Giuseppe LorinLa scuola italiana di oggi istruisce a malapena i nostri giovani e non li educa. Ma cosa s’intende con la parola educazione? Non si è sempre detto che il vero ‘segreto’ per comunicare contenuti ai nostri allievi sia quello di coinvolgerli senza ricorrere a pedagogismi esasperati? Sì, certo: ci dev’essere una comunicazione ‘passionale’, ovviamente ben dosata, da parte dei nostri insegnanti. Ma in termini di indirizzo, la scuola italiana deve ampliare i propri ‘metri di giudizio’. Sino a oggi, infatti, nelle scuole italiane si è sempre e solo valutata l’intelligenza dei ragazzi unicamente sul metro ‘logico-matematico’. Un ‘metro unico’, praticamente, che ha generato intere schiere di qualunquisti che ragionano speculativamente, prendendo solamente ciò che piace o che conviene di una materia qualsiasi. Oppure, solo ciò che li colpisce o li suggestiona. Soprattutto nelle materie umanistiche, si finisce con l’ottenere una formazione ‘segmentata’: ci si ricorda di Giulio Cesare, forse di Ottaviano Augusto, Marcantonio e Cleopatra. Dopodiché, si finisce in un sol colpo a Costantino e alla solita leggenda dell’apparizione della croce cristiana – che in realtà fu la scia di un meteorite divisosi in tre parti - nei cielo notturno di Saxa Rubra, dove il futuro imperatore risultava accampato la sera precedente lo scontro di Ponte Milvio contro Massenzio. Persino le vicende di Gesù Cristo in Palestina vengono saltate a piè pari, quasi delegando al catechismo di definirne il contesto storico. Insomma, la questione di colmare le varie lacune viene, in larga parte, affidata all’alunno medesimo. Il quale, se avrà voglia di approfondire, bene; altrimenti, pazienza. Il metro logico-matematico non è da eliminare totalmente: non stiamo teorizzando una rivoluzione pedagogica. Stiamo semplicemente affermando che esso non è il solo e unico metodo di insegnamento. E’ invece necessario cominciare a distinguere le intelligenze degli alunni, che non sono tutte uguali, omologate e standardizzate. Esistono anche le intelligenze artistiche, quelle psicologiche, quelle fisiche e, persino, quelle musicali. Il grande Wolfang Amadeus Mozart cominciò a battere sui tasti di un clavicembalo ancor prima di imparare a leggere. A soli 4 anni compose i suoi primi ‘andanti allegri’ e ‘minuetti natalizi’. E a sei anni venne chiamato a esibirsi ufficialmente in concerto innanzi alla corte di un principe bavarese. Egli era dotato di un’intelligenza musicale, basata su una capacità mnemonica eccezionale nel riconoscere i suoni e su quello che, ancora oggi, viene definito: “Orecchio assoluto”. Stiamo parlando, certamente, di un caso molto particolare: “Un miracolo che Dio ha fatto nascere a Salisburgo”, diceva sempre il padre, Leopold Mozart, ad amici e conoscenti. In ogni caso, l’indole del giovanissimo Mozart si segnalò subito come fattore peculiare, non omologabile all’interno di una logica omnicomprensiva, militare, religiosa o ideologica. Esistono, inoltre, anche le intelligenze fisiche: un ragazzo dotato di intuito calcistico in grado di fargli calcolare, in una frazione di secondo, la perfetta corrispondenza tra distanza e potenza di un ‘tiro’, appartiene a questo tipo di ‘talenti’ fisici. Nei licei americani, il basket mantiene un proprio spazio ben preciso all’interno dell’orario scolastico, svolgendo un ruolo di emancipazione e di educazione valoriale non di poco conto. Infine, esistono anche altri tipi di intelligenze, che tendono a mescolarne più d’una tra loro. Come storicamente accaduto nei casi di Carla Fracci o Rudolf Nurejev, che seppero portare a sintesi la loro agilità fisica e, al contempo, artistica. Si dovrebbe, insomma, individuare un serie di 'doti naturali', per dirigere solamente in seguito gli alunni verso la conoscenza logico-scientifica, ribaltando l’ottica d’insegnamento, anziché imporla dall’alto, come se esistesse una gerarchia fissa tra le distinte materie. Se non si è in grado di riconoscere le reali caratteristiche dei singoli allievi, è chiaro che molti di loro faranno fatica nei loro studi. Bene: detto tutto questo, l’idea di merito che da più parti si sta criticando in questi giorni, a causa della nuova denominazione stabilita per il dicastero di viale Trastevere, non dev’essere una forma di selezione ‘elitaria’ degli studenti, né una riedizione del classismo imperante negli anni ’50 del secolo scorso, bensì un vero e proprio ‘ribaltamento’ del metodo educativo, tendente a eliminare la barriera divisoria tra docente e discente, tra allievo e maestro, per individuare una nuova forma educativa in grado di trasformarsi in responsabilizzazione individuale, ridando valore a termini come sacrificio, applicazione, costanza di apprendimento, nutrimento culturale derivante da interesse e passione. Detto in termini ‘gentiliani’: per innescare un processo di autoeducazione in grado di appassionare gli alunni a ciò che percepiscono come scelta interiore, istinto che si evolve in sentimento, capacità di discernere quel che è giusto da ciò che non lo è. Non si tratta di forme valoriali da imporre secondo schematismi o regole ferree, come nel caso della pedagogia marxista dell’Unione Sovietica, né di anarchie libertarie difficilmente gestibili. Al contrario, si sta parlando di ‘merito’ basato sulla capacità individuale di darsi un metodo, liberando i nostri giovani dal torpore indifferente e ‘cafone’ della ‘società liquida’. I nostri ragazzi sono indifferenti perché, avendo tutto, non desiderano più nulla e non soffrono di mancanze. La nostra ignoranza dei tempi attuali è cioè quella di averli immersi in una sorta di presente assoluto che genera incertezza nei confronti del futuro, divenuto imprevedibile, incerto, psicologicamente inquietante. Insomma, l’autoeducazione non corrisponde a una pedagogia inesistente o eccessivamente libertaria. Al contrario, essa deve condurre il singolo allievo a uscire dallo stadio della pulsione, per trasportarlo nel territorio dei sentimenti. Sottostimare gli aspetti psicologici dell’insegnamento significa condannare i nostri figli a competere con gli altri compagni di classe nel bullismo, nello stupire a tutti i costi, verso comportamenti forzati e sleali, che escludono l’Altro quando esso è più debole o bisognoso di aiuto. Dobbiamo uscire da un’educazione pulsionale la quale prevede, tra l’altro, sistemi sanzionatori o di punizione a dir poco odiosi, al fine di dirigere i nostri figli verso la maturazione emotiva, insegnando loro a elaborare i propri sentimenti, educandoli a percepirli: siamo distanti intere galassie dal semplicismo ‘mussoliniano’ del “libro e moschetto”. I nostri ragazzi debbono sviluppare una risonanza emotiva dei propri comportamenti, al fine di autoeducarsi. Un bel giorno, i concetti di bene e male, di giusto o sbagliato, potremmo persino smettere di definirli in quanto pensieri che si possono “sentire naturalmente da sé”, per dirla con Immanuel Kant. Dobbiamo trasportare i ‘bulli’ dalla pulsione all’emozione, per fare in modo che essi imparino a percepire da soli quale sia il comportamento corretto, distinguendolo rispetto a quelli scorretti. Questo significa insegnare il merito con merito: un “pensiero che pensa se stesso”. Soprattutto, nelle scuole primarie e secondarie.





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Giuseppe Lorin - Roma - Mail - martedi 22 novembre 2022 13.41
RISPOSTA AL SIGNOR DELFIOL: abbiamo scritto in premessa che questa riflessione si basa su una serie di indicazioni di indirizzo. Il ministro ha infatti questi poteri: senza indirizzo politico non può esserci applicazione concreta, che spetta ai provveditorati e al corpo docente. La semplice concretezza, benché auspicabile come risultato finale, non può limitarsi a provvedimenti estemporanei: meglio rielaborare una linea di indirizzo pedagogico, al fine di dare uniformità strategica alle innovazioni, che debbono essere precedute da un dibattito dignitoso nel merito dei provvedimenti e delle misure. Grazie per il seppur breve commento.
Renato Delfiol - Renato Delfiol - Mail - lunedi 21 novembre 2022 19.27
Belle proposte, ma di concreto?


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