Vittorio Lussana

La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti è ormai di portata evidente: all’inizio si è avuto il tracollo dei subprime, ovvero di quei prestiti obbligazionari che vengono concessi a chi non può accedere ai tassi di interesse di mercato per debiti pregressi, poi si è avuta la forte restrizione del credito tra le banche, infine si è verificata la ‘frana’ dei prezzi immobiliari. A quel punto, si è finalmente capita ‘l’antifona’ e sono arrivati gli interventi statali. In Europa, le cose non vanno affatto meglio, in particolar modo in Inghilterra e Germania. Ma siamo solamente all’inizio del ‘tonfo’: ben presto dovremo assistere alla concentrazione e alla nazionalizzazione di molti istituti bancari anche del vecchio continente oltreché, io credo, a più di qualche fallimento. Le misure prese negli Stati Uniti, sino ad ora hanno fatto solamente ‘il solletico’ alla crisi. Si tenga presente che il piano Paulson è un intervento da 700 miliardi di dollari finalizzato ad assorbire quei crediti ‘tossici’ inesigibili degli istituti di credito, al fine di bloccare la discesa dei prezzi e liberare nuovo credito. Ma il terrore continua a dominare su tutti gli istituti bancari americani, che non si fidano più gli uni degli altri. In Italia, al momento si sono ripetuti una serie di appelli alla responsabilità, anche e soprattutto nei confronti della categoria dei giornalisti. Tuttavia, qualcosa bisognerà pur spiegare alla gente comune. Ed è dunque meglio cominciare a comunicare le cose per come stanno veramente. Ebbene: siamo di fronte ad una fortissima crisi di liquidità finanziaria del capitalismo internazionale. Questo significa che non sta fallendo la General Motors o la Ford con relativi esuberi ‘cataclismatici’ di operai e ‘colletti bianchi’ e che, almeno in termini accademici, un sistema capitalistico può comunque sopravvivere anche senza grandi società di intermediazione bancaria - come ad esempio accadde durante la grande fase di espansione produttiva della Germania degli Hohenzollern alla fine del XIX secolo - a patto, però, di possedere livelli di produttività e di export molto elevati. Questa crisi, in effetti, discende da una deriva eccessivamente ‘monetarista’ dell’economia americana, in cui si sono trasferiti debiti e sofferenze bancarie come se il mercato finanziario fosse in grado di riassorbirli nel giro di qualche decennio. Ma la cosa è talmente sfuggita di mano da generare un tracollo devastante, che può coinvolgere molti altri mercati finanziari tra di loro interconnessi. Il salvagente pubblico predisposto dall’amministrazione Bush, tra l’altro, non sembra destinato al salvataggio di ogni tipo di credito ed esclude, che io sappia, tutti quei fondi pensione, speculativi e derivati, ‘spacciati’ dalle banche come titoli di rendimento ‘rischiosi’ in linea di principio, ma da esse stesse garantiti. L’intenzione è invece quella di nazionalizzare titoli e obbligazioni a spese della collettività, senza troppe preoccupazioni verso i piccoli risparmiatori o nei confronti di quelle famiglie americane che avevano contratto un mutuo immobiliare e che, oggi, si vedono espropriati della loro prima casa. E’ stato dunque lo stesso Paulson a ‘spararla grossa’, in tal senso, allorquando ha affermato che: “La protezione fondamentale del contribuente la darà la stabilità del mercato”. (!) In ogni caso, essendo stato più volte modificato, non è del tutto certo che questo ‘benedetto piano’ serva solamente a mettere ‘toppe al sedere’ dei ricchi. La vera domanda, giunti a questo punto dell’analisi, diviene infatti la seguente: ma questi famosi 700 miliardi di dollari sono sufficienti a salvare il sistema finanziario americano? In ordine a ciò, dobbiamo dire chiaramente che, dopo questo intervento, il debito pubblico degli Stati Uniti è destinato a raggiungere una cifra stratosferica. La qual cosa, a sua volta, genererà l’ovvia esigenza di ripianarlo con nuove tasse, oppure appesantendo il debito estero. Il che significa mettere la parole ‘fine’ allo ‘status’ del dollaro in quanto moneta di ‘riserva’ mondiale. Inoltre, si è messa in moto una dinamica che sta conducendo tutti gli istituti finanziari a vendere, per abbattere l’indebitamento e nel tentativo di ridurre il rapporto complessivo tra titoli e ‘assets’ reali. Ma ciò tende a spingere ancora più in basso il valore dei titoli, in una spirale difficilmente arrestabile. Detto in poche parole, il rischio vero è precisamente quello opposto rispetto a quanto si va dichiarando in questi giorni: quello di una sostanziale sottovalutazione della situazione considerando la crisi in atto di natura esclusivamente finanziaria, senza cioè voler calcolare tutte le conseguenze strutturali che dipenderanno da un circuito capitalistico in cui molte società hanno preferito giocare in borsa ed acquistare titoli ad alto rischio, anziché effettuare investimenti di riorganizzazione industriale e produttiva. Non si tratta solamente di una questione di ‘iniezioni’ di liquidità da immettere nel circuito finanziario per arrestare la spirale al ribasso dei prezzi, ricreare fiducia e poi rivendere i titoli acquistati in un mercato stabilizzato. Il vero problema è divenuto, invece, quello dell’insolvenza di un sistema bancario figlio di una ‘deregulation’ e di speculazioni sottovalutate per interi decenni, cifre superiori all’intero prodotto lordo mondiale. Ed è clamoroso che queste cose debba venire a spiegarle il sottoscritto, con tutti gli esperti ‘paludati’ che ci sono in circolazione! Quando il debito lordo di uno Stato è divenuto enorme e le condizioni economiche sono divenute difficili, la semplice logica economica vuole una sequenza di ‘bancarotte’ quasi per ‘reazione a catena’. Questo fenomeno si chiama ‘deflazione da debito’ o ‘crisi deflattiva’: si tratta di una condizione che si affronta ricapitalizzando il sistema, ovvero cercando di reimmettere capitali freschi nel circuito, al fine di trarne nuovi profitti. Ma ricapitalizzare significa mettersi a raccogliere quote enormi di danaro, vuol dire operare trasferimenti colossali di ricchezza che il Fondo monetario internazionale e Wall Street hanno imposto, negli ultimi tre decenni, a tutto il mondo e che assai difficilmente, ora, possono riproporre al fine di ricreare nuove condizioni di ripresa della domanda globale. Ma è mai possibile che il mercato non sia in grado di rimettere in equilibrio, seppur lentamente, tutto il sistema? Tale quesito corrisponde a chiedersi se un eroinomane sia capace di disintossicarsi da solo. Dato però che, per milioni di ‘rimbambiti’ in Italia, in Europa e nel mondo, il mercato ha sempre rappresentato la ‘panacea’ di tutti i mali, perché dunque non metterlo alla ‘prova’, una buona volta? Naturalmente, questa è l’ipotesi che possiamo considerare impraticabile: si farà finta di nulla, nell’illusione di poter ancora guardare dall’alto in basso chi non sempre è disposto ad acquistare prodotti ‘griffati’ che costano, senza motivazione alcuna, un’iradiddio o di continuare a colpevolizzare potenze economiche emergenti come l’India o la Cina, le quali, già da tempo, si presentano per proprio conto sui mercati internazionali in quanto non più disposte a vendere le proprie merci ad imprese che si limitavano a porre il proprio marchio di fabbrica sul prodotto finito. Insomma, se si va a sinistra ci si dovrà preparare ad un vero e proprio ‘salto mortale’, se si va a destra il massacro è più che sicuro: ci vuol tanto a spiegarlo all’opinione pubblica? Al contrario, l’impressione che si trae dal dibattito in corso – ne ho seguito uno a ‘Porta a Porta’ che era da interdizione immediata di tutti i partecipanti… - è che proprio non si voglia comprendere la profondità di una crisi che è poi quella di un intero modello di crescita ‘drogata’ dal debito, come se, passata ‘a nuttata’, tutto potesse riprendere tranquillamente nel giro di pochi mesi. Adesso che è veramente giunto il momento di essere pessimisti, tutti si mettono a ‘pontificare’, a ‘pensare positivo’, a dispensare ottimismo, al fine di nascondere la propria paura ed evitare di guardare il baratro fino in fondo. La verità è che la crisi in corso è ANCHE STRUTTURALE, non soltanto perché ha colpito il centro del sistema finanziario, ma perché è destinata ad investire l’intero ciclo di riproduzione del valore degli ultimi trent’anni, in cui chi possedeva il capitale lo faceva fruttare speculando in borsa, anziché investire in innovazioni che potevano rivelarsi favorevoli per la crescita di intere collettività. Chi ha i soldi, se li tiene e li fa fruttare: questa è stata ‘la morale’ del capitalismo degli ultimi venti anni, un principio che ha finito col generare un divario sempre più netto tra ricchi e poveri sia all’interno dei singoli Stati, sia nel resto del mondo intero, proletarizzando ogni genere di ceto medio produttivo, nonché mortificando tutte le professioni umanistiche e quelle libere. In questo, siamo veramente alla fine di un’era: la fuoriuscita dalla crisi economica degli anni ’70 del XX secolo e la risposta capitalistica al formidabile ciclo di lotte del movimento operaio, negli anni ’80 si erano concretizzate in una ristrutturazione complessiva del mercato mondiale, ovvero come un nuovo equilibrio di sistema. Ma quell’equilibrio si reggeva sugli Stati Uniti. E oggi? Come la mettiamo? Intorno a ciò, il mio responso è uno solo: si sta avvicinando l’ora dell’avvento dell’Unione europea in quanto nuova potenza economicamente egemone del pianeta e come principale riferimento di equilibrio di tutto il sistema di produzione capitalistica. Sempreché la Ue si decida, finalmente, a dotarsi di strumenti decisionali in grado di proporla come autentico arbitro imparziale dell’economia planetaria.


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