Francesca BuffoCome ‘fotografato’ di recente dall’Istat, la nostra situazione economica è ancora di carattere recessivo e la cosiddetta ‘ripresa’ sembra ancora farsi attendere. Nonostante ciò, una serie di nuove piccole aziende si stanno mettendo in luce per la particolare qualità dei propri prodotti da esportazione, come per esempio la cantina vinicola ‘Vitalonga’, di proprietà dell’imprenditore Gian Luigi Maravalle, recentemente segnalata dalla prestigiosa rivista americana ‘Wine Advocate’, una delle più influenti e autorevoli pubblicazioni in ambito enologico, con una lusinghiera recensione dedicata al ‘Terra di Confine’ per le annate 2005 e 2006, ovvero proprio il ‘rosso’ prodotto da queste nostre cantine orvietane. Situata infatti a Ficulle, su un versante ‘benedetto’ per la produzione di vini  delle colline dell’alto orvietano, al confine ovest dell’Umbria con la Toscana e il Lazio, questa tenuta si distingue per la produzione di ‘rossi’ in una zona che notoriamente, sotto il profilo vinicolo, è votata ai ‘bianchi’. Abbiamo perciò voluto incontrare questo ingegnoso produttore, per ragionare insieme a lui in merito alle difficoltà economiche del momento, anche in un comparto che, da sempre, rappresenta il ‘fiore all’occhiello’ delle nostre esportazioni.

Gian Luigi Maravalle, quali sono i problemi della produzione vinicola italiana in questa fase economica piuttosto difficile?
“La produzione vinicola sta vivendo un momento molto particolare: da una parte, i consumi, anche se hanno subito una flessione e hanno risentito della crisi, stanno crescendo in tutto il  mondo e si tratta di un trend che prevede ulteriori incrementi. Si parla, per il 2015, di circa 26 miliardi di bottiglie, quindi stiamo parlando di un mercato in continua crescita. Al di là dei numeri, comunque, non mancano i problemi. In particolare per le aziende italiane, che soprattutto per quanto riguarda l’export, sono penalizzate dalla propria dimensione medio/piccola. In particolare i viticoltori, che con un lavoro straordinario portano all’estero una delle eccellenze del nostro ‘made in Italy’. Ricordiamo che la produzione italiana è di altissimo livello, al pari di quella francese”.

Ma la qualità riconosciuta della nostra produzione non dovrebbe, già di per sé, rappresentare una garanzia?
“Relativamente, perché la competitività sta crescendo. Molte piccole aziende per il 70% della loro produzione si devono confrontare con l’estero (circa 15/20 Paesi) con fatturati, fatte le dovute eccezioni per i grandi brand, tutto sommato ridicoli. La produzione è cresciuta in tutto il mondo, soprattutto in Paesi che, fino a pochi anni fa, non erano neanche presenti nel settore vinicolo”.

Difatti, oltre alla classica rivalità fra Italia e Francia, si è aggiunto il vino spagnolo, non è vero?
“Non solo. Oggi le ‘nuove produzioni’ sono quelle dell’Australia, della Nuova Zelanda, del Cile, del Sud Africa. Ormai, il vino arriva da ogni parte del mondo e il trend di crescita della quantità prodotta è inferiore alla domanda, a causa della flessione negativa dei consumi. Così le aziende stanno accumulando stock”.

In cosa è differente la produzione di questi nuovi competitor?
“Sicuramente, nascono su progetti industriali più ampi rispetto ai nostri. Si tratta di vini prodotti correttamente, di qualità, con investimenti impegnativi e azioni di marketing che le piccole aziende italiane non possono permettersi”.

Stiamo comunque parlando di un prodotto che, al di là degli investimenti, si può definire ‘bevibile’ ma non certo di eccellenza?
“Questo è l’aspetto che andrebbe compreso: i grandi trend di crescita dei consumi del vino sono previsti soprattutto in Russia (+24%) e Cina (+36%). Però, che tipo di mercati sono questi? Sono due mercati con una ‘forbice’ molto ampia, in cui il vino sta arrivando adesso in maniera importante e, quindi, viene privilegiato il consumo edonistico. Un contesto nel quale stanno ottenendo ottimi risultati i grandi brand italiani e francesi, i quali entrano e si posizionano su un mercato alto. Dopodiché, il mercato cade vertiginosamente verso il basso e tutto quello che c’è in mezzo, ovvero la cultura e la conoscenza del vino, ancora deve maturare. Per cui, ci ritroviamo con dei mercati che sono in grado di assorbire o l’altissima qualità, oppure quel tipo di vini che non sono certo l’espressione vera dei nostri territori. Sono mercati dove le aziende italiane, che per la maggior parte sono posizionate nella fascia intermedia, non trovano al momento grande sbocco”.

Ma non si potrebbe dire, a questo punto, che è proprio la piccola dimensione delle aziende a garantire una certa qualità?
“Questa è indubbiamente la nostra grandissima forza: si punta a un prodotto di massima qualità come punto di forza del proprio business. Noi siamo in grado, come piccole aziende familiari, di prestare attenzione alla ricerca dell’eccellenza fino all’esasperazione. Avere in mano tutto il processo di produzione, dalla coltivazione delle vigne fino al lavoro in cantina, ci consente di dedicare un’elevata attenzione al fattore della qualità estrema: è questa l’unica vera arma che ha la piccola dimensione rispetto alla multinazionale, che può anche arrivare a fare un buon prodotto ma, comunque, sarà sempre privo di quelle peculiarità di cui gode un determinato vitigno o territorio. Basti pensare che, negli ultimi vent’anni, la qualità dei nostri vini è talmente aumentata da superare persino la Francia, per quanto riguarda, per esempio, l’export negli Stati Uniti”.

Per competere meglio quale potrebbe essere una via di uscita percorribile?
“Cercare di ‘unire le forze’ fra le piccole aziende, creare consorzi, magari sotto ‘brand’ territoriali. Una formula che, tuttavia, nel nostro Paese si scontra spesso con logiche personalistiche e autoreferenziali”.

Ma per sopravvivere occorre per forza esportare?
“La verità è che l’export consente di fare i fatturati. Noi, attualmente, per il mercato interno abbiamo immaginato un’azienda capace anche di essere ‘vissuta’. Così, nella nostra tenuta, oltre ai vigneti abbiamo creato un agriturismo e un ristorante. Attraverso ‘l’ospitalità’ avviciniamo i clienti ai nostri prodotti, ovvero ciò che coltiviamo e produciamo. In parte siamo stati favoriti nella scelta da un altro trend in crescita, l’enoturismo, una tendenza che in Italia ha un alto potenziale. La Napa Valley (a 60 km da San Francisco, in California – www.napavalley.com ndr) rappresenta oggi una delle maggiori attrazioni degli Stati Uniti. Ne hanno fatto una Disney World del vino. In Italia, con tutto ciò che abbiamo da offrire in questo campo, basterebbe ‘mettere a sistema’ il territorio, il paesaggio, i beni artistici e i prodotti tipici per far galoppare questo trend”.


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