Vittorio CraxiIl Congresso socialista si svolge in un momento delicato per il Paese, complicato per la sinistra, difficile per i socialisti. Eppure, è mia convinzione, e mi sembra, dalle prime battute, anche quella del Congresso, che nonostante la notte difficile che attraversiamo da diverso tempo, esiste, per noi socialisti, la nostra storia, le nostre idee rinnovate e riqualificate, non soltanto lo spazio politico ma il posto di responsabilità che ci spetta nella vita italiana per cambiare lo stato delle cose, per sospingere l'Italia fuori da questa lunga crisi, per contribuire a stabilizzare la vita democratica in un senso più compiuto e moderno, restituendo alla politica il suo ruolo tradizionale attraverso un consenso più largo e motivato fra i cittadini. Ci attende un duro lavoro, di riflessione e di azione politica, ma traggo sempre di più la convinzione, dalla crisi del sistema politico italiano e dall'incapacità ormai quasi patologica di riuscire a governare le nuove complesse sfide del nostro tempo, che solo una forza di antiche tradizioni che ha maturato l'esperienza delle molteplici sconfitte e della solitudine politica possa contribuire a restituire alla democrazia e alla sinistra italiana uno slancio vitale fondato sulla solida radice costituita dalla lunga tradizione socialista italiana. Noi, per parte nostra, dobbiamo contribuire a riscoprire questa possibilità sapendo partorire nuove idee, nuovi presupposti politici e programmatici che ridiano slancio non solo al socialismo democratico, ma all'intera sinistra presa nel suo insieme. Riorganizzare una posizione politica è indispensabile per rigenerare anche una forza organizzata. E se il 'primum vivere' è stata la condizione indispensabile e necessaria nella storia più recente dei socialisti italiani, oggi, ripensare alla nostra funzione politica, al rinnovamento e all'adeguamento delle nostre idee diventa il punto e la base di ripartenza dell'azione politica dei socialisti italiani. Occorre sostituire al proverbiale "chi eravamo" o, peggio, "come eravamo" un necessario "chi siamo?" e in che modo intendiamo e pensiamo possibile fare di più e meglio per l'Italia di oggi, sfuggendo la retorica delle diagnosi impietose che non lasciano spazio a un destino migliore e a una speranza, ma contribuendo a migliorare la qualità della politica, dei suoi programmi, dei suoi obiettivi e dei suoi sinceri convincimenti. Noi siamo agganciati al destino della vecchia Europa.  Ed è al modello delle esperienze invecchiate, ma presenti, delle socialdemocrazie europee rinnovate che si riferisce il nostro orizzonte. Alla fine degli anni '80 e all'inizio dei '90 del secolo scorso, tutta l'esperienza della socialdemocrazia si è rivolta alla ricerca di un adeguamento spinto ai confini del superamento delle vetuste esperienze ideologiche del socialismo, puntando a una possibile via di mezzo o 'terza via' che fosse sintesi del pensiero socialista e liberale. Oggi, in tempi post-ideologici, i ceti più deboli abbandonano il terreno della sinistra, sospinti dal richiamo del mercato. E la paura e l'insicurezza trovano un porto insicuro, ma certo, nel grande bacino accogliente della destra conservatrice, populista, paternalista. Oggi, lo sforzo che viene richiesto a chi si dichiara di sinistra è quello di svolgere sino in fondo il compito della sinistra, che resta quello di tutela e salvaguardia delle conquiste sociali, di tutela non dei ceti improduttivi e parassitari, ma delle vecchie e nuove povertà, che sono riaffiorate con evidenza nel corso della recente crisi finanziaria mondiale. C'è un problema di moralità del mercato, c'è un problema di equità e c'è una nuova grande richiesta di giustizia sociale, o di giustizia in senso lato. C'è un problema di lotta alle iniquità nel nostro Paese, ma c'è e resta sullo sfondo anche un problema di riequilibrio e di riduzione del divario della distanza economica sociale fra il nord ed il sud del mondo. C'è un problema che riguarda la nostra capacità di ripensare il nostro modello di sviluppo, la possibilità di compenetrare la necessità delle società avanzate di mantenere il loro benessere e, al contempo, di consentire l'avanzamento e il progresso dei Paesi terzi, che rischia di essere un utopìa in presenza di risorse scarse che non basteranno per tutti . E se trionfa l'economia muore, come sta morendo, la società, la qualità della vita a cui siamo stati abituati, sommersi dall'evidente sproporzionato fabbisogno di beni non indispensabili, di modelli sociali non più sostenibili, di società frantumate e parcellizzate non più governabili da sistemi e schemi rigidi, immodificabili e immutabili. L'Italia, nella sua crisi, ha le straordinarie risorse per invertire la logica e la tendenza al 'declinismo' votato all'egoismo di uno sviluppo che rinchiude tanti ceti sociali nella paura e nel rancore. Della paura e della speranza, tante volte declamate dal nostro ministro dell'Economia, resta solo la paura senza speranza: la paura che egli stesso alimenta nascondendo le verità della nostra situazione e dalle punizioni che ha inteso infliggere ora ai ceti medi, ora agli amministratori inadempienti, favorendo una inutile colpevolizzazione dal vago sapore razzista nei confronti delle regioni del sud. La classe dirigente italiana, certamente, non è la sola protagonista di questa irresponsabile condotta: la crisi mondiale esigeva risposte mondiali e l'ultima riunione del cosiddetto G20, nonostante tutte le dichiarazioni ipocrite, non è servita a nulla. Le banche, le grandi protagoniste negative di questa catastrofe, potranno continuare ad agire indisturbate, senza regole, speculando come è avvenuto sino a oggi. I 'grandi' della Terra, rifiutando imposizioni sul loro tasso di cambio, sulla loro politica di esportazione e sul controllo delle loro piazze finanziarie, hanno ottenuto di poter crescere e prosperare come prima, mentre gli europei, deboli, si sono lasciati imporre regole contabili che strozzeranno le loro economie, riducendo la loro capacità di ripresa, eventualità che potrebbe minare tutti gli sforzi di riduzione dei deficit di bilancio. Un'altra crisi finanziaria è dietro l'angolo e la democrazia deve cedere ancora una volta il passo al mercato. Soprattutto, a un mercato senza regole e senza scrupoli: se fossimo in un Paese responsabile, nell'agenda di Governo entrerebbe, come priorità, assieme alla necessaria revisione dei conti pubblici, dei suoi sprechi e delle sue illogicità, anche la nostra visione futura dello sviluppo, dell'allargamento del nostro orizzonte economico e sociale, sapendoci aprire e sviluppando la nostra crescita , il nostro sapere, la nostra flessibilità produttiva verso i mercati e gli orizzonti a noi più affini. Riscopriremmo il vanto storico dell'Italia, delle sue mille agricolture oggi cancellate da una standardizzazione uniforme e da un'industria alimentare che deprime la necessaria valorizzazione della biodiversità, del recupero del gusto e della qualità nella produzione dei beni di consumo, nel presidio del territorio e nella cura del paesaggio. Man mano che gli oggetti prodotti industrialmente scadranno ai nostri occhi, il valore andrà a rifugiarsi in tutto ciò che non è riproducibile industrialmente: la bellezza, l'arte, la natura incontaminata, i monumenti del passato, il cibo genuino, la tradizione e la stessa convivialità. Con il nostro immenso patrimonio artistico, culturale e letterario, l'Italia ambirebbe a essere l'Atene dei giorni nostri. L'impoverimento e l'imbarbarimento della nostra attuale civiltà, lo scadimento del livello dell'offerta culturale, l'inadeguatezza delle classi dirigenti che hanno governato per un quindicennio il nostro Paese hanno consegnato, a noi e alle future generazioni, solo la paura, cancellando la possibilità della speranza. E come è possibile autorizzare la speranza in un Paese in cui un giovane su tre non lavora (e non studia) e otto su dieci sono presenti sul mercato del lavoro con contratti diversi e mai a tempo determinato? Dove soltanto 1800 ragazzi hanno avuto accesso al bonus per i precari concesso dal Governo? Dove le donne divenute mamme hanno dovuto abbandonare il loro lavoro a tempo determinato volontariamente? Dove, e lo scrivono e lo dicono in pochi, molti giovani di Pomigliano hanno votato, a stragrande maggioranza, per un 'no' non al lavoro, ma a una tipologia contrattuale che consumava decenni di relazioni sindacali in nome di una competitività che, stringi stringi, porta alla fame e a una nuova odiosa forma di sfruttamento. Ho sentito che qualcuno si è permesso un paragone azzardato, improprio, fra il referendum di Pomigliano e quello sulla scala mobile. Quello dell'84 fu un accordo relativo a una manovra economica di Governo che non ledeva le relazioni sindacali e sviluppava una nuova politica del costo del lavoro. Qui, in assenza di Governo, si è lasciata dilagare una concezione cinese o giapponese delle relazioni sindacali. Altro che Festa degli innamorati di San Valentino: qui ci troviamo di fronte a una strage. La crisi economica si accompagna alla crisi politica. Non è la crisi di questa maggioranza politica: quella c'è, è evidente, e senza la corazza rigida del bipolarismo coatto avrebbe già avuto uno sbocco procedurale obbligato. La frantumazione del Partito di maggioranza relativa e il ricorso ossessivo alla fiducia parlamentare hanno trasformato l'azione di questo Governo, né più e né meno in quella di un esecutivo che governa per ordinaria amministrazione. La crisi è nella politica che non c'è, questione che oramai, con colpevole ritardo, denunciano anche gli opinionisti più illustri sui giornali più autorevoli. Oggi, devono fare marcia indietro: la scomparsa dei Partiti nella società italiana non solo ha impoverito la nostra democrazia, ma ha impedito un flusso di ricambio di una classe dirigente che fosse formata entro un perimetro di regole, interne ed esterne, accettabili perché fondate sul patto fra gli iscritti, sulla fedeltà alle idee, ai valori, ai programmi. A questa incapacità di costruire il nuovo, si sono aggiunte le degenerazioni del nuovo sistema, della  società politica e la società cosiddetta civile. "La malinconica conclusione", scrive Sergio romano, "è che Tangentopoli non è finita, perché nessuno dei tre grandi protagonisti della politica italiana, Governo, magistratura e opposizione, fa il suo mestiere. Il Governo perché si difende con mezzi impropri e fornisce degli alibi alla magistratura. Quest'ultima sembra avere fatto della lotta contro Berlusconi la ragione della propria esistenza, mentre l'opposizione, rinunciando ad avere una politica giudiziaria convincente, la lascia fare ai magistrati". Ai socialisti resta l'amara consolazione di aver sempre segnalato, inascoltati, i rischi dell'avventura e della conseguente paralisi che avrebbe creato un cambiamento che non si fondasse su basi solide e convincenti. Per molti di noi sono stati anni di battaglia vera, condotta anche nella consapevolezza delle nostre responsabilità, dei nostri ritardi e dei nostri errori. Ma quando vediamo cadere uno dopo l'altro i miti della cosiddetta diversità morale che appartenevano al mondo comunista e ai suoi epigoni, quando vediamo che l'eroe di 'Mani Pulite' come Paperon de' Paperoni fa il bagno nei suoi rimborsi elettorali e nelle sedi procurate da Anemone, ci vien proprio da pensare che con noi la Storia, che fu ingiusta, ci riconsegna, oggi, una giusta ragione. Questa  non è sufficiente per fare una politica. Nel giro di pochi anni, dall'euforia di una ritrovata unità e dal ritrovato ruolo di una certa consistenza  e di responsabilità politica al sostegno e nel Governo del Paese siamo passati a una condizione mai conosciuta nella nostra storia, fatta salva la parentesi del regime fascista, di forza extra-istituzionale. Dalle indebite euforie del ritrovato protagonismo politico siamo passati a una lenta erosione del nostro elettorato, ad abbandoni politici in qualche caso molto poco nobili, a una vita difficile e travagliata. Non tutto è andato per il meglio: si poteva e si può sempre fare di più. Ma anche la scomparsa o la debolezza del Partito socialista in Italia non è solo la responsabilità di chi il Partito lo anima, ma anche la spia del decadimento culturale del nostro Paese. I socialisti che sono andati a cercar fortuna altrove si trovano a dover far fronte al declino dell'ipotesi bipartitica che è stata messa in campo. C'è poco da fare, i socialisti che stanno nel Popolo delle Libertà incominciano a farmi pena: qual è il senso socialista della loro missione? E quali posizioni politiche sono costretti a sostenere da anni, in coerenza con la nostra passata esperienza? Il problema è che i socialisti non possono stare con chi rappresenta oggi, nel Paese, non più la medicina, ma la malattia da cui dobbiamo guarire. Come? Essere protagonisti dell'alternativa senza essere velleitari significa non rinunciare alle esperienze delle alleanze maturate. L'offerta e la prospettiva di un 'patto' è giusta, financo generosa, ma dobbiamo insistere nella sua costruzione perché gli interlocutori sollecitati hanno eluso le risposte. A me non piace dare pagelle, però ieri Bersani ha meritato 6 e Casini 8. E sarebbe l'interlocutore di sinistra quello che dovrebbe interessarci di più. Il Partito democratico di Bersani non è quello di Veltroni, ma il suo spostamento su posizioni neo-laburiste apre sì un terreno di confronto, ma chiude uno spazio politico di autonomia socialista. D'altronde, è la questione socialista, irrisolta e indiscussa, che consente la doppiezza antica di una piena adesione al manifesto dei principi e, ora, delle idee socialiste in Europa, insieme a un rifiuto della dimensione identitaria e politica in Italia, un rifiuto che spesso si trasforma in un fastidio e un'allergia antica, dura a far passare nel corpo militante e anche in parte di quello dirigente. Io vedo un Partito socialista alleato al Pd che non sta né alla sua destra, né tantomeno alla sua sinistra, ma più avanti di lui e che compete nella elaborazione delle idee e dei programmi, in un'impostazione politica apparsa troppo spesso schiacciata e anchilosata innanzi alle offensive del Partito di 'Repubblica', al Partito di Di Pietro e di tutti i miasmi ai limiti dell'eversione che abitano la costellazione dell'opposizione di sinistra a Berlusconi. Noi rimaniamo fermi nella nostra impostazione politica identitaria, ma non immobili. Perché dobbiamo essere convinti che il baricentro della politica dei prossimi anni ci incoraggia a pensare e a immaginare che i nuovi movimenti nella società si riapproprieranno delle idee del novecento che ancora circolano in Europa. Questo significa che si apre un dialogo, un confronto per un'eventuale convergenza con altre esperienze della galassia politica che si oppongono al centro-destra. Ognuno predisponga la propria task force politica e programmatica per costruire una alternativa che non si realizzi solamente mediante le alchimie tattiche e le alleanze, ma attraverso una lunga seria riflessione politica e programmatica. Non dobbiamo certo scoraggiare chi si è messo in marcia o chi ha approntato le sue fabbriche di idee, quando esse sono realizzabili. Io non sento affatto il bisogno di sottovalutare l'impatto politico che ha suscitato anche la parabola di Niki Vendola: non sento il bisogno di costruire una nuova forza politica con lui e i suoi compagni, ma vedo che in quell'esperienza brilla ancora una passione politica civile autentica, una ricerca del senso della missione della politica e, in questi tempi così aridi, non è poco. Costruire un'alternativa laica, socialista, riformista vuol dire che il Partito socialista non cerca casa, né si crogiola nell'orgoglio del proprio passato chiuso nella sua solitudine, ma che il Psi può e deve ridiventare una casa aperta al confronto politico e programmatico, aperta al dialogo con tutti coloro che, definendosi socialisti anche quando sbarcati altrove, intendono restituire il ruolo politico che ci spetta nel futuro democratico dell'Italia. Nella nuova alleanza riformista non c'è posto per i 'perditempo' e per chi è alla ricerca di una ribalta. Il destino dell'Italia ci riguarda e noi socialisti dobbiamo essere nuovamente all'altezza del compito che ci ha assegnato la nostra storia. Concludo: qualche settimana fa sono stato invitato, assieme a Nencini, a Salemi, dall'amico Sgarbi, per celebrare la nascita della prima "Capitale d'Italia" proclamata dal generale Garibaldi. Mi ha fatto piacere esserci e che fossimo gli unici uomini politici eredi della tradizione risorgimentale a essere invitati (dettaglio che non sarà sfuggito a Riccardo, che è un brillante saggista storico). Il mio pensiero è corso a quando risalii la valle del Belice con mio padre, Bettino Craxi, che di Garibaldi era un cultore e che dell'Unità d'Italia fu uno strenuo difensore. Ho avuto modo di ringraziare il presidente Napolitano per la sua lettera ricca di significato politico inviata in occasione del decimo anniversario dalla scomparsa. E voglio cogliere l'occasione per ringraziare il segretario e il Congresso tutto per quella commovente visita al cimitero di Hammamet, per quelle bandiere rosse innalzate e riconosciute come le "bandiere del Partito di mio marito" da mia madre Anna. Il socialismo democratico e riformista non è solo una bandiera da sventolare o un'antica fede da conservare, ma un metodo e una dottrina che vive e deve rivivere nella realtà di oggi, questo naturalmente continua a dipendere da noi. Il Congresso di Perugia indica che siamo su una buona strada.




(intervento al 2° Congresso nazionale del Partito socialista italiano)
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio