Vittorio LussanaEsattamente 50 anni fa, il 2 gennaio 1960, moriva Angelo Fausto Coppi, il più grande campione di ciclismo di tutti i tempi. Fausto era venuto al mondo il 15 settembre 1919 da Domenico e Angiolina Coppi, due contadini dell’alessandrino che vivevano a Castellania, la zona più meridionale del Piemonte, un ‘triangolo’ di terre ai confini con Liguria e Lombardia. Appena nato pesava solamente due chili. Da ragazzo iniziò a lavorare a Novi Ligure come garzone di una salumeria, ma proprio a Novi incontrò colui che tanta parte ebbe nei suoi trionfi: il massaggiatore cieco Biagio Cavanna, un autentico ‘santone’ del ciclismo che, negli anni ’30 del secolo scorso, era stato lo ‘scopritore’ di Girardengo. Fu proprio Cavanna a insegnare al giovane Coppi, intuendone le grandi potenzialità fisiche, il mestiere del corridore. Fausto disputò la sua prima gara nel luglio del 1937 alla Boffalora, ma fu nell’estate del 1938 che centrò la sua prima vittoria. Nel 1939 partecipò come indipendente a una corsa a Pavia. Durante la competizione, un guasto al cambio della sua pesantissima bicicletta lo costrinse a scalare gli ultimi 20 chilometri in salita con un ‘rapporto’ di pianura. Nonostante l’inconveniente, Coppi terminò la gara classificandosi al terzo posto, impressionando notevolmente i dirigenti della Legnano, la squadra di Gino Bartali. Nel frattempo, Cavanna era già in contatto con la Bianchi. In una lettera al ‘patron’ Rossignoli, egli scrisse: “Caro Giovanni, ti mando due corridori: uno, il Coppi, vincerà, l’altro farà quel che potrà”. L’anno successivo, Coppi venne ingaggiato come gregario della Legnano di Gino Bartali, ma già al suo esordio al Giro d’Italia sbaragliò il campo, tra la sorpresa generale, nella tappa Firenze – Modena, grazie a un’incredibile fuga sull’Abetone sotto a un diluvio di pioggia, conclusasi trionfalmente con la conquista della sua prima ‘maglia rosa’, che poi difese sino al termine della grande corsa a tappe: era nata una ‘stella’. Due anni dopo, al velodromo Vigorelli di Milano, Coppi stabilì il nuovo record dell’ora, ma la II guerra mondiale intervenne a ‘tarpare le ali’ al giovane campione: spedito in Africa con la Divisione Ravenna, venne fatto prigioniero dagli inglesi. Proprio al seguito delle truppe britanniche, con funzioni di attendente di un capitano rientrò in Italia nel 1945 correndo alcune gare per la S. S. Lazio. Nel 1946 nacque finalmente il binomio che divenne leggenda: Fausto Coppi fu messo sotto contratto come capitano della Bianchi, la squadra con la maglia bianco - celeste, quella di “un uomo solo al comando”. Il ‘connubio’ diede subito i suoi frutti: Coppi vinse la sua prima Milano - Sanremo con una fuga epocale e 14 minuti di vantaggio sul secondo classificato (la Rai, annunciando via radio l’arrivo al traguardo del giovane talento tortonese, commentò: “Primo classificato: Coppi Angelo Fausto. In attesa del secondo classificato, trasmettiamo musica da ballo…”). Quindi, tre tappe al Giro (vinto da Bartali), il Gran Premio delle Nazioni, il Circuito di Lugano e il primo dei suoi 5 giri di Lombardia (1946 – ‘47 – ‘48 – ‘49 – ‘54). Nel 1947 concesse il bis: a 7 anni di distanza rivinse il Giro d’Italia. Nacque in quel periodo la formazione che entrerà con a lui nel mito: Carrea, forte in salita e ‘maglia gialla’ per un giorno al Tour de France del 1952; Milano, formidabile passista; Gaggero; Giacchero; Gismondi. E, naturalmente, Serse Coppi, l’amato fratello che vincerà la Parigi - Roubaix del 1948 per poi morire tragicamente in corsa durante il Giro del Piemonte del 1951. Nel 1948, Fausto centrò la seconda ‘accoppiata’ Sanremo – Lombardia, oltre al Giro dell’Emilia, alla Tre Valli Varesine e due tappe al Giro d’Italia. Ma fu il 1949 l’anno della sua definitiva consacrazione a livello mondiale: Fausto vinse ancora la Milano - Sanremo e il Giro di Lombardia, mentre al Giro d’Italia firmò quella che divenne la sua impresa più celeberrima, con 192 chilometri e cinque colli alpini di fuga solitaria nella Cuneo – Pinerolo. Vinto il terzo Giro, Coppi si apprestò ad affrontare il suo primo Tour de France: nessuno era mai riuscito a centrare la ‘doppietta’ Giro - Tour nello stesso anno. Fausto partì malissimo, perdendo, nelle prime tappe, oltre 30 minuti. In verità, la questione era molto semplice: Bartali, umiliato dalla sconfitta subita sulle Alpi marittime al Giro d’Italia di qualche mese prima e in virtù del fatto che aveva vinto il Tour dell’anno precedente, aveva preteso dall’allenatore Binda il grado di capitano della formazione italiana, ottenendo altresì che venisse concesso a Coppi solamente un gregario: il fedele Milano. Coppi comprese la situazione nella tappa di Roen, nella Francia meridionale, allorquando, dopo una caduta, il team italiano riuscì a fornirgli una bicicletta di ricambio soltanto dopo 18 lunghissimi minuti. Il momento fu drammatico. E dimostrò a tutto il mondo quanto noi italiani fossimo bravi soprattutto a odiarci proprio nei momenti di difficoltà. Quando finalmente la squadra italiana giunse sul posto, la rissa venne evitata di un ‘soffio’ prima tra Coppi e Fiorenzo Magni, poi tra Coppi e lo stesso preparatore atletico, Alfredo Binda. Nelle tappe successive, anche grazie a una segretissima alleanza con la squadra francese, guidata dal giovane Louison Bobet, Fausto risorse: dominò le due lunghissime cronometro e staccò tutti alla sua maniera nella Briançon - Aosta. Fu il trionfo: in Francia nasceva il mito di ‘Fostò’. Al mondiale di Copenaghen, su un tracciato piatto come un biliardo, Coppi si piazzò solo terzo dietro al ‘principe delle volate’ Van Steembergen e Kubler. Il 1950 per Fausto fu l’anno delle grandi classiche del Nord: vinse, infatti, la Parigi - Roubaix e la Freccia Vallone. Il 1951 resta nella memoria per la scomparsa di Serse, che segnò Fausto nel profondo: dopo un buon Giro, chiuso con due vittorie di tappa, partecipò al Tour con la morte nel cuore. Ma nei pressi di Montpellier attraversò una crisi psicologica spaventosa, a tratti addirittura drammatica, dalla quale ne uscì solo grazie all’aiuto dei suoi più fedeli compagni di squadra. I tifosi francesi rividero per un giorno il vero Fausto nella Gap – Briançon, in cui trionfò dopo una lunga fuga: ma non poteva esserci gioia. Nel 1952, nel pieno della sua maturità d’atleta, Coppi riuscì a ripetere la doppietta del ‘49: vinse tre tappe e classifica finale al Giro d’Italia, addirittura cinque Tappe e la mitica ‘maglia gialla’ al Tour. Il 1953 fu l’anno della sua quinta vittoria al Giro dopo un’ennesima lunghissima fuga solitaria sullo Stelvio. Ma soprattutto, fu l’anno del suo trionfo al mondiale su strada sull’impegnativo circuito di Lugano, caratterizzato dalla salita della ‘Crespera’. A Lugano, Coppi fece letteralmente il vuoto dietro di sé: solo il belga Derycke provò a rimanergli ‘a ruota’, ma a al traguardo accusò oltre 6 minuti di ritardo. Il mondiale fu il punto più alto della sua carriera, ma anche l’inizio della ‘discesa’. Nel 1954 rivinse il Lombardia, oltre a numerose altre corse. Nel 1955 arrivò la sua ultima vittoria in una corsa in linea, al Giro dell'Appennino. Nel 1957, sotto le insegne della Carpano - Coppi, ecco l’ultimo trionfo al Trofeo Baracchi, una cronometro in coppia con Baldini. Nel 1959 nacque il progetto della San Pellegrino, una nuova formazione diretta da Gino Bartali che doveva avere come capitano proprio Fausto: i due grandi rivali sotto la stessa bandiera come venti anni prima. Ma il destino, ancora una volta, era in agguato: di ritorno da un criterium in Alto Volta, Coppi contrasse una patologia malarica non diagnosticata. Si spense il 2 gennaio 1960 tra l’incredulità del mondo intero. Lasciò due figli: Marina, avuta dalla moglie Bruna Ciampolini e Faustino, nato dall’unione con la signora Giulia Occhini, colei che i giornalisti avevano ribattezzato la ‘dama bianca’.

LA MITICA CUNEO – PINEROLO
Era il 10 giugno 1949. Quell’anno era stato predisposto che il Giro d’Italia affrontasse la Cuneo – Pinerolo, una tappa terribile, che prevedeva la ‘scalata’ di cinque montagne asperrime destinate a entrare nel mito del ciclismo. La maglia rosa era sulle spalle di Adolfo Leoni, ma già durante la Bassano del Grappa - Bolzano di qualche giorno prima, Coppi aveva dimostrato di essere in gran forma, andando a vincere con sette minuti di vantaggio sullo stesso Leoni dopo aver scalato in solitario i ‘passi’ del Rolle, del Pordoi e del Gardena. Dunque, già alla mattina della ‘punzonatura’ a Cuneo, tutti si aspettavano un nuovo ‘acuto’ dell’uomo ‘biancoceleste’ di Castellania. E, infatti, il ‘campionissimo’ si tramutò in un arcangelo imprendibile: rintuzzò un attacco di Volpi in vista del Colle della Maddalena e s’involò in un’impresa che fece rabbrividire tutti i giornalisti del tempo. Fu il volo di un airone ispirato da una forza superiore: Coppi scalò da solo la Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere, giungendo a Pinerolo con 12 minuti di vantaggio su Gino Bartali. Leoni finì lontanissimo, a circa venti minuti. Con quell’impresa, Fausto portò la sua sagoma e la sua smorfia a dipingere l’affresco di un mito incancellabile: per i laici, era divenuto un dio destinato a offuscare la razionalità e il materialismo; per i credenti, il segno più tangibile di come si potesse esser grati al Creatore. Fu quella la prima grande ‘rivincita’ italiana, che allontanò definitivamente il ricordo di una guerra terribile, voluta dalla più accecante delle stupidità umane. La cronaca sportiva di quell’indimenticabile giornata è la seguente: dopo la partenza del ‘gruppone’ di corridori da Cuneo, i primi cenni di ‘nervosismo’ si erano avuti a causa del giovane Volpi, che puntava a vincere almeno due dei cinque Gran Premi della Montagna in palio quel giorno. Ma la Bianchi, la squadra di Coppi, riuscì subito a porre un freno al talentuoso scalatore, trascinando il proprio capitano in testa alla corsa sin dal diciottesimo chilometro. Portatosi in testa al gruppo, Coppi si avvicinò a Volpi, che a sua volta era seguito a ruota da Gino Bartali, e gli disse: “Non provarci più: oggi vado su io…”. “Ma ‘ddo vvai??? Ma ‘ddo vvai”??? esclamò Bartali, il quale aveva ascoltato la conversazione: “Ci sono cinque colli da scalare: tu sei solamente un pazzo”!!! Coppi, allora, si riportò in testa al gruppo e, mentre i suoi uomini iniziavano una manovra ‘a ventaglio’ tesa a compattare e a rallentare tutto il gruppo, all’improvviso Fausto si lanciò incontro all’ignoto. L’andatura della corsa divenne elevatissima: inserito un rapporto di pianura, Coppi iniziò a scalare la Maddalena con un passo costante e pedalate violente come ‘zappate’ impresse sull’intero pianeta Terra. Bartali, nel frattempo, continuava a protestare: “Ma ‘ddo vvai??? Ma ‘ddo vvai???”. Il Passo della Maddalena non era una salita lunghissima, ma era la prova più dura di quella giornata dopo l’Izoard, separata dal Col de Varse da una discesa ripidissima, che si scaraventava ‘a piombo’ sul confine tra Italia e Francia. Salito in cima alla Maddalena con circa sei minuti di vantaggio, Fausto si lanciò in una discesa folle, spericolata, che lasciò tutti attoniti, impegnando persino i motociclisti della Rai in un inseguimento stradale pericolosissimo. Coppi aveva guadagnato altri minuti preziosi di vantaggio, ma anche Bartali era riuscito a salire in vetta alla Maddalena, nel tentativo di limitare i danni di quella fuga a prima vista inconcepibile. E si lanciò anch’egli in una discesa disperata all’inseguimento del grande rivale, che nel frattempo era già arrivato nella valle di Saint Paul, a 1400 metri sul livello del mare, rispetto ai 1900 del passo della Maddalena. Fausto ricominciò ad attaccare la salita del Col de Varse con temerarietà. La corsa a cui tutto il mondo stava assistendo rappresentava il nostro primo vero momento di ‘orgoglio’ dopo le umiliazioni patite sin dall’inizio della II guerra mondiale: due italiani eccezionali si stavano sfidando in un duello all’ultimo sangue sul ‘tetto’ d’Europa. Fausto salì in cima al Varse, a 2150 metri d’altitudine, passando lo spartiacque e sconfinando in terra di Francia. Bartali, ancora ai piedi della salita, si giocava le ultime possibilità di raggiungerlo: rosso in volto, la maglia gli si era letteralmente appiccicata addosso per il sudore, diventando una seconda pelle. Disperato, si avvicinò ai motociclisti della Rai mettendosi a gridare: “Quanto ha??? Quanto ha???”. Il radiocronista, Mario Ferretti, assordato dal rumore del sidecar che arrancava sulla salita, chiese al proprio pilota di rallentare. Bartali, di nuovo, domandò urlando: “Quanto ha di vantaggio”??? La risposta fu raggelante: “5 minuti!!! E’ passato da 5 minuti”!!! Bartali era morto, un morto che pedalava, un cadavere pietrificato dall’umiliazione. E iniziò a ‘sputare veleno’ da tutti i pori: “Te la faccio pagare, ‘acquaiolo’!!! In Francia te la faccio pagare!!! Non eri nessuno nel ’40: io ti ho creato, io ti distruggo”!!! Fausto, nel frattempo, era giunto ai piedi dell’Izoard: aveva di fronte la salita più dura della storia del ciclismo, forse dell’intero universo. Tutto il mondo si bloccò come paralizzato: persino l’asse terrestre sembrava avesse smesso di ruotare su se stesso. Il commento di tutti, da New York a Mosca, da Buenos Aires a Melbourne, era scontato: “Non ce la fa, non può farcela: adesso ‘scoppia’…”. Ma Fausto quel giorno non era più un uomo: era diventato un dio, il dio delle corse. Senza mai alzarsi dalla sella della sua bicicletta, impresse a se stesso un’andatura costante, continua, impressionante. Era assai diverso da Bartali, un ‘bricoleur’ tutto ‘strappi e sacramenti’: lui era un’entità superiore che, pedalando, poteva scalare persino le salite celesti. In fuga da cosa? Via da che cosa? Senza alcun dubbio, dai secoli di miseria e umiliazioni patite e subite, nel corso della Storia, da tutti gli italiani. I francesi strabuzzarono gli occhi quando lo videro arrivare in vetta all’Izoard che sembrava si fosse appena preso un caffè al bar. E lo videro lanciarsi nuovamente in discesa senza neanche mettersi la giacca a vento. C’era la neve sull’Izoard, l’ombra dell’ultima glaciazione terrestre a 2500 metri di altitudine. Ma nonostante il vento gelido gli tagliasse la faccia e le narici respirassero appena, egli si gettò a capofitto verso la valle de La Vachette, esattamente mille metri sotto le sue stesse ruote. All’inizio della quarta asperità, il Colle del Monginevro, i minuti di vantaggio erano diventati addirittura nove. Il gruppo, che già sul Varse si era sgranato, sull’Isoarde si ritrovò polverizzato, letteralmente disintegrato, come se avesse incontrato un furioso uragano che lo aveva ridotto a uno sparuto crocchio di sopravvissuti. Verso il Monginevro, la salita era più dolce. Fausto aumentò l’andatura, raggiunse il valico in una manciata di minuti e, immediatamente dopo, si scaraventò sullo strapiombo che ancora oggi scende verso Salice d’Oulx come l’otto volante di un luna – park. L’ultimo dislivello da affrontare era quello che dai 1100 metri di Jouvenceaux saliva sino ai 2200 del Sestriere. Gli stanziali cominciarono a uscire dalle proprie case per attenderlo ai lati della strada e applaudire il figlio di due contadini che stava salendo verso la vittoria più incredibile e commovente della storia di tutto lo sport. La gente iniziò a corrergli incontro, ad affiancarlo, a incitarlo gridandogli: “Sei il più forte!!! Dai, che ce la fai!!! Stai facendo mangiare la povere al mondo”!!! Qualcuno iniziò a piangere, qualcun’altro si esaltò in urla forsennate: “Vai su!!! Vai su, perdio”!!! Fausto non riusciva nemmeno ad alzare gli occhi dalla ruota: era terrorizzato dal rischio di una foratura improvvisa, eventualità tutt’altro che improbabile sulle strade ‘maledette’ di quell’epoca. Il radiocronista Ferretti, comprendendo cosa stesse realmente accadendo quel giorno, ordinò al pilota del suo sidecar di aumentare l’andatura e di sorpassare Fausto, che intanto continuava a salire con il cuore che gli pulsava tra i denti. L’annuncio che sentiva di dover dare al mondo era il più bello, il più toccante di sempre, soprattutto per noi italiani. La moto sbandò sulla dirittura di arrivo di Pinerolo, dopo aver disceso la valle rischiando per ben due volte di ‘cappottarsi’. Lanciatosi a terra come un felino impazzito, Ferretti riuscì finalmente a raggiungere il primo microfono disponibile nella postazione ‘fissa’ della Rai: “Signore e signori, radioascoltatori di tutta Italia, vi prego di porgermi la vostra attenzione: a una decina di chilometri dall’arrivo della tappa di oggi, la Cuneo – Pinerolo, una massacrante salita di 192 chilometri che si snoda sulle montagne più alte d’Europa, un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco – celeste, il suo nome è Fausto Coppi…”.

LA ‘DAMA BIANCA’
Negli anni ’50, in Italia non esisteva l’istituto del divorzio. E le donne italiane erano costrette a subire dai propri mariti ogni genere di torto o tradimento. Ma proprio nel corso di quel decennio accadde un fatto significativo, diverso nei suoi sviluppi, ma caratterizzato dalla medesima ingiustizia sociale: Fausto Coppi, sposato e padre di una bambina, si innamorò della signora Giulia Occhini Locatelli, la bella moglie di un noto medico novarese. La storia viene ricordata dal grande pubblico come quella della ‘dama bianca’, il soprannome con cui venne definita la signora in questione dal giornalista francese de ‘l’Equipe’, Pierre Chany, il quale scrisse un giorno: “Vorremmo sapere di più su quella ‘signora in bianco’ che abbiamo visto al fianco di Coppi”. Chany la descrisse proprio così: “La dame en blanche” per via di un montgomery color neve che la Occhini indossò sul valico del Passo dello Stelvio nel giorno in cui il mondo intero vide passare Fausto con un vantaggio di 14 minuti sui propri inseguitori, in una delle sue imprese più celeberrime. Moglie di un appassionato tifoso ‘coppiano’, Giulia Occhini aveva conosciuto il grande ‘airone’ durante il Giro d’Italia del 1953 ed era apparsa pubblicamente assieme a lui durante la premiazione del Campionato del mondo su strada, svoltosi in quello stesso anno a Lugano e vinto da Coppi. Fra la Occhini e il campione del mondo iniziò una storia d’amore travolgente, ma essendo entrambi già sposati la relazione suscitò grande scandalo e venne fortemente avversata dall’opinione pubblica: persino il Pontefice di allora, Papa Pio XII, arrivò a condannarla apertamente. Coppi e la prima moglie, Bruna Ciampolini, si separarono consensualmente nel 1954, mentre il dottor Locatelli arrivò a denunciare a piede libero la propria consorte per adulterio, reato a quei tempi penalmente perseguibile. In conseguenza di ciò, la Occhini dovette scontare un mese di carcere e, successivamente, un periodo di domicilio coatto ad Ancona, mentre a Coppi venne ritirato il passaporto. Tra mille difficoltà, Coppi e la Occhini riuscirono finalmente a sposarsi in Messico - un matrimonio mai riconosciuto in Italia - e a dare alla luce un figlio, Faustino, nato nel maggio del 1955 a Buenos Aires, unico modo per fornire al neonato il cognome del proprio padre naturale. Questa vicenda ha finito col rappresentare storicamente il più classico esempio del ‘bacchettonismo all’italiana’, una forma di perbenismo ipocrita che troppo spesso ha invaso la vita privata di molte persone in stridente contraddizione con quei processi di secolarizzazione che, sin dal secondo dopoguerra, hanno attraversato la società italiana.

LA PRIMA VITTIMA DI MALASANITA’
Il 2 gennaio del 1960, dopo una lunga notte di agonia, Fausto Coppi morì all’ospedale di Tortona. Gli fu fatale un gravissimo errore sanitario: i medici dell’ospedale piemontese, infatti, non vollero nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che l’improvviso aggravamento dello suo stato di salute, in atto sin dal giorno di Natale del 1959, dipendesse da una forma di malaria contratta in Alto Volta pochi mesi prima. “E’ solo una forte forma influenzale”: questa l’incredibile diagnosi. Ad avvalorare la tesi che si trattasse di malaria lo testimoniava il fatto che il ciclista francese Raphael Geminiani aveva contratto, nel periodo immediatamente successivo alla tournée africana - cui aveva preso parte insieme a Coppi - la stessa malattia. Ma nel suo caso, il virus era stato riconosciuto in tempo dai medici francesi e l’atleta si salvò. Alcune fonti più recenti hanno inoltre parlato di una serie di disperati tentativi dello stesso Geminiani, ormai convalescente, di entrare in contatto telefonico con i dottori che avevano in cura Coppi presso l’ospedale di Tortona, al fine di avvertirli di una possibile terapia a base di chinino. Un gesto, a quanto pare, respinto quasi con fastidio dai medici italiani, fino a risultare la vera causa di morte del ‘campionissimo’. La fine di Fausto, terribilmente ingiusta, sottolineò ulteriormente i grandi momenti di sfortuna da lui patiti nel corso della vita, strane ‘maledizioni’ che lo avevano perseguitato rendendolo ancor più amato dalla gente, perché insieme alle sue grandi vittorie e alle sue indimenticabili imprese si erano regolarmente presentati momenti di difficoltà durissimi: la prigionia in Africa durante la guerra; la scomparsa del padre pochi anni dopo; la morte in corsa del fratello Serse, che lo aveva portato psicologicamente a contatto con la paura frenandone, in particolar modo negli ultimi anni, l’impeto atletico più vigoroso; il grave infortunio con doppia frattura all’anca e al bacino a Primolano nel 1950; la diffidenza patita e subita per le sue scelte amorose più personali; infine, la tragica scomparsa per mano della più ottusa delle inettitudini sanitarie. Fu in base a questo genere di considerazioni che il giornalista francese Jacques Augendre, qualche giorno dopo la scomparsa di Fausto scrisse le seguenti dolorose parole: “Questa triste morte, del tutto prematura, non giustificata, ingiusta, santificherà un eroe e ne farà un martire. Di un campione, ha fatto un immortale”. Noi tutti, oggi, non ci rendiamo neanche conto di cosa abbia significato la morte di Fausto Coppi, anestetizzati come siamo dall’attuale bolgia confusionaria della spettacolarizzazione comunicativa di massa. Ma in quel gennaio del 1960, milioni di italiani piansero ininterrottamente, per interi giorni e intere notti, poiché era venuto loro a mancare un punto di riferimento, umano e sportivo, insostituibile, un italiano indimenticabile.




(speciale pubblicato sulle pagine del n. 1 della rivista quindicinale cartacea 'Periodico Italiano' del 2 gennaio 2010)
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