Valentina Cirilli"I'm here to repair". Sono queste le parole di un giovane seduto immobile per un tempo indefinito di fronte a un enorme prigione, in risposta alla domanda di un passante che gli chiede cos'abbia fatto di così grave da meritarsi una pena tanto aspra. Quel giovane si chiama Mavuso e il passante può dirsi l'alter ego del maestro dell'arte teatrale di tutti i tempi, Peter Brook, che fa del racconto di una delle vicende accadute durante il suo viaggio a Kandahar la parabola del complesso rapporto tra colpa, punizione e redenzione umana: il perno di un'indagine intorno a un sistema morale che accompagna il nostro pensiero filosofico sin dai tempi biblici. Un tema intorno al quale, in questi giorni, si sta riflettendo molto per via dei referendum proposti dalla Lega di Matteo Salvini e dai Radicali italiani. Se è vero, come spesso capita di pensare, che molto sia già stato detto e già stato scritto in merito a questo tema, ciò che non smetterà mai di affascinare sono i modi infiniti con i quali l'arte e i suoi artigiani continuano a scolpire le verità più complesse servendosi, talvolta, dei mezzi più semplici. In questo, si sa, Peter Brook e la sua fedele collaboratrice, Marie-Hélène Estienne, rappresentano un modello indiscusso. E 'The Prisoner', il loro lavoro in tema di giustizia portato in scena di recente al Teatro Vittoria in Roma, può dirsi un racconto appassionato e affettuoso di una fiaba senza tempo intorno a una materia tanto difficile. Mavuso è colpevole di un crimine 'indicibile': spinto fin dalla più tenera età da pulsioni sessuali nei confronti della sorella Nadia, egli viene allontanato appositamente dalla propria casa, da quel padre che sarebbe poi divenuto autore di un rapporto incestuoso con sua figlia, la stessa Nadia. Al suo ritorno, Mavuso sorprende i due durante uno scambio amoroso. Da qui, l'impeto di una gelosia incontrollabile, che lo spinge a uccidere il proprio padre, avviando se stesso al lungo percorso di espiazione deciso dallo zio Ezechiele. Sulla superficie di un paesaggio desolato, ma non ben definito, Mavuso dovrà riparare al crimine commesso fissando davanti a sè una grande prigione e tutto ciò che al suo interno avviene. Ovvero, ciò che il regista non trasporta materialmente sulla scena di David Violi - unicamente disseminata da alcuni arbusti e pochi sassi - ma che, per effetto del potere evocativo della parola, disegna perfettamente nella mente di chi lo guarda. Ancora una volta, il minimalismo espressivo tipico del maestro si fa attivatore della facoltà immaginativa dello spettatore, il quale, nell'atto di riempire i buchi di quel suo ricercato 'spazio vuoto', porta a pieno compimento l'autentica essenza di un teatro partecipato: una partecipazione che consiste nel "diventare complici dell'azione e nell'accettare che una bottiglia diventi la torre di Pisa, o un razzo in viaggio verso la luna", come scrive in una delle pagine del libro 'La porta aperta'. Il lento passare dei giorni, scandito dalla 'naiveté' di un sistema di alternanza di luci e ombre ben disegnate da Philippe Vialatte, porta Mavuso a raffrontarsi con i demoni del suo passato, con il dolore per l'atto commesso e la rabbia nei confronti della violenza dell'abbandono inflittagli dal padre. A nulla servono i tentativi della sorella Nadia, che scopertasi incinta di suo fratello, cerca invano di dissuaderlo per condurlo a sè. A poco a poco, la tentazione perenne di fuggire da quel luogo desolato, i cui unici contatti sono l'arrivo di un topo che da compagno diverrà suo pasto e le visite del boia del villaggio, scompare per lasciare spazio al calare di uno sguardo fisso e ossessivo sulla propria miserabile condizione di colpevolezza. Qual è il senso che accompagna la punizione di Mavuso? E in che modo può assicurargli il cammino verso la vera redenzione? "La prigione avrebbe continuato a nutrire la tua natura furibonda", gli dice Ezechiele, mentre "il peso del crimine commesso dovrai portarlo dentro di te in ogni momento della tua vita, quando mangi, quando dormi e in tutte le cose che farai". Niente cella e niente sbarre, dunque: solo la tentazione perenne di fuggire. In 'The Prisoner' c'è tutta l'urgenza di voler riflettere sul mancato funzionamento dei meccanismi repressivi messi in atto da quella che già Michel Foucault, nel suo corso al College de France, definiva: "La società punitiva". Quella prigione a cielo aperto dove "mediante una punizione che avviene sempre più attraverso la pratica dell'imprigionamento, si disciplinano gli individui e li si normalizza in determinati schemi", senza che sia data loro una vera possibilità di salvezza o di conquista della propria responsabilità individuale. Proprio nel discorso 'normalizzatore' che fa del criminale, sempre e comunque, un nemico della società in quanto persona non produttiva, si annida, secondo Foucault, il pieno esercizio del potere e il conseguente sistema di giustizia. L'imprigionamento di Mavuso non è nello spazio fisico di una cella, ma in un'esperienza catartica, che dà l'avvio a una ricerca ostinata della propria identità e coscienza esistenziale, fino alla piena consapevolezza del proprio operato. Nessuno ci dice se tutto ciò sarà sufficiente a garantirgli la piena redenzione. Ma qualcosa nel suo sguardo è cambiato, poiché la luce di un nuovo giorno lo illumina già.





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