Arianna De SimoneLetizia Tassi, in arte Titta, è un'attrice e cantante fiorentina di adozione romana, classe 1986. Ha conseguito una laurea in Studi interculturali - Teoria e Pratica della traduzione. Ha vissuto per un periodo in Australia e, mentre lavorava, ha preso parte a un Master di formazione in ‘Art Theatre Counseling’ presso l’Istituto Teatrale Europeo di Roma. Dopo aver lavorato per quasi dieci anni in un ufficio, coltivando l’arte come la sua più grande passione, Titta ha deciso di lasciare quel lavoro stabile e sicuro che le aveva permesso di studiare e formarsi fino a quel momento e ha fatto - e superato - il provino per l’Accademia Ctc di Claudio Insegno e Simone Gallo di Roma, dove si è appena diplomata come attrice. Recentemente, ha avuto l’onore di interpretare il ruolo di Eusebia in ‘Rugantino’, diretta dal Maestro Marco Simeoli. In tutto questo tempo, Titta non ha mai abbandonato il canto. Dopo aver sperimentato vari insegnanti e metodi ha trovato, nel 2018, la persona con la quale ha scelto di lavorare in modo assiduo e costante: un’assiduità che neanche il Covid ha fermato.  Oltre alla sua carriera come attrice e cantante, Titta ha una passione per la scrittura, che l’ha condotta a esplorare generi diversi: dallo scrivere come ghostwriter per imprenditori di successo, ai testi delle canzoni. Titta ha sempre scritto testi di canzoni fin da molto giovane, perché sognava di riconoscersi nella musica che ascoltava. Ecco perché ha iniziato a scrivere. Il primo suo testo è stato musicato dall’amico e collega Dario Bruschi, grazie al quale poi Titta si è convinta a lanciarsi in sfide più grandi, decidendo di iscriversi al Tour Music Fest: una delle manifestazioni più importanti a livello italiano ed europeo. E a dicembre 2018 ha vinto il Tour Music Fest nella categoria ‘Autori’, premiata nientemeno che dal Maestro Mogol in persona. ‘Ostaggi’, prodotto da Mad Records, è il suo primo singolo uscito il 25 giugno scorso. Abbiamo dunque deciso di contattare Titta, per parlare insieme a lei di questo suo amore per la parola scritta.

Gentilissima Titta, innanzitutto vorremmo partire da questa sua passione per le parole: lei è convinta che con esse si possa cambiare il mondo?
“Bella domanda. Sicuramente, penso che le parole abbiano un peso, soprattutto se non si è abbastanza attenti a guardare il significato che c’è nascosto dietro. Mi spiego meglio: per anni sono stata ‘bullizzata’ per un corpo che era leggermente sovrappeso. E le parole che mi dicevano erano, per me, come delle armi, perché in quel momento non avevo strumenti per capire cosa c’era dietro davvero. Se mi dicevano ‘cicciona’, io semplicemente, non piacendomi, non facevo altro che credergli e rafforzare la mia opinione negativa di me stessa. Mi capita ancora oggi di essere ‘bullizzata’. Oggi, il mio corpo non è più ‘cicciottello’, ma obeso e, per esempio, l’altra sera, tornando a casa, un passante mi ha urlato dalla macchina: ‘botte di merda’. Se non avessi investito tempo, soldi ed energie in corsi di crescita personale, probabilmente avrei sofferto. Ma ora so che le parole hanno un potere fino a quando glielo lasci avere. Credo che, a volte, le persone esprimono i loro bisogni con le parole in modo del tutto disfunzionale. E credo anche che offendere qualcuno sia un sintomo non di cattiveria, ma di vera e propria fragilità personale. Probabilmente, la persona che mi ha urlato quella frase sta facendo i conti con le sue emozioni. E sono abbastanza sicura che non si piaccia, fisicamente o moralmente. Con questo, non voglio dire che le parole non abbiano importanza, ma che è più importante avere delle sane convinzioni su se stessi così da poter ‘leggere i sottotitoli’ in quello che le persone dicono. Perché a volte, le persone dicono le cose ‘male’ o si utilizzano brutte parole, ma se guardi ‘dietro’ c’è tantissimo amore. Altre volte, magari, non si sentono ascoltati e ti urlano addosso. Secondo me, il trucco è non prendere mai nulla sul personale. Cosa alquanto impegnativa, perché quando ci riesco, mi rendo conto di sentirmi veramente forte e padrona di me stessa. Ci riesco sempre? No. Mi alleno ogni giorno? Sì. Le parole sono ancoraggi a emozioni e stati d’animo, che hanno un grande impatto emotivo su di noi. Non sono le parole che possono cambiare il mondo, ma il significato che scegliamo di dargli”.

Lei non crede che, certe volte, il ‘parolone’ serva più che altro a dividere, a ghettizzare, in fondo a discriminare ipocritamente?
“Non so cosa intendete per ‘parolone’, ma sì: a volte, le parole rischiano di dividere e ghettizzare, ma non ipocritamente. Credo, piuttosto, che le persone abbiano bisogno di riconoscersi in qualcuno, o in qualcosa. E le parole, in questo, sono potentissime. Io, per esempio, ho una mentore e, sicuramente, l’ho scelta per le parole che dice. Ovviamente, non solo per quello, ma l’ho scelta perché lei è estremamente coerente con quello che dice. Questo mi piace: quando le parole coincidono con i fatti. Credo, insomma, che le parole possano rischiare di dividere e ghettizzare, ma possano anche unire le persone, perché alla fine siamo tutti diversi, ma siamo, tra noi, molto più simili di quello che crediamo”.

I testi delle sue canzoni: quali difficoltà incontra, generalmente, tra esigenze metriche ed estetiche? Non si corre il rischio di comunicare messaggi ‘segmentati’ o parziali?
“Sicuramente, si corre il rischio di comunicare messaggi in modo parziale, ma è sempre meglio comunicare qualcosa in parte, che non comunicarla affatto. Il testo di una canzone è un estratto di quello che si vuol dire. La metrica e le esigenze estetiche sono solo strumenti per rendere il messaggio più ‘bello’, più ‘appetibile’: sono come un vestito, mentre una persona è una persona anche se è nuda o in pigiama. Certo, se si mette un vestito da sera o si acconcia i capelli è più bella, ma resta una persona. Questo vale anche per il messaggio che inserisco dentro una canzone. Spesso ho difficoltà, perché vorrei scrivere di più o vorrei scrivere meglio. Poi, però, scelgo di concentrarmi su un messaggio in particolare e cerco di darlo meglio che posso”.

Ma non erano meglio i testi delle canzoni degli anni ’60, pur nella loro ingenuità?
“Amo molto le canzoni degli anni ’60 e, più che ingenue, le definirei ‘leggere’. Forse, erano meglio, forse erano semplicemente diverse. Ogni genere musicale rispecchia la società in cui nasce. E credo che paragonare la musica degli anni ’60 a quella di oggi sia un po’ come paragonare un treno a vapore con un treno alta velocità: forse, il treno a vapore inquinava meno, ma quello alta velocità ha dimezzato i tempi. Non c’è un meglio o un peggio. E se proprio devo scegliere qualcuno che è meglio della musica di oggi, mi sposterei in avanti di un decennio. E direi: erano meglio i Queen”.

La poetica di uno scritto dev’essere per forza metaforica o evocativa? E a cosa servono le parole, se non sviluppano anche delle indicazioni per aggirare alcuni problemi della vita?
“Assolutamente no. Non credo nel ‘per forza’: credo che ognuno scriva quello che sente. C’è chi scrive testi meno evocativi. Io, forse, grazie anche alla mia grande passione per la lettura e per la poesia, ho un linguaggio più astratto e metaforico. È anche un tipo di linguaggio che mi rappresenta. Penso che il modo di parlare rispecchi molto come ci sentiamo e come siamo. Diciamo che io non mi sento una persona ‘semplice’. E infatti, utilizzo un linguaggio complesso, sicuramente profondo, ma anche pesante a volte. Chissà… Mi piacerebbe scrivere qualcosa di più leggero un giorno, visto che sto lavorando molto su me stessa. Le parole, per me, servono non tanto ad aggirare i problemi della vita, quanto (almeno nella scrittura) a viaggiare con la fantasia o a tirare fuori qualcosa che ho dentro e che non riuscivo a far emergere altrimenti. E una volta messi nero su bianco, servono a sentirmi meglio. Non solo: le parole che fanno stare meglio me, magari possono anche essere utili a qualcuno e farlo sentire meno solo. E magari, fargli scegliere di migliorarsi”.

La manipolazione ‘migliorativa’ alimenta, molto spesso, la tendenza a ‘depistare’ la vera sostanza di una questione, come sta capitando in questi giorni nel dibattito sul ddl Zan: non crede sia meglio, certe volte, volare ‘basso’, pur con tutti i rischi di semplificazione concettuale che si corrono?
“Non consiglierei mai a nessuno di ‘volare basso’: neanche al mio peggior nemico. Penso che sia un po’ come la storia del bambino che raccoglieva le stelle marine sulla spiaggia e le ributtava in mare. Un adulto, passando di lì, gli chiese: ‘Ma non ti stanchi? Tanto è inutile, non le salverai mai tutte’. E il bambino gli rispose che se anche se ne fosse salvata una sola, lui avrebbe fatto la differenza. Ogni piccola azione è un gradino che, alla lunga, formerà una scala. Anche per quanto riguarda il ddl Zan, credo che la cosa più importante sia la tutela del pluralismo e delle diversità culturali: una persona può aggrapparsi alle ‘virgole’ e usarlo per criticare e basta, oppure prenderlo come un piccolo ‘gradino’ aggiunto alla scala dei diritti umani e della libertà personale”.

Il ‘mutualismo’, ovvero prendere in prestito un titolo o una frase, è una tecnica più o meno concessa, ma non tutti conoscono le altre tecniche ‘mutualiste’ che, invece, creano o rinnovano le ‘antitesi’, rendendo una ‘visione’ maggiormente dinamica: perché si comprende solo l’utilizzo utilitaristico di un termine, ma non quello metodologico, che invece suggerisce un modo per anticipare risposte, oppure per condizionare la direzione di marcia di un fenomeno?
“Mi piace questa definizione di ‘mutualismo’. Io sapevo che era la relazione tra diverse specie che non sono capaci di vivere isolate e che traggono reciprocamente vantaggio dalla convivenza. Sicuramente, quella che avete utilizzato voi è un’accezione del termine che non conoscevo. Io credo che, a volte, si comprenda solo l’utilizzo utilitaristico delle parole perché ci conviene, perché spesso è più facile aggrapparsi a un significato egoisticamente conveniente anziché comprendere che quello metodologico potrebbe darci una soluzione e ci ‘obbligherebbe’ ad agire e a uscire dalla nostra ‘zona comoda’. Alla fine, le parole non sono altro che il modo in cui noi esprimiamo i nostri punti di vista”.

Insomma, lei adesso è al debutto con il suo nuovo singolo, intitolato ‘Ostaggi’: di cosa siamo prigionieri, oggi, secondo lei? Da cosa dovremmo liberarci?
“Non dobbiamo liberarci da niente, secondo me. E, comunque, sarebbe bello liberarsi dalle dipendenze. In ‘Ostaggi’, io descrivo la mia dipendenza dal cibo per gestire le emozioni, ma penso di non essere la prima, né l’ultima, a dipendere da qualcosa. C’è chi dipende dal fumo, dalla droga, dal cellulare, dalle persone, da relazioni tossiche, dallo sport, dall’alcol: siamo in molti, oggi, a vivere così. Io dico che sarebbe bello, per me, liberarmi dalla mia dipendenza, perché quando riesco a gestirmi mi sento davvero padrona di me e sento di vivere nel presente. La mia dipendenza, invece, mi porta spesso a fuggire dal ‘qui e ora’, rendendomi schiava delle mie paure. Ogni volta che riesco a vivermi un’emozione o un’esperienza forte senza ricorrere al cibo per attenuare le mie sensazioni, sento sul momento che è una sfida per me, una sfida impegnativa. Ma appena quel ‘picco emotivo’ passa e non ho mangiato, mi sento padrona di me e mi sento libera. Le dipendenze sono tutte simili, in questo senso: ti danno la percezione di essere meno vulnerabile, quindi più forte, ma in realtà ti tolgono potere personale e libertà. Credo che, spesso, ho vissuto troppo aggrappata agli errori del mio passato o troppo preoccupata per il mio futuro. E questo mi ha reso una persona spesso emotivamente instabile. Eppure sto imparando, ogni giorno di più, a volermi bene nel ‘qui e ora’ e a occuparmi del mio presente, cercando di non farmi troppi problemi. In conclusione, credo che quando riuscirò a liberarmi dalla mia dipendenza potrò finalmente dire di amare me stessa così come sono, smettendo di ‘infelicitarmi’ la vita perché non sono perfetta come volevo essere".





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