Giuseppe SaccoChe un cambio di governo non abbia riportato l'ordine in Argentina, e che - nonostante le misure di emergenza prese dai Peronisti - siano continuati i tumulti per il pane e lo spargimento di sangue, può sorprendere solo chi davvero aveva creduto che i problemi che si pongono alle autorità di Buenos Aires potessero essere limitati alle sole questioni valutarie e di finanza internazionale.
La malattia che mina l'economia di questo grande paese è invece più ampia e più profonda di così, e dipende soprattutto dal settore reale dell'economia, dalla disastrosa collocazione del paese nel commercio mondiale. E senza affrontare questo aspetto, senza chiedersi attraverso quali esportazioni l'Argentina potrà ripagare un debito che supera i 130 miliardi di dollari, non si fa altro che girare attorno al problema, lasciandolo marcire senza soluzione.
L'industria argentina é nata e si é sviluppata, per molti decenni, dagli anni trenta, in un clima autarchico, con un'altissima protezione doganale contro i prodotti importati.
Ciò non solo ha reso sempre più poveri i consumatori - obbligati a comprare beni di qualità inferiore e a prezzi più alti di quelli praticati sul mercato internazionale - ma soprattutto ha reso pressocchè impossibile qualsiasi esportazione verso l'estero, a meno di una drastica riduzione dei salari, quale poteva ottenere solo un feroce regime militare. La grande prosperità in cui vivevano gli Argentini prima della seconda guerra mondiale si è perciò gradualmente trasformata in una decadenza senza fine, fino ad una condizione di miseria tale da determinare l'incredibile: scene medioevali di assalti ai forni, in un paese che produce immense quantità di grano e di carne.
Il grano e la carne erano appunto i prodotti che, in passato, l'Argentina esportava verso i paesi industriali, in primo luogo l'Inghilterra. E ne traeva abbastanza valuta estera da importare ogni sorta di manufatti, anche quelli decisamente voluttuari. Negli ultimi dieci anni, invece, il paese ha potuto esportare solo petrolio, anche se in quantitativi non trascurabili.
La diminuzione del prezzo dell'energia nell'ultimo anno é quindi in piccola parte la causa della crisi, ma in parte davvero piccolissima. Il vero problema é che, in un mondo che dice di essere organizzato secondo i principi del libero scambio, non c'é sbocco per i prodotti in cui l'Argentina detiene un vantaggio concorrenziale indiscutibile, il grano e la carne appunto. E non c'é sbocco perché i principali paesi ricchi proteggono la propria agricoltura nonostante essa abbia costi molto più elevati e qualità nettamente più scadente. E i nomi di questi paesi sono, nell'ordine, la UE, il Giappone e gli Stati Uniti. In questo distorto mercato mondiale, dove coloro che predicano il liberismo praticano in alcuni settori un feroce protezionismo, non c'é naturalmente posto per chi - come l'Argentina - capita avere una naturale specializzazione proprio nei prodotti per i quali la regola del libero mercato non vale.
Dopo tanti decenni di sforzo ininterrotto per diventare un paese industriale, l'Argentina si trova di fronte alla dura realtà. La sua industria, nata sotto una tutela autarchica, non riesce a nuotare nell'oceano del mercato mondiale. D'altra parte, nel tentativo di forzare la propria naturale vocazione di paese agricolo, l'Argentina ha ormai la struttura sociale di un paese urbanizzato e sofisticato, che non può tornare al passato o chiudersi nell'isolamento senza terribili e sanguinosi sconvolgimenti sociali.
Il Mercosul, il Mercato Comune col Brasile e altri paesi minori, può rappresentare certo un mare meno vasto e meno tempestoso di quanto non sia il mercato mondiale, in cui forse l'economia argentina potrebbe gradualmente imparare a nuotare. Ma é una costruzione ancora troppo embrionale e fragile per assorbire l'urto dei gravissimi problemi che l'Argentina ha accumulato, e che sono giunti in questo triste Natale ad una svolta esplosiva.
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