Giovanna AlbiA volte, opere di tutto pregio cadono nell’oblio e, grazie a Giovanni Turi di Terrarossa edizioni, hanno una seconda vita. Una reincarnazione che le sottrae al 'samsara' della vita e cambiano il loro 'karma', imponendosi nel panorama culturale internazionale entrando a far parte della collana Fondanti, la quale “ripropone opere che hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso formativo di autori di talento”. Questo fortunato destino è toccato anche al romanzo di Luca Giordano, dal titolo: ‘Qui non crescono i fiori’ (Terrarossa edizioni), ripubblicato nel 2021. Il medesimo era stato edito come romanzo di esordio in un anno di grazia per l’autore, come spiegava nella prefazione, dalla casa editrice Isbn, nel 2013. Un volume presto dimenticato in Italia, anche perché la casa editrice fallisce nel 2015, portandosi via così i sogni del giovane autore e sceneggiatore, che oggi scrive per il cinema e la televisione. Il testo è ‘sui generis’, caratterizzato da una peculiarità non comune: non si dubita fin dall’incipit che un dramma deve consumarsi, o ora o dopo, ma certo non mai. Si procede, con ritmo incalzante, verso il compimento di un rito di espiazione. Non si sa chi sia il capro espiatorio, ma è certo che qualcuno dovrà sacrificarsi. Un’isola brulla, con il sole sempre a picco, non definita, posta tra due continenti, dove arrivano i migranti che, cercando la vita, incontrano la morte; dove ci sono cani randagi che ringhiano e vessano la popolazione. Qui vive Mario, l’unico meccanico dell’isola, con i suoi due figli: Damiano, il maggiore e Salvatore, che lo aiutano nell’officina insieme a Pietro, un giovane mal pagato, orfano di entrambi i genitori. Non c’è respiro: tutto stringe alla gola, tutto è incarnazione di desolazione e morte, tutto preme e soffoca: “Il cielo si sta sciogliendo./C’è un sole che pulsa calore, fuoco, e neppure un soffio di vento a smuovere le foglie secche dei pochi alberi che ci sono in giro. Sono mesi che non viene giù nemmeno una goccia./Terra ed erba bruciata./I due sono sull’ape già da un po’, stretti uno all’altro con il rischio di rimanere incollati. Sudano. Stanno ritornando a casa dopo aver attraversato l’isola per consegnare un motorino che il padre ha finito di aggiustare questa mattina…”. I fratelli sono vicini, tra loro non corre certo buon sangue. Damiano odia Salvatore: il nervosismo taglia l’aria infuocata. Sono entrambi magri, nevrili e sporchi, ma diversi nell’anima. Damiano ride sempre per rabbia e dolore, Salvatore non ride mai, per indole e per quel dente caduto di cui si vergogna. L’atmosfera è malefica e maligna. Devono tornare alla loro casa, che non ha il significato connotativo di ambiente caldo e accogliente, dove regnano pace e armonia, ma è sinonimo di guerra intestina, che non ha tregua. Mario non sì sa da quando è scivolato nell’alcolismo. E’ un uomo anaffettivo, cruento: un ‘padre padrone’ particolarmente feroce con Damiano, che è colpevole di tutto fin dalla nascita. Di Agnese, la madre morta, nessuno ricorda nulla: solo Salvatore cerca ogni tanto di ripescare nei ricordi, ma è tutto sbiadito. Un ‘flashback’ dà qualche notizia del suo incontro con Mario e di come siano finiti insieme: l’unica volta in cui il padre è uscito dall’isola è stato per andarla a rincontrare a Roma. I figli non vedono e non hanno visto altro che l’isola, e la famiglia trova gli unici momenti di pace quando fanno un giro in barca; altrimenti, botte, grida, vino, lattine di birre accartocciate, sole bruciante, Ape polverosa, canottiere lerce e nervi a fior di pelle. A un certo punto, l’Ape con i finestrini rotti si ferma; qui inizia la disavventura nella disavventura. Damiano va verso casa con gestacci; Salvatore è solo, prova a riaccendere il motore senza risultato. A un tratto, un cane randagio, un morso, la paura, il soccorso prestato, il ritorno a casa, la corsa dal medico. Mario va a caccia di cani e  porta con sé Salvatore, che è costretto a sparare: “Ti avvicina il fucile e ti ripete più volte che devi sparare. Non serve a nulla dirgli che non ne sei capace. Lui insiste. Spara, dice. Ti mette il fucile tra le mani e tu le senti diventare fredde, gelide. Quasi ti abbraccia ora che si è sistemato dietro di te per guidarti. Prendete la mira insieme e senti il suo fiato sul collo. Forse è perché tremi, forse perché quel colpo non lo vorresti sparare, ma quando finalmente ci riesci lo colpisci solo di striscio. Correte a cercarlo, ma non c’è nulla se non una grande macchia di sangue sul terreno e una scia che porta chissà dove”. Frasi brevi, spezzate, che incalzano il lettore: “Sillabe storte e secche come un ramo”. In sintonia con l’aria fetida che si respira, si alternano a frasi più lunghe, ma il sentimento di orrore è dominante. Salvatore passa dalla paura per i cani all’amicizia per un cane, con cui cerca il suo baricentro. Chissà dove lo porterà il suo cane? Il padre alcolista vomita nel water, sputacchia per terra e domina tutti. Damiano e Pietro sognano di uscire dall’isola per partecipare al ‘Grande Fratello’, inventandosi la scena della madre Agnese dilaniata da un cane randagio. La tensione è quella di una sceneggiatura ed è una premonizione di morte. Certamente, un gran risultato. Soprattutto, per un’opera d’esordio.





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