Vittorio Lussana

In Italia, le coppie di fatto, stando alle ultime stime ufficiali, sono più di 600 mila: si tratta di un fenomeno in dieci anni più che raddoppiato, tanto che ben 12 Paesi dell’Unione europea hanno deciso da tempo di dotarsi di normative tese a disciplinarlo. Qui da noi, invece, ogni genere di regolamentazione stenta a decollare a causa della fortissima opposizione della Chiesa cattolica, un orientamento verso cui il centrodestra e una parte del Pd si allineano sin troppo zelantemente. Questo veto della Chiesa non rappresenta una questione di poco conto: sotto un profilo squisitamente politico, esso rappresenta il sintomo più evidente dell’applicazione di una precisa strategia tesa a far recuperare alle gerarchie ecclesiastiche un’egemonia morale e culturale sulla società italiana. Il terreno su cui si sta giuocando questa ‘partita’ è quello della famiglia: la Chiesa, infatti, considera ogni eventuale riconoscimento giuridico delle unioni civili un autentico attentato alla famiglia ‘regolare’, da essa ritenuta un ‘pilastro’ dell’ordine sociale il cui indebolimento genererebbe chissà quale ‘sconquasso’. Nel sostenere questa ‘centralità’ della famiglia ‘ufficiale’, essa non è sola: anche una certa parte del pensiero laico, pur non conferendo alla famiglia un carattere ‘sacrale’, considera tale questione come un fattore potenzialmente destabilizzante. Si tratta di una convinzione di diretta discendenza ‘hegeliana’, che si richiama ad una concezione etica che pone la famiglia alla base stessa della nascita dello Stato moderno. La differenza di sfumature tra questo ‘storicismo hegeliano’ e la canonica concezione cattolica del matrimonio risiede nella distinta importanza che viene attribuita alla Storia e all’uomo in rapporto alla natura: nel cristianesimo, infatti, si presuppone l’esistenza di un diritto naturale direttamente discendente dalla volontà divina, che nessun genere di evoluzione storica può mutare; viceversa, per il pensiero laico l’evoluzione della Storia può modificare la condizione naturale dell’uomo. Nell’accezione cattolica, l’idea di fondo rimane quella dell’esistenza di un ‘diritto di natura’ a cui tutti gli uomini debbono assolutamente conformarsi e contro il quale le leggi dello Stato non possono entrare in antinomia, nonostante le scienze antropologiche abbiano da tempo dimostrato quanto sia sostanzialmente impossibile definire i tratti di un diritto naturale che vada bene per tutte le distinte civiltà che si sono succedute nel passato o che caratterizzano l’era attuale della Storia dell’umanità. Questa difesa della famiglia ‘naturale’, da parte della Chiesa, non è giustificata solamente da preoccupazioni di ordine religioso: essa rivela un’evidente intenzione etico - politica di difesa della società civile da pulsioni nichilistiche che la porterebbero alla disgregazione. In pratica, sulla base di quest’esigenza di salvaguardia dell’essenza della natura umana così come Dio l’ha creata, la Chiesa riafferma la necessità di evitare l’introduzione di provvedimenti che possano, anche solo indirettamente, costituire un’alterazione artificiale alla famiglia tradizionale. Il ‘nocciolo’ della sfida cattolica all’egemonia culturale laica è tutta qui: essa intende porsi come baluardo del pensiero delle certezze eterne contro il pensiero umanista, il quale invece ritiene che ogni cosa - e l’uomo stesso - siano in continuo mutamento. A questo punto, bisogna anche sottolineare il frangente in cui si ritrova, allo stato attuale, la cultura laica. Essa viene attaccata su due fronti: dal pensiero religioso tradizionale, ma anche da una concezione ‘neoscientista’ che tende a minimizzare il peso della Storia e della cultura sull’uomo, riducendo ogni problema ad una mera questione di evoluzione biologica. In pratica, una concezione dell’uomo che, nel corso dei secoli, si plasma da sé viene bollata come ‘nichilismo’ dalla Chiesa cattolica e, al contempo, viene dissolta nella biologia dallo scientismo. Ciò avviene a causa di una ragione ben precisa: per più di tre secoli, la società occidentale ha creduto che si potesse umanizzare l’uomo mediante l’educazione, la cultura e la politica. Ma tale tentativo sembra esser giunto ad un clamoroso fallimento. Alla luce di ciò, la questione diviene quella di una rielaborazione di prospettiva per un’esistenza completamente nuova per l’intera umanità. Dunque, le domande da porsi divengono le seguenti: la natura è prevalente sulla Storia dell’uomo? E in che modo la Storia può prevalere sulla natura senza distruggerla? Di fronte a questi interrogativi, forte appare a molti la tentazione di ‘tornare indietro’, di rinunciare alla centralità dell’uomo per affidarsi alla rassicurante stabilità delle leggi naturali ed eterne, anche se tutto ci spinge a rilevare come la complessità della nostra attuale esistenza dovrebbe farci rifuggire da soluzioni facili o dalle consuete ‘scorciatoie’. La querelle intorno alle unioni di fatto non è una questione da sottovalutare, poiché pone interrogativi profondi su chi siamo e su cosa vogliamo essere. L’intransigenza della Chiesa muove da motivazioni estremamente chiare: la posta in gioco è il suo stesso ruolo di orientamento dell’etica pubblica. Se la Chiesa dovesse perdere questa fondamentale partita, essa si vedrebbe ridotta ad una posizione politicamente marginale, come quella della Chiesa anglicana o delle confessioni luterane. Senza un ristabilimento del suo ruolo guida in Italia, le sue possibilità di mantenere una propria centralità, in Europa e nel mondo intero, intorno alle grandi scelte dell’umanità diventerebbero poco consistenti. Essa ritiene, infatti, di poter svolgere un ruolo da protagonista in quanto portatrice di verità irriducibili in un tempo di incertezze profonde. Ed è per questo motivo che ha deciso di far riecheggiare le suggestioni teologiche di San Tommaso, secondo il quale “ogni legge umana deve derivare dalla legge naturale, che è fondamento stesso della ragione”. Insomma, dopo le grandi mete filosofiche indicate dai pensatori laici più noti e più letti – Rousseau, Hegel, Marx, Comte, Mill e lo stesso Nietzsche - le cui idee sono ancora quelle che sostanzialmente circolano, oggi, nelle nostre teste, la forza di penetrazione del pensiero laico si è notevolmente indebolita. Il XX secolo si è solo limitato a mettere in pratica le idee del secolo che lo aveva preceduto. Ma oggi, entrati nel terzo millennio, queste concezioni sembrano appartenere ad un passato ormai lontano. Lo stallo del pensiero laico è determinato dalla mancanza di un grande progetto per l’uomo come invece accadde all’epoca dell’umanesimo, quando seppe proporre che esso divenisse artefice di se stesso, oppure nell’illuminismo, quando espresse un’ideale di libertà e di eguaglianza universale, oppure ancora nel XIX secolo, quando seppe indicare nel superamento dell’alienazione e dello sfruttamento il grande obiettivo dell’intera umanità. Oggi, la laicità è largamente diffusa, ma essa è divenuta un pensiero comune, una sequenza di ovvietà. Mentre fino a pochi decenni fa si poteva parlare di un cristianesimo ‘pigro’ nel senso di una religiosità ritualista e praticata senza molta convinzione, oggi siamo costretti a denunciare una laicità superficiale e conformista, divisa in famiglie e famigliole che si considerano presuntuosamente delle elìtes senza riuscire a produrre nulla di più di uno scontato provincialismo egoistico. Nessuno, nell’attuale area laica o in quel che ne rimane, ritiene di dover rispolverare un vetusto anticlericalismo ideologico. Ma tutti hanno dato per scontato che la Chiesa si fosse rassegnata ad un ruolo di minoranza garantita all’interno di un Paese divenuto essenzialmente laico, che essa si sarebbe limitata a parlare al proprio ‘gregge’ rinunciando alla pretesa di rappresentare l’intera umanità. Ed invece, eccola di nuovo intenta a porre veti a delle leggi dello Stato che essa ritiene incompatibili con la legge naturale, valida, in quanto tale, per tutti gli uomini a prescindere dai loro orientamenti religiosi e morali. Ma è proprio in questo punto che ‘casca l’asino’: nel momento in cui la Chiesa esce dagli ambiti delle sue motivazioni religiose, il dibattito assume un profilo essenzialmente laico, poiché l’esistenza di un diritto naturale rappresenta argomento di fede che non può pretendere di essere accolto da tutti. In sostanza, non si discute del giusto o dell’ingiusto, bensì di cosa sia socialmente opportuno o inopportuno. E’ intorno a tale versante che il pensiero laico deve cominciare a porre interrogativi pratici: l’istituzionalizzazione delle coppie di fatto, introducendo soluzioni diversificate di convivenza, comporterebbe conseguenze disastrose, in termini di coesione sociale? A questo punto del ragionamento, diviene essenziale precisare cosa si intende specificamente allorquando si parla di famiglia tradizionale. Innanzitutto, non si può affermare che il modello di famiglia ‘mononucleare’, ovverosia quello composto da un uomo, una donna e dai loro figli, rappresenti il vero modello ‘tradizionale’ di famiglia. Anzi, è vero l’esatto contrario: se la coppia composta da un uomo e una donna è stata condizione imprescindibile per la riproduzione, essa nel passato non si è mai identificata semplicemente con questa singola funzione. La famiglia cosiddetta ‘tradizionale’ era quella contadina o nomade dei secoli addietro, cioè quella ‘patriarcale’. Essa rappresentava l’orizzonte entro il quale si svolgeva quasi completamente la vita dell’individuo o della coppia decidendo ogni cosa, persino la scelta del futuro coniuge. Essa, peraltro, garantiva identità, assistenza, sicurezza. Ma di certo non rappresenta un modello sociologico da rimpiangere, poiché essa cristallizzava un’organizzazione sociale oppressiva, in cui il potere maschile era totale e che poteva giungere all’omicidio o all’incesto secondo una concezione della giustizia arcaica e crudele. Pertanto, la famiglia mononucleare e uno degli effetti dello sviluppo economico e proviene direttamente dall’industrializzazione e dall’inurbamento, mentre molte altre funzioni della famiglia tradizionale sono state assunte dallo Stato. La dissoluzione delle vecchie gerarchie di sangue ha influito profondamente sull’evoluzione dell’etica sociale collettiva: se una coppia, un tempo, viveva all’interno di una grande famiglia patriarcale, tutti i risvolti del proprio rapporto – anche quelli più intimi – possedevano risvolti pubblici. Quando quel contesto venne finalmente meno, il rapporto di coppia divenne un fatto soggettivo e privato, per il quale assai minori sono divenute le necessità di una formalizzazione ufficiale e pubblica come quella del matrimonio. L’odierna organizzazione sociale favorisce la privatizzazione, la soggettività, la sperimentazione dei rapporti. Ma tali condizioni sono quelle che meno favoriscono la stabilità della famiglia, poiché la società attuale, in realtà è predisposta soprattutto per quei singoli individui che decidono di vivere una socialità ‘fluida’. E ciò vale tanto di più oggi che la precarizzazione del lavoro delle generazioni più giovani non favorisce uno sviluppo armonioso o la stabilizzazione stessa delle relazioni affettive. La famiglia, in quanto istituzione, in verità vive una crisi profondissima: i giovani che convivono con i propri genitori per lungo tempo mostrano di contare su di essa, ma anche di non riuscire a crearne una nuova. La famiglia oggi è chiamata a dare risposte a molti problemi che proprio non riesce a risolvere: precarietà del lavoro, assistenza, salute. E il più delle volte svolge una funzione di ‘camera di decompressione’ in cui vengono a stemperarsi i problemi e le inadeguatezze: vista da lontano, essa appare come un rifugio sicuro, ma osservata da vicino, ci si accorge che rappresenta un microcosmo di infelicità, di conflitti e di tensioni tanto più acute quanto più compresse tra le abitudini e le ipocrisie. La famiglia non è affatto un punto di forza, bensì una somma di debolezze. La sua stessa definizione attuale è ben diversa: essa è un organismo formato da distinti individui con una propria durata temporale. Essa riesce a resistere sino a quando forte rimane la memoria e gli effetti delle azioni di un proprio capostipite, oppure fino a quando vi è un patrimonio da gestire. Ma quelle famiglie che non possono identificarsi con le gesta memorabili dei propri antenati o che non hanno ereditato grossi patrimoni da amministrare tendono ad avere un’identità assai meno marcata nel tempo. Addirittura, possiamo concludere che la famiglia non costituisca nemmeno un beneficio per la coesione sociale, poiché in molti casi essa si rivela egoisticamente svolgendo funzioni antieducative e antisociali: non è affatto una coincidenza che le grandi organizzazioni criminali come la mafia siano organizzate in famiglie. Egoismo familiare e individualismo antisociale coesistono e si potenziano l’un l’altro in quanto forma di stagnazione sociale. Ma una famiglia ‘chiusa contro tutti’ non costituisce un luogo in cui le singole personalità possano effettivamente maturare, poiché la certezza dei suoi rapporti interni diviene ragione di staticità psicologica e culturale. E questi difetti in seguito si riversano negli insiemi ‘amicali’ esterni attraverso un gruppuscolarismo composto di ritualità e di mimetizzazioni che degradano facilmente verso il 'bullismo' o la deresponsabilizzazione individuale. Il singolo individuo diviene effettivamente libero solo allorquando riesce ad assumere l’identità etica del cittadino che può raggiungere la sua maturità e la propria effettiva realizzazione umana. Lo stesso presupposto che vedrebbe la famiglia come ‘pietra angolare’ della società andrebbe rovesciato, poiché una volta compiuto il proprio percorso formativo, è l’etica della responsabilità sociale quella che ispira positivamente le relazioni personali dell’individuo. Dal punto di vista cristiano, la famiglia è una cellula all’interno della quale nasce e si sviluppa l’uomo in quanto persona, l’alternativa alla disperazione individualista. Ma nel Vangelo vi è anche una concezione diversa dell’individuo in quanto singolo soggetto responsabile della propria salvezza. Nel Vangelo di Luca, Cristo lo chiarisce espressamente: “…Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace sulla Terra: io non vengo a portare la pace, ma una spada. Io sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre. I nemici dell’uomo saranno proprio quelli che abitano la sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, ma chi avrà perduto la sua vita per me, la ritroverà. Nell’attesa che venga il giorno in cui i primi saranno gli ultimi. E gli ultimi, i primi…”. Il passo è inequivocabile: il Vangelo intende il rapporto uomo – Dio prevalente e superiore rispetto ad ogni rapporto umano, compresi quelli familiari. E’ la carità il vero sentimento che deve ispirare la società in quanto amore universale verso l’uomo, un sentimento che non è affatto identificabile con il culto della famiglia. Se osserviamo bene le realtà di fatto, in quest’ultima prevale una cristianità conformista, blanda e accomodante in cui, come confermato quotidianamente dalla cronaca, vengono applicati permissivismi sfrenati e antieducativi. Dunque, non è affatto dimostrato che le cosiddette coppie di fatto - che per la Chiesa sono anche quelle sposate solo civilmente, é bene ricordarlo… - l’educazione dei figli possa essere meno accurata di quanto non lo sia nella famiglia ‘regolare’. Non vi sono fondate ragioni sociali per impedire un riconoscimento giuridico di nuovi generi di rapporti affettivi. Anzi, un’eventuale stabilizzazione giuridica e innovative garanzie sociali riconosciute a relazioni diverse da quelle matrimoniali possono rafforzare il senso di appartenenza degli individui alla società, aiutandoli ad uscire dal ghetto psicologico della diversità, specialmente nelle relazioni omosessuali. In ogni caso, la cosiddetta ‘legge di natura’ possiede un fondamento dogmatico e non antropologico, rispettabile, ma vincolante solamente per i credenti. Infine, un’obiezione che mi sento spesso rivolgere da esponenti politici di cultura cattolica: “Il pensiero laico non è un pensiero per tutti”. Ma anche quello della Chiesa non lo è. Il limite della sua proposta risiede nel fatto che essa cerca di ristabilire la propria guida sulla società approfittando della debolezza attuale del pensiero laico e di un diffuso bisogno di rassicurazioni, non nella forza intrinseca del suo messaggio: chi vuole conquistare cuori non deve imporre divieti, bensì indicare mete più alte da raggiungere. Se l’essenza del cristianesimo è il martirio, ovvero, in senso strettamente etimologico, la testimonianza (in greco, la parola martyr significa, letteralmente, testimone), diviene dunque questo il terreno su cui il cristianesimo dovrebbe sfidare il pensiero laico. Gli uomini sono attaccati alla vita e possono viverla anche se per essi è senza valore. Ma una vita senza valore viene fatalmente vissuta male, con rancori, diffidenze e inimicizie verso se stessi e verso gli altri. Ciò che dà realmente valore alla vita è, invece, la speranza, la prospettiva, la convinzione di contribuire a fare qualcosa di importante. Ed è di questo che si sente, in realtà, la mancanza. Quanto al pensiero laico, è pur vero che esso è divenuto 'tronfio' e superficiale: preso dalla potenza della tecnica non sa più rapportarsi alla condizione umana, poiché si è convinto, stupidamente, che pensare per tutti porti irrimediabilmente al totalitarismo e che, dunque, sia meglio che ognuno pensi per sé. Manca dunque il progetto di una società nuova, entro la quale ogni individuo possa valorizzare se stesso, che lo sostenga se ne ha bisogno senza impedirgli di esprimersi. Noi non abbiamo bisogno di certezze: la sola certezza che ci basta è quella di cercare e di sperimentare. Non dobbiamo far altro che continuare la nostra ricerca, poiché il fine a cui aspiriamo non sempre lo conosciamo, bensì si manifesta solo quando siamo in procinto di raggiungerlo. Con pazienza e tenacia.




(articolo tratto dalla rubrica settimanale '7 giorni di cattivi pensieri', pubblicata sul sito web di informazione e cultura www.diario21.net)
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Roberto - Roma - Mail - martedi 30 settembre 2008 17.39
Articolo lungo, complesso, a tratti di assai difficile lettura. Illuminato nella seconda metà, ma piuttosto complesso nella prima. Forse lei, Lussana, era partito da dei presupposti emotivi e solamente lungo la strada è riuscito a trovare una ratio. Tuttavia, metodologicamente è necessario un linguaggio comunicativo più sintetico, che faccia maggior presa sui lettori se vogliamo che la cultura laica faccia veramente un salto di qualità. Non la prenda come una critica di sostanza, la prego, ma anche solo 30 righe in meno, caro Lussana, avrebbero aiutato la lettura di un brano molto più profondo di quanto non appaia. Complimenti a metà.
Riccardo Biffoli - Firenze / Italia - Mail - venerdi 27 giugno 2008 10.47
Vorrei che gli esponenti di un pensiero laico la smettessero di sentirsi in obbligo di far vedere come anche loro conoscano e sappiano gestire i testi evangelici per le proprie controargomentazioni. Testi che, ricordiamolo, sono tali in quanto altri uomini (e, per inciso, mai donne) hanno deciso che siano l'espressione diretta ed immutabile di un verbo divino. Vorrei che questi esponenti si esprimessero per quello in cui credono davvero, e che si ricordassero che il nostro pensiero laico è per sua natura debole, perché a differenza di quello religioso monoteista non poggia sulle emozioni ma sulle scelte da ragionamento. E' un pensiero di diretta discendenza illuminista, sì, dunque intellettuale e frutto di maturazioni interiori solo individuali e raramente collettive. Esistono riti "laici"? Quei pochi sono espressione diretta di cascami ideologici di una sinistra annacquata. Vorrei infine, se proprio non si può fare a meno di avere il P.V. (Partito Vaticano) come vero ago politico italiano (del resto la Chiesa è proprio nell'ombelico centrale dell'Italia) che fossero i politici laici ad entrare in merito alla vita religiosa nei suoi vari aspetti. Ma ci pensate, un sindaco che si permettesse di dare direttive ai parroci del suo comune? Che il capo dello stato si permettesse di dare cosa il Vaticano deve o non deve fare? Eppure è proprio quello che da secoli coloro che si sono votati alla castità (?!) e a non avere famiglia fanno, ingerendo paurosamente su questioni che non dovrebbero nemmeno sapere cosa significano. Ma perché un prete cattolico, che per antonomasia non può essere sposato, deve essere quello che coniuga altri? E pensare che prima dei Patti Lateranensi l'unico matrimonio che lo stato riconosceva era quello in Comune, relegando quello religioso ad un mero atto privato? Incredibile, vero? Erano più laici allora
Vittorio Lussana - Roma - Mail - mercoledi 25 giugno 2008 20.22
E chi mai è depresso???
Krizia - Chiavari - Mail - martedi 24 giugno 2008 12.14
Suvvia, niente depressione , la vita non e' mai senza valore anche se gli obettivi sono diversi


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