fatti e degli scritti di Giovanni Paolo II ci inducono, comunque, ad affermare che il suo pontificato sia stato più “romano” che “cattolico”. A noi sembra infatti che, al di là delle virtù personali e della retta intenzione, la tendenza complessiva del magistero e dell’azione di papa Wojtyla sia stata quella di privilegiare “la parte” piuttosto che “l’insieme”. La filosofia e la teologia di Giovanni Paolo II si sono saldamente basate sulla sua tradizione polacca (una “parte” degna di tutto rispetto), ma non hanno potuto integrare “l’insieme” delle correnti innovative: di qui il conflitto con il pensiero laico, le religioni non cristiane, le Chiese non cattoliche e le teologie non tradizionaliste. Sul piano etico il papa ha posto l’accento sull’importanza della legge naturale, sottovalutando, però, il fatto che ogni giudizio etico non può prescindere né dalla storicizzazione di tale “legge”, che per molti aspetti è legata alle cangianti culture dei popoli, né dal giudizio ultimo della coscienza personale. In politica Wojtyla è stato fiero avversario del comunismo e, in parte, del capitalismo. Ma questo sforzo di “equilibrio” non ha retto alla prova dei fatti perché, caduto l’impero sovietico, “l’insieme” mondiale si è sbilanciato completamente verso “la parte” capitalista – altrettanto inumana ed atea – a tal punto che la Casa Bianca ha deciso di iniziare una guerra “infinita” senza chiedere il permesso a nessuno. Ma dove risulta ancor più macroscopico l’accecamento per “la parte” a detrimento de “l’insieme” è nella gestione ecclesiale: qui è risultata pressoché assente l’integrazione tra il centralismo papale e la collegialità episcopale; tra Gerarchia e popolo di Dio; tra la ricchezza celibataria e quella matrimoniale; tra la specificità  maschile e quella femminile. Anche leader religiosi non cattolici e molte persone nel mondo riconoscono in Giovanni Paolo II il rappresentante di una religione ammirevole per molti aspetti, ma che si è presentata nei fatti più esclusiva che inclusiva, più monarchica che democratica, più occidentale che universale, più romana che cattolica.


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