Giuseppe LorinIn questi strani tempi di pandemia, più volte ci siamo sentiti come il cavaliere de ‘Il settimo sigillo’: posti di fronte all’angoscia della morte. O costretti a giocare contro di lei una partita a scacchi molto difficile, a tratti disperata, con numerosi ‘momenti-soglia’ anche privati, intimi, personali. Una sfida che si è presentata esattamente nello stile ‘filmico’ di Ernst Ingmar Bergman, non a caso considerato dalla critica il più prestigioso regista mondiale degli anni ’50 del secolo scorso, anche se aveva esordito con il suo primo film, ‘Crisi’, nel 1945. Una pellicola, quest’ultima, che già allora seppe rappresentare un 'quadro' perfetto della gioventù disorientata dalla guerra, la quale reagiva con disordinata violenza ai problemi della vita quotidiana. Sceneggiatore, drammaturgo, scrittore e produttore cinematografico, Bergman si è distinto per la sua capacita di rendere libera l’espressione dei sentimenti delle varie personalità del genere umano, con tutte le contraddizioni che lo identificano. Critico e scrittore, oltre che regista, è stato un osservatore preciso dell’umanità che lo circondava. La crisi dei sentimenti e l’incomunicabilità diventano gli effetti delle contraddizioni della società industriale avanzata, dando però un respiro più ampio alle varie situazioni, definendo con maggior consapevolezza politica i termini delle crisi individuali, anche se la sua vocazione per i temi sociali non si esaurisce nell’esaminare i rapporti tra la lotta di classe e la crisi della coppia, ma comprende una serie di questioni che, oltrepassando i limiti delle contraddizioni sociali, diventano comuni con le altre società industrialmente sviluppate. E infatti, le migliori opere prodotte dalla Svenska Film, specialmente quelli di Gustaf Molander, portavano la firma, per la sceneggiatura, di Ingmar Bergman, come per esempio ‘Swedenhielms’. Innanzitutto, Bergman ha sempre avuto il coraggio di raccontare molte volte la sua infanzia: il padre, pastore protestante; i primi dilemmi religiosi; le suggestioni che operavano in lui gli affreschi sulle pareti delle chiese campestri. A questi si ispirò per l’ideazione del suo film più conosciuto, ‘Il settimo sigillo’, non tanto e non solo figurativamente, quanto per la particolare fantasia nella costruzione del film stesso. C’è da ricordare che a quella iconografia, popolare e suggestiva, decorativa e bizzarra, si era ispirato più direttamente un altro regista, che fu tra i maestri di Bergman e di cui l’artista scandinavo fu, a volte, sceneggiatore: Alf Sjöberg, per il suo ‘Strada di ferro’ del 1942, con Rune Lindström, Eivor Landström, Anders Henrikson e Holger Löwenadler. Quel film era tratto da un testo teatrale che ricordava una sacra rappresentazione a tratti un po’ profana. E ‘Il settimo sigillo’ lontanamente s’ispirava a quel film, così come il ‘Dies Irae’ di Dreyer. Insomma, ‘Il settimo sigillo’ ebbe un successo strabiliante tra gli intellettuali e la società borghese italiana del dopoguerra. Così come lo ebbero ‘Il posto delle fragole’, molto apprezzato al Festival di Berlino del 1958 e ‘Sorrisi di una notte d’estate’. A dimostrazione che Bergman e Sjöberg erano i ‘grandi’ del rinnovato cinema svedese. Furono questi film quelli che ci presentarono una Svezia protestante e socialdemocratica, riformata e riformista. E la sua cultura ci sembrò libertaria, libertina, invidiabile e, finalmente, avvicinabile. Proprio per tali motivi, Ingmar Bergman è tutt’oggi considerato una delle personalità più eminenti della storia della cinematografia mondiale, poiché fu un ‘mediatore ideale’: egli seppe mediare anche tra gli aspetti più estremi della tradizione svedese e le esigenze della comunicazione cinematografica, riuscendo ad avvicinarsi al suo nord senza tradire e senza svendere la propria tradizione, ma semplicemente vivificandola, spettacolarizzandola, con suprema disinvoltura e calorosa vitalità. Bergman fu un ‘artista totale’, uno dei migliori registi sul lato tecnico/visivo e, allo stesso tempo, uno sceneggiatore paradigmatico, tra i più complessi e raffinati che siano mai esistiti. Il terrore della morte, la fede e la crisi spirituale, i traumi del passato e, in generale, il ricordo della giovinezza perduta o della magia della fanciullezza sono solo alcuni dei temi che è riuscito a trattare con efficacia, se non con perfezione formale. Bergman sedusse i giovani che, nati e cresciuti superficialmente cattolici e divenuti in seguito atei e poi marxisti, si sbalordivano della disinvoltura della quotidianità, contemporaneamente alla profondità con cui i protagonisti de ‘Il posto delle fragole’ parlavano di teologia e di laicismo. Oppure, per il modo in cui, ne ‘Il settimo sigillo’, tante visioni si incrociano, tanti modi di intendere la vita e il bisogno di spiegarsela, di darle un senso, di investigare sugli enti ultimi e persino su Dio. Bergman è riuscito a trasmettere l’angoscia esistenziale, il dolore, l’ipocondria, la nevrastenia. Deriva da questa sua inconscia capacità, il grande apprezzamento che in tanti nutrirono e nutrono, ancora oggi, nei confronti delle sue opere cinematografiche. Un autore ferace e vorace, autocentrico, non sempre poeta, ma sempre prepotente, anche nei silenzi, nelle pause, nei sofferti ritrarsi, nelle attese. Il suo stile interpretativo e filosofico potremmo oggi paragonarlo a quello di certi film di Robert Bresson, di Luis Buñuel, di Federico Fellini, di Andrej Tarkovskij o di Woody Allen. Ingmar Bergman, spentosi nella sua villa di Fårö il 30 luglio 2007, è stato certamente un autore personalissimo, che ha fatto scuola. Perché fu l’unico che riuscì a parlarci esplicitamente del linguaggio di Dio. Un linguaggio da ascoltare attraverso il suo silenzio.





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