Serena Di GiovanniCome sosteneva Jacques Le Goff, noto storico e studioso della sociologia medievale, “la memoria collettiva è uno degli elementi più importanti delle società sviluppate e delle società in via di sviluppo, delle classi dominanti e delle classi dominate, tutte in lotta per il potere o per la vita, per sopravvivere e per avanzare”. La memoria, alla quale la Storia attinge e di cui a sua volta è alimentata, deve ricostruire il passato soltanto per servire al presente e al futuro. Quale espressione dei lasciti dell’uomo, la memoria è oggetto di ripetute e mutevoli interpretazioni, un patrimonio che ne orienta il destino. Nella misura in cui serba traccia degli scacchi subìti e degli errori commessi, è lo strumento che permette di apprendere dall'esperienza e di perseguire nel futuro la realizzazione delle promesse che il passato ha lasciato inadempiute. Perché se è vero che, metodologicamente parlando, la Storia non si ripete mai e ogni evento va letto nel contesto sociale in cui si presenta, è altrettanto vero che dal passato è necessario imparare per non cadere, costantemente e stupidamente, negli stessi errori. Come nel caso di Gaza, dove in questi giorni, sul fronte prettamente bellico, emerge la violenza sfrenata di Israele nei confronti del popolo palestinese e, sul fronte mediatico, la distorsione operata da alcune fonti giornalistiche sulla questione. Osservando social media e giornali non possiamo fare a meno di notare, infatti, come parte dell’opinione pubblica tenti di giustificare il genocidio perpetrato da Israele a danno della popolazione palestinese scaricando le colpe su Hamas, accusata di utilizzare i civili come difesa, come ‘scudo umano’, per i suoi depositi di armi e le sue rampe di missili, vero obiettivo delle truppe israeliane. Secondo alcuni, Israele non farebbe altro che difendere la propria libertà, la propria indipendenza dai “terroristi”. Adesso, senza addentrarci nelle cause e nella complessità della questione mediorientale, per la cui ricostruzione occorrerebbe risalire alla Thorah, i sostenitori del popolo israeliano dovrebbero spiegarci per quale motivo si è scelto di massacrare gratuitamente i bambini che si trovavano al porto di Gaza, poiché sembra ormai assodato che quei giovani innocenti fossero il bersaglio diretto dell’esercito israeliano. Ma soprattutto, a monte di tutto ciò, questi signori dovrebbero chiarirci se la striscia di Gaza, un territorio (palestinese) confinante con Israele ed Egitto, un fazzoletto di terra che si estende per appena 360 chilometri quadrati, possa giustificare la morte di centinaia e centinaia di persone. Qualcuno ci dovrebbe spiegare perché l’Europa, al cospetto di una crisi tanto vasta e sfaccettata, non abbia immediatamente elaborato una riconoscibile e unitaria politica internazionale. E, allo stesso modo, perché una parte cospicua dei media si ostini a individuare ciò che sta avvenendo a Gaza con la parola “guerra”, quando per essa si intende un confronto armato fra due o più soggetti collettivi e non un massacro a senso unico. Le cose devono essere chiamate con il loro nome. “Un atto commesso con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” si chiama “genocidio”, non guerra. Del resto, i numeri parlano chiaro: basta consultarli per capire che non si tratta né di un conflitto, né di un’autodifesa, né di una lotta al terrorismo o per la libertà di un popolo, ma di un vero e proprio sterminio, dettato da questioni politiche. Oggi, Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, sta volutamente e reiteratamente violando i diritti umani della popolazione palestinese, come accaduto anche qualche anno fa con l’operazione ‘Piombo Fuso’, una campagna militare lanciata per "colpire duramente l'amministrazione di Hamas al fine di generare una situazione di maggior sicurezza intorno alla striscia di Gaza nel tempo". Una Storia che, a quanto pare, si ripete, a dispetto di ogni insegnamento che la memoria collettiva dovrebbe lasciarci. Tempo fa, un importante storico anglosassone, Niall Ferguson, studiando le cause della prima guerra mondiale, ha cercato di rispondere a una serie di domande che possono confluire in unico grande quesito: perché, al tempo, nessuno ha impedito uno scempio che diventava di giorno in giorno più evidente? Tra un secolo, forse, qualcuno potrebbe rivolgerci lo stesso interrogativo. E noi, ancora una volta, potremmo non saper rispondere.


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