Chiara ScattoneL’Islam affronta la vita e i suoi problemi nella loro totalità. Trattandosi di un codice di vita completo e perfetto, non accetta modifiche parziali o soluzioni di compromesso. Prende avvio rendendo l’uomo conscio della sua posizione originale nell’universo, non come un essere autosufficiente ma in quanto una parte, davvero importante, della creazione di Allah. È solo divenendo consci della loro vera relazione con Allah e la Sua creazione che gli uomini e le donne possono con successo agire in questo mondo. Le obiezioni sollevate dai Paesi arabo-islamici all’indomani dell’emanazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, circa la visione e l’interpretazione data all’universalità dei diritti umani, ha sollevato e solleva tutt’oggi un problema di formulazione e concezione di quegli stessi diritti che si credeva potessero essere patrimonio comune a tutta l’umanità. Si è assistito, dal 1948 in poi, ad un fenomeno di regionalizzazione dei diritti dell’uomo, che ha avuto, tra l’altro, come fenomeno prevalente il tentativo di affermare e rivendicare a livello internazionale una specifica identità culturale e religiosa. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’Islam emanata nel 1981 dal Consiglio islamico d’Europa e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam approvata nel 1990 dall’Organizzazione per la Conferenza islamica, si è avuta la proclamazione di una nuova interpretazione dei diritti umani, che prende forza non dal carattere universale o dal tentativo di universalità dei principi emanati, piuttosto invece si pone quale obiettivo quello di sancire una specificità islamica, che si vuole differenziare dagli altri contesti internazionali, considerati occidentali. Questo fenomeno di “religiosità” dei diritti umani, o per meglio dire di “vestizione” di religiosità anche nell’ambito, che dovrebbe essere universale, dei diritti dell’uomo comporta senza dubbio alcune importanti riflessioni sia sotto il profilo politico sia dal punto di vista strettamente giuridico. Quando si parla di diritto nel mondo arabo-islamico non si può prescindere dal diritto sciaraitico, dal diritto di origine divina. Così come, allo stesso modo, discutendo di politica e di Paesi arabo-islamici, non si può evitare di pensare al periodo coloniale e all’attuale, presunto, “scontro di civiltà”. E, di fatto, il diritto islamico pregna la Dichiarazione del 1981, quando all’art. 4 viene affermato che “ogni individuo ha il diritto di essere giudicato in conformità con la legge islamica” e che “nessuno ha il diritto di costringere un musulmano ad obbedire ad una legge che sia contraria alla legge islamica”. Le norme ‘sciaraitiche’ si presentano quali fondamenti inscindibili nelle Dichiarazioni islamiche dei diritti dell’uomo, poiché l’universalità cui si fa riferimento è l’universalità islamica e pertanto comprende una visione del mondo e della realtà sociale fortemente connotata dalla centralità degli aspetti religiosi che pregnano tutti gli ambiti della vita individuale. Diritti delle donne, diritti dei non musulmani, delle persone ritenute apostate e delle punizioni corporali: sono questi gli argomenti che hanno maggior rilievo in un siffatto contesto. E sono questi gli argomenti che si trovano alla base delle critiche che il mondo occidentale muove nei confronti del mondo arabo-islamico. Vi è pertanto un’articolazione duplice del dibattito globale sui diritti umani, che si riflette nella vita politica internazionale, statuale e non governativa, concernente le condizioni dei diritti umani nei Paesi mediorientali. Perché se da un lato alcune delle violazioni compiute dagli Stati in questione riguardano aspetti condivisi anche da molti altri Paesi, dall’altro alcuni argomenti concernono più specificatamente elementi ideologici e legislativi tipici degli Stati mediorientali così come vengono concepiti in base alla legge e alla religione islamica. Faccio riferimento ad esempio al trattamento riservato da alcuni Stati alle minoranze non musulmane o alle persecuzioni di scrittori e giornalisti le cui opinioni sono state ritenute offensive nei confronti dell’islam o ancora al mantenimento nei codici di diritto penale del reato di apostasia. E si può inoltre anche aggiungere un ulteriore aspetto: quello del petrolio, presente nella maggior parte degli Stati cui vengono mosse tali accuse di violazione dei diritti umani. Sono il petrolio e la ricchezza che ne deriva che garantiscono a questi Paesi di difendersi dalle accuse mosse dalla comunità internazionale, mascherandosi dietro il potere economico e finanziario che detengono e che conseguentemente li tutelano da ritorsioni politiche internazionali. Un simile atteggiamento ha dato adito a molti commentatori di presentare il contrasto suscitato dalla mancata ratifica della Dichiarazione del 1948 e dalla costante violazione, , dei diritti umani – da parte solo di alcuni dei Paesi arabo-islamici – quale parte di un più amplio conflitto politico sociale radicato nella storia e rappresentato come conflitto di “civiltà”, che vede opporsi da un lato la civiltà occidentale, identificata anche come giudeo-cristiana, dall’altro la civiltà islamica, considerata “altra” e non compatibile con i valori predominanti della prima. Uno dei principali errori che si riscontra alla base di questo pensiero “filosofico” e politico condiviso dalla maggior parte dei governi occidentali, sta proprio nel fraintendimento che si ha della religione e del diritto islamico classico. Come già altre volte accennato, l’islam e il diritto musulmano non sono un monolite unico ed immobile nel tempo e nello spazio, e pertanto non è possibile non porre delle distinzioni oggi tra i vari Stati mediorientali. Perché talvolta una pratica, un aspetto, una norma che si identificato come “islamici” possono trovarsi totalmente in contrasto con i principi ed i valori sanciti dal Corano, dalla Sunna e dalle altre fonti del diritto. I valori umani che connotano l’islam nella sua totalità non sono certamente distanti dai valori giudaico cristiani che si rinvengono nei testi sacri, quali Antico e Nuovo Testamento. E allo stesso tempo, tali valori sono gli stessi sui quali si fonda la libera e pacifica convivenza dei popoli e il rispetto gli uni degli altri. I valori umani non hanno colore politico o religioso, così come si pretende di fare sia nel mondo occidentale sia in quello mediorientale. Nel dibattito che si è scatenato in seno all’Onu dopo la Dichiarazione dei diritti del 1948 e dopo le altre dichiarazioni che si sono susseguite negli anni Settanta e Ottanta, si rintracciano diversi elementi importanti che hanno dato vita al malessere che permane ancora oggi e che, nell’ambito del dibattito islamico, si caratterizza ed è condizionato dalle controversie sorte a seguito delle politiche adottate nei confronti di specifiche questioni di politica internazionale. Si pensi, ad esempio, all’irrisolta e sempre attuale questione palestinese, alla guerra di matrice etnico-religiosa in Bosnia o al trattamento riservato da alcuni stati europei ai musulmani. Un altro punto centrale della questione e del malessere islamico nei confronti dell’universalità sancita dalle Nazioni Unite, è l’accusa che essi muovono, insieme alle organizzazioni non governative come Amnesty International, ad alcuni governi occidentali (come ad esempio la politica portata avanti da tutte le amministrazioni statunitensi da Carter a Bush Junior), che certamente non hanno rispettato i dettami sottoscritti e ratificati nel documento del 1948 ed in quelli successivi ed hanno violato i diritti inalienabili di ogni individuo. In un’ultima analisi, un ulteriore elemento evidenziabile all’interno di questo amplio e discusso dibattito è rappresentato dalle correnti e dai movimenti politici che dalla fine degli anni Settanta hanno sancito nella maggior parte dei Paesi arabo-islamici – con l’elezione in Pakistan di Zia ul Haq e la Rivoluzione iraniana di Khomeini – un netto cambiamento di rotta con la politica precedente post coloniale: l’islamizzazione portata avanti dall’alto dai governi centrali e dal basso dalla massa (seppur tuttora minoritaria) dei movimenti islamisti ha cercato di alterare le legislazioni e le pratiche statuali per farle adattare e “sottomettere” ad una visione più tradizionale della società e della politica, e ad un comportamento generale più “islamicamente corretto”.
In quest’ultimo caso va da sé, che il riferimento all’islamicamente corretto attribuito da ogni governo alla propria attività riformatrice è un concetto del tutto peculiare ad ogni società e ad ogni Stato poiché non sussiste realmente un comportamento, una politica od un movimento che si possa arrogare l’etichetta assoluta di reale e pura islamicità; inoltre un comportamento simile comporterebbe di riflesso la conseguente accusa di “non islamico” per tutti quegli altri movimenti, politici, religiosi e sociali, che non percorrono pedissequamente il cammino intrapreso dal primo. Un passo decisivo nella questione dei diritti dell’uomo nell’islam è stato compiuto dalla Lega degli Stati Arabi che ha emanato nel 1994 la Carta Araba dei Diritti dell’Uomo, successivamente rivista ed aggiornata con la pubblicazione di un nuovo testo nel 2004. La Carta è stata ratificata da sette Stati membri ed è entrata in vigore il 15 gennaio 2008 e già dal suo preambolo si comprende quanto lo spirito che la pervade sia completamente differente da quello delle due dichiarazioni precedenti. Da un lato difatti, vengono sanciti i principi divini della fratellanza e dall’uguaglianza degli esseri umani, così come definiti dalle religioni, ma dall’altro, per la prima volta, viene proclamata l’aderenza della Carta alla Dichiarazione del 1948, ai Patti internazionali del 1966 e alla dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’islam del 1990.
Quest’ultima carta mostra da un lato il pregio di far trapelare la precisa volontà da parte di alcuni degli Stati mediorientali di superare le perplessità e il clima di disaccordo precedentemente illustrato, manifestando l’intenzione di ritrovare uno spirito innovatore e parzialmente laico, mentre dall’altro non rinuncia alla connotazione parzialmente regionale del suo contenuto, sottolineando più volte il carattere “arabo” dei suoi pronunciamenti, rivolgendosi pertanto prevalentemente alla platea degli Stati arabi e/o arabofoni, aderenti alla Lega. È indubbio che il dibattito circa la dignità dell’uomo all’interno delle varie dichiarazioni emanate negli ultimi trent’anni dalle organizzazioni arabo-islamiche trova nella sua connotazione regionale e culturale il fattore predominante e probabilmente limitante, ma allo stesso tempo, la numerosa produzione dimostra il desiderio da parte di tutto il mondo arabo-islamico di allinearsi con i Paesi occidentali nella discussione ancora aperta sul carattere universale dei diritti inalienabili di tutti gli individui.


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