Serena Di GiovanniLa revisione della legge annuale per il mercato e la concorrenza (ddl S. 2085) è slittata, ancora una volta, a dopo le feste di Pasqua. Una storia infinita, che include all'interno un'altra vicenda assai poco felice, relativa al nostro patrimonio artistico. Sì, perché l'articolo 68 del testo finale del progetto di legge in itinere, con un emendamento discusso nella primavera dell'ano scorso, durante il passaggio al Senato, rivede in maniera 'pericolosa' l'articolo 10 del Codice dei beni culturali, che individua il patrimonio culturale da assoggettare a tutela. Come? Innalzando il requisito di età minima che un oggetto deve avere per farne parte, il quale passerà dai 50 anni (termine peraltro vigente in tutta Europa e negli Usa, ndr) a 70, introducendo, altresì, il principio di 'valore economico' quale elemento primario di valutazione dell'interesse culturale. Cosa significa? In primis, che innalzando l'età minima dell'oggetto, viene ristretta anche l'applicabilità del Codice dei beni culturali, eliminando in tal modo dal patrimonio culturale della Repubblica (costituzionalmente protetto dall'articolo 9 C.) molti beni mobili e immobili che, oggi, vi fanno parte. Questi beni, compresi quelli di proprietà pubblica ed ecclesiastica, che attualmente possiedono fra i 50 e i 70 anni e gli immobili di proprietà privata che hanno fra i 50 e i 70 anni, con un valore economico inferiore ai 13 mila 500 euro, potranno essere venduti all'estero sulla base di una semplice autodichiarazione e senza i controlli dell'ufficio esportazioni. Ma procediamo con ordine: l'articolo 68 del ddl recita: "Non è soggetta ad autorizzazione l'uscita [...] delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore sia inferiore ad euro 13.500". Poniamo, dunque, l'ipotesi di possedere un quadro di interesse culturale, realizzato da un famoso artista italiano circa 60 anni fa: un Fontana o un Guttuso, per esempio. E poniamo anche di volerlo vendere all'estero. Cosa dobbiamo fare? Secondo la normativa vigente, bisogna richiedere l'autorizzazione all'Ufficio esportazione di oggetti d'arte e di antichità competente per territorio (sono 18 in tutto), il quale si occupa di rilasciare una serie di certificazioni per l'alienazione del bene (autorizzazione all'uscita definitiva di beni culturali dal territorio nazionale; licenza di esportazione o spedizione temporanea; attestato di libera circolazione; certificato di importazione/spedizione temporanea; licenza di esportazione di beni culturali dal territorio dell'Unione europea). Poniamo adesso il caso che le modifiche al Codice vadano in porto. E prendiamo lo stesso quadro di Guttuso (magari, più che un quadro, un disegno) e proviamo a venderlo all'estero. Ipotizziamo inoltre che, secondo le stime che effettueremo privatamente e senza un controllo diretto da parte dello Stato, quel disegno venga valutato 13 mila 499 euro: ebbene, noi potremo tranquillamente alienarlo senza dover presentare istanza agli uffici esportazione di competenza, sulla base di una semplice autocertificazione che, tuttavia, il ministero potrebbe riservarsi di verificare, operando un controllo a campione. Per quale motivo, fino a questo momento, è stato ritenuto essenziale che l'uscita dell'opera venisse sottoposta al vaglio del Mibact? La risposta è ovvia: per evitare la perdita definitiva di un potenziale bene culturale dal territorio della Repubblica italiana. Lo Stato, in effetti, potrebbe riservarsi la possibilità di acquistarlo alla stessa cifra, avendo diritto di prelazione sul bene. Tali normative, che hanno una salda radice storica, rispondono al principio di tutela del patrimonio culturale sancito dall'articolo 9 della Costituzione. E gli uffici di esportazione del ministero non fanno altro che svolgere un controllo preventivo sulle cose che, in base a determinate caratteristiche, sono potenzialmente suscettibili di essere considerate 'beni culturali'. In Italia, però, abbiamo un grande problema: la burocrazia. I tempi per l'espletamento di qualsiasi pratica amministrativa sono assai lunghi. Così accade, molto spesso, che per accorciarli si vaglino strade più semplici. Ed è questo il probabile motivo per cui il gruppo d'interesse 'Apollo 2', che rappresenta le case d'asta internazionali, le associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e i soggetti operanti nel settore della logistica di beni culturali, rappresentato dall'avvocato di fiducia di Sotheby's, Giuseppe Calabi di Milano, ha richiesto l'introduzione dell'emendamento nel progetto di legge in questione. In un'intervista, risalente a un anno fa, Carlo Orsi, presidente dell'Associazione antiquari italiani, a tal riguardo aveva dichiarato: "Il nostro lavoro è stato finora regolato da leggi a dir poco sono obsolete. A differenza della Francia e dell'Inghilterra, che hanno leggi sensate e una burocrazia molto meno invasiva, noi siamo imbrigliati da lacci e lacciuoli che non favoriscono un mercato interno, sempre più difficile e ci penalizzano molto nella competizione sui mercati esteri. Finora, per poter esportare non certo un capolavoro - eventualità rarissima - ma persino un oggetto di poco conto che, però, ha più di 50 anni, dobbiamo attendere che l'ufficio esportazione dia l'attestato di libera circolazione. Esempio: se devo vendere a Parigi una seggiola 800, certo bella ma che vale non più di 600 euro, devo ottenere il loro permesso. Burocraticamente parlando, ciò significa che devo prendere quella seggiola e avere un appuntamento per mostrarla, anche fisicamente. Se sono fortunato, sarò convocato in un mese. E chiudo qui per farla breve. Tutto questo è assurdo, per un oggetto di nessuna rilevanza, che dovrebbe circolare liberamente. Ebbene", ha concluso Carlo Orsi, "al parlamento chiediamo di aver il coraggio di semplificare senza venir meno ai princìpi". Già un anno fa, insomma, si discuteva dell'emendamento che avrebbe favorito la circolazione delle opere all'estero, introducendo le soglie di valore già previste nei regolamenti dell'Ue, nonché aumentando il limite temporale da 50 a 70 anni dalla realizzazione dell'opera di un artista scomparso. Una riforma che avrebbe il merito di 'far entrare l'Italia in Europa'. Dunque, perché l'indignazione dell'associazione 'Italia Nostra', la quale ha proposto una petizione di raccolta firme sul web per impedire l'approvazione della norma? Si tratta della solita polemica sterile, della usuale incapacità degli italiani, retrogradi e tradizionalisti, ad accettare riforme e 'cambiamenti', oppure vi è una reale minaccia al nostro patrimonio culturale? Che le gallerie d'arte e il mercato dell'arte contemporanea in Italia siano in crisi, è un dato di fatto. E che questa crisi sia collegata anche alla lentezza della macchina statale e alla burocrazia, è un altro dato da tenere in considerazione. Se vogliamo tornare a competere con le altre nazioni, è ora che il mercato dell'arte esca dal torpore, che le opere circolino e che il nostro Paese diventi un po' meno egoista, che entri nell'ottica di una visione globale più ampia, cosmopolita e meno protezionistica del patrimonio. A volte, ci comportiamo con i nostri beni culturali come le classiche 'mamme chioccia' italiane: un atteggiamento 'chiuso' e antiquato, che non giova ai nostri figli, così come al mercato delle opere d'arte e, soprattutto, a quei piccoli antiquari e galleristi che cercano di 'sbarcare il lunario' vendendo anche all'estero. Tuttavia, c'è un però. Ovvero, l'autocertificazione non ci sembra la strada migliore da seguire, particolarmente in un Paese 'fraudolento' come il nostro. In Italia, vista anche la crisi economica, quanti operatori senza scrupoli, pur consapevoli delle sanzioni penali cui sarebbero sottoposti in caso di 'dichiarazione mendace', autocertificherebbero il falso (ovvero una cifra inferiore rispetto al reale valore economico del bene) pur di guadagnare milioni di euro? In effetti, la norma stabilisce che l'età e il valore venale dell'opera da esportare siano autocertificati dal richiedente e che, su tali dati, il rilascio degli attestati e certificati avvenga in automatico. In pratica, si toglie ogni potere di controllo agli uffici esportazione affinché possa verificare tali dati, stabilire se la somma indicata sia congrua, constatare se davvero il bene abbia gli anni dichiarati. E ciò, in un Paese come il nostro, appare avventato. Ma c'è anche un'altro dubbio, che veniamo a proporre anche per questioni di metodologia 'laica': non sempre il valore economico di un oggetto artistico corrisponde al reale valore dell'oggetto medesimo. Ciò in quanto il mercato dell'arte è mutevole, cambia continuamente, ha regole proprie, spesso influenzate dalle mode o dai gusti del momento. Ed è proprio per questi motivi che nel Codice dei beni culturali il valore economico dell'opera non incide mai, direttamente, sul principio di 'interesse culturale'. L'interesse culturale non collima in automatico con il prezzo in valuta dell'oggetto. Al contrario, la storia del mercato ci insegna che gli elementi che determinano il valore economico di un'opera d'arte quasi mai dipendano dal valore 'reale' dell'opera in sé, ma dal potere di acquisto degli acquirenti, cui è affidata la legittimazione dell'oggetto prodotto come 'opera d'arte' in base al gusto e alla moda corrente. Acquistando un'opera non ci si appropria di un bene, ma del valore attribuitogli dai circuiti culturali e commerciali, da quel 'sistema dell'arte' fatto di mercanti, imprenditori, curatori, direttori dei musei e ricchi collezionisti. Tutti attori i quali, oggi più che mai, concorrono alla determinazione dello status di 'opera d'arte', entrando cioè nello stesso processo creativo e riservando al pubblico generico l'inutile ruolo di 'spettatore inerme'. Ma, giunti a questo punto, dobbiamo chiederci: quale può essere la strategia più corretta per rilanciare il mercato dell'arte italiano all'estero? Noi crediamo che la risposta a questo quesito, di difficile soluzione, non risieda in facili e pericolose semplificazioni delle normative, che costituiscono un caposaldo per la tutela del nostro patrimonio culturale. Pensiamo, invece, che la strada più idonea sia quella di intervenire direttamente sul 'problema burocrazia', che investe un po' tutti i settori del nostro Paese, rendendo più efficienti gli uffici delle pubbliche amministrazioni. Come? Assumendo personale qualificato (i tanti laureati nelle discipline umanistiche, in Archeologia e Storia dell'arte, per esempio) in grado di espletare, ottimamente e in fretta, le pratiche amministrative. Queste ultime potrebbero essere 'semplificate' attraverso delle autocertificazioni, ma mai - e ribadiamo mai - la macchina statale deve venir meno alla verifica dei dati dichiarati, ovviamente entro un tempo limite stabilito (30 giorni, per esempio) come avviene nei casi di verifica dei titoli di studio in base all'articolo 72 del DPR 445 del 2000, che sancisce come "la mancata risposta alle richieste di controllo entro trenta giorni costituisce violazione dei doveri d'ufficio". Diversamente, verrebbe meno la tutela diretta del nostro patrimonio culturale, contravvenendo a quanto stabilito dall'articolo 9 della nostra amata Costituzione, che recita: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica [cfr. artt. 33, 34 C.]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".


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