Bruno ScapiniLa notizia recentemente giunta dal Caucaso, relativa a una ripresa delle ostilità tra l'Armenia e l'Azerbaijan per il conteso territorio del Nagorno Karabagh, colpisce ma non ci sorprende. E' lo stesso copione che guida insistentemente lo svolgimento di questo conflitto, con ripetuti tentativi di guerra dopo, ammettiamolo pure, il fallimento della mediazione internazionale condotta in primis dall'Osce con il Gruppo di Minsk. L'aggressione, infatti, consumatasi domenica 12 luglio direttamente al confine tra i due Paesi, tra le località di Tavush in Armenia e Tovuz in Azerbaijan, peraltro reciprocamente contestata con rimbalzo di responsabilità da parte dei due governi, conferma ancora una volta lo 'stallo tecnico' del processo di pacificazione, avviato senza successo da oltre vent'anni in seno all'Osce. Un processo, questo, che non riesce a focalizzare, né tantomeno a far riconoscere, il vizio primigenio di una mediazione fondata sulla inconciliabilità di due principi internazionali fondamentali: da un lato, l'integrità territoriale degli Stati, sostenuto da Baku; dall'altro, quello dell'autodeterminazione dei popoli, voluto da Yerevan. Per fare il punto sulla situazione, risulta superfluo, oggi, ricapitolare tutta la storica vicenda dei rapporti tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabagh: un territorio originariamente armeno, popolato essenzialmente da armeni. Basti tuttavia osservare, per obiettività di cronaca, come la conquista di una propria sovranità e indipendenza sia stato l'obiettivo dichiarato e conseguito da tutte quelle Repubbliche ex sovietiche e dalle regioni a queste interne con vocazioni autonomistiche, come il Karabagh, che all'indomani della dissoluzione dell'Urss hanno intrapreso la via dell'indipendenza in virtù della legge sovietica sulla 'Secessione degli Stati' approvata dal Soviet Supremo dell'Urss il 3 aprile del 1990. Un diritto, quello sancito da quella legge, di cui si è naturalmente avvalso l'Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza, per contro, che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del Karabagh. Ecco, in estrema sintesi e al di là di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere. Ma i governi e i circoli politici, interessati più alle fonti energetiche dell'Azerbaijan che al riconoscimento dei valori di libertà, dimenticano molto spesso che l'affermarsi di un mondo prevalentemente libero sia stato possibile, negli ultimi 70 anni, solo grazie a quel principio di autodeterminazione dei popoli di cui proprio le Nazioni Unite si sono fatte paladine per affrancare dal colonialismo interi continenti. In questo quadro internazionale, sorprende come proprio le Nazioni Unite abbiano adottato, sul Karabagh, le Risoluzioni del 1993 e, più recentemente, la n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso Gruppo di Minsk), in totale disprezzo di ogni imparziale, quanto obiettiva, valutazione di quel principio di libertà tanto sbandierato dalla medesima Organizzazione per oltre mezzo secolo. Evidentemente, la memoria è 'corta', in certi casi. E a fronte della determinata volontà del popolo armeno del Karabagh ci si ostina, ancor oggi, a non riconoscere le storiche verità, vedendo addirittura nell'indipendenza del Kosovo, secondo qualcuno, un pericolosissimo precedente per la minaccia alla integrità territoriale degli Stati. L'esasperazione del popolo armeno è alta di fronte a simili episodi di guerra, che ormai si ripetono con ricorrenza. E se, da una lato, il prolungarsi di una situazione di stallo nel processo di pace non giova di certo all'Armenia, che rischia, per la pubblica opinione, di vedersi trasformare e capovolgere la sua linea di difesa addirittura in aggressione, dall'altro si dovrebbe, da parte di tutti i governi occidentali ed europei interessarsi più da vicino all'evolversi di questa 'crisi caucasica', onde evitare che l'Armenia, messa alle strette da aggressioni portate direttamente sul suo stesso territorio e con vittime civili, come è stato il caso coi fatti del 12 aprile scorso, reagisca mutando con la forza, ancora una volta, i confini in un'area particolarmente strategica per l'Europa, per via del transito di importantissime condotte energetiche. La Storia dell'umanità, come ben sappiamo, è stata segnata da un continuo mutamento dei confini: guerre, rivoluzioni, rivolte e insurrezioni hanno sempre puntato a cambiare, a seconda degli interessi in gioco, le frontiere tra le nazioni. Ma il fine ultimo dei tanto invocati processi di libertà non è mai cambiato. E' stato, invece, sempre lo stesso: conseguire una propria autonomia e una sovrana indipendenza. Ecco, dunque, che la questione del Nagorno Karabagh, a distanza ormai di oltre un ventennio dallo scoppio della guerra, ci ripropone in tutta la sua drammaticità il dilemma di quale principio debba sacrificarsi e quale debba prevalere. Per noi, non c'è dubbio alcuno: sono i confini a essere al servizio dei popoli e non il contrario.





Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio