Vittorio LussanaA 60 anni dalla nascita della televisione italiana ci appare corretto ricordare le origini di questo medium di massa che, pur tra infinite mediocrità, ha avuto un’importanza fondamentale nel fornire un’impronta unitaria all’identità collettiva degli italiani. Un lascito storicamente ambiguo, carico di contaminazioni formali che hanno modificato profondamente la nostra indole nazionale, attraverso una versione controversa di modernità composta da molte ‘ombre’ e scarsissime ‘luci’. Quella che il 3 gennaio 1954 iniziò a trasmettere dagli studi di Milano fu, infatti, una televisione di Stato che si pose immediatamente una serie di drammatiche preoccupazioni di ordine pedagogico e censorio. Sin dal primissimo biennio, contraddistinto dalla direzione generale di Filiberto Guala, vennero emanate alcune norme di regolamentazione e autodisciplina che, in molti punti, risultavano ‘estratte di peso’ dalle indicazioni del Centro cattolico cinematografico, organismo che aveva già causato danni inenarrabili con la propria condizionante influenza sul fronte della produzione filmica nazionale. Per lungo tempo, nella televisione italiana non furono consentite: a) la rappresentazione di scene che potessero turbare la pace sociale o l’ordine pubblico; b) l’incitamento all’odio di classe o la sua esaltazione; c) sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia e disordini pubblici i quali, tuttavia, potevano essere rappresentati con somma cautela e sempre in modo che ne risultasse chiara la condanna; d) opere di qualsiasi genere che portassero insidia all’istituto della famiglia, che risultassero truci o ripugnanti, che irridessero alla legge o che risultassero contrarie al sentimento nazionale; e) particolare riguardo doveva essere mantenuto di fronte alla santità del vincolo matrimoniale e verso il rispetto delle istituzioni; f) il divorzio poteva essere rappresentato solo allorquando la trama lo rendesse indispensabile e l’azione si fosse svolta ove ciò risultasse permesso dalle leggi; g) le vicende che derivavano dall’adulterio e che con esso si intrecciavano non dovevano indurre antipatia verso il vincolo matrimoniale; h) un’attenta cura doveva esser posta nella rappresentazione di fatti o episodi in cui apparivano figli illegittimi. Autodisciplina a parte, l’allora responsabile dei palinsesti, Enrico Pugliese, nel corso della loro messa a punto oscillò continuamente tra una sottovalutazione delle possibilità del mezzo, una blanda vena enciclopedica e l’intento di educare l’italiano ‘medio’ sotto la luce cui esso appariva ai nostri ‘tutori’ ecclesiastici. Gli spettacoli di maggior successo furono, perciò, i testi teatrali, mandati in onda la sera del venerdì; il programma ‘L’amico degli animali’, condotto da Angelo Lombardi, uno zoologo un po’ sgrammaticato; una rubrica di curiosità erudite, etimologiche e un poco antiquarie dal titolo ‘Una risposta per voi’, affidata a un professore di biblioteconomia, Alessandro Cutolo, frequentatore a Napoli del mitico salotto di ‘casa Croce’. Vennero inoltre introdotte le prime trasmissioni a quiz, ricavate dai modelli americani e francesi: ‘Lascia o raddoppia’, presentato da Mike Bongiorno; ‘Il musichiere’, condotto da Mario Riva; ‘Telematch’ con Silvio Noto, Enzo Tortora e Renato Tagliani; ‘Campanile sera’, ancora con Enzo Tortora e Mike Bongiorno. Questi programmi si rivolsero all’everyman con l’espresso scopo di rassodarne la tranquilla coscienza di benpensante. Tuttavia, ciascuna di queste trasmissioni finì con l’imprimere sul costume una propria impronta specifica e peculiare: ‘Lascia o raddoppia’ santificò una cultura nozionistica o sostanzialmente mnemonica, del tutto priva di ogni attitudine critica; ‘Il musichiere’ preannunciò l’avvento di un dialetto romanesco leggermente ‘purgato’ come nuova lingua nazionale, scardinando definitivamente l’antica sintassi letteraria del fiorentino storico, le ultime vestigia del lombardo ‘manzoniano’ e lo stesso purismo franco-piemontese tanto caro al ‘povero’ Edmondo De Amicis; ‘Telematch’ creò modi di dire che divennero immediatamente metafore di uso nazionale; ‘Campanile sera’, che si riprometteva un qualcosa di molto vicino a un’operazione di affratellamento nazionale tramite la competizione tra due località assai distanti tra loro, rappresentò un vero e proprio atto di ratifica di un Paese caratterizzato unicamente da folclorismi, gonfaloni, acerrime rivalità localiste e ‘strapaesane’. Infine, per quanto piatti, insulsi e ‘slavati’, i primi telegiornali consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione: storicamente in poca confidenza con la carta stampata, gli italiani scoprirono che il notiziario in diretta rappresentava una ‘finestra sul mondo’ e, dietro le benedizioni, le varie pose di ‘prime pietre’ e l’inquadratura di qualche ‘doppiopetto’ ministeriale, essi cominciarono a intravedere qualche ‘squarcio’ di verità. In ogni caso, appare corretto sottolineare come la nascita della televisione qui da noi abbia sostanzialmente rassodato la natura più ambigua e dissimulatoria degli italiani, i quali, grazie a ‘mamma Rai’, sono stati trasformati nelle vittime predestinate di una modernità narcotizzata, che ha imposto vessazioni rieducative assolutamente incapaci di distinguere fra il contratto di assicurazione stipulato da un Paese con la Chiesa e la persistenza, nel suo seno, di una religiosità autoritaria e familista. La qual cosa ha mantenuto in vita una mentalità paternalista e ipocrita, infarcita di pesantissimi retaggi di inciviltà giuridica, culturale e morale. Mentre a Parigi Georges Brassens e Juliette Gréco, già negli anni ’50 del secolo scorso, interpretavano brani musicali imperniati sui testi di Jean Paul Sartre, sino alla fine degli anni ’60 in Italia continuarono a imperversare le ‘marcette melense’ di Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’, ‘I cadetti di Guascogna’ e ‘I pompieri di Viggiù’), mentre il seguitissimo festival di Sanremo consacrò canzoni grondanti uno stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’), una satira tremebonda (‘Papaveri e papere’), lacrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’), squallidi inviti al servilismo (‘Arriva il direttor!’). In conclusione, la televisione italiana ha quasi sempre trasmesso un malcelato disagio culturale, che ha finito col trascendere ogni rispetto verso le leggi dello Stato in quanto sintomo di insicurezza di fronte ai fenomeni di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita individuali, in cui l’accordo di fondo tra due soffocanti pedagogie collettive - quella cattolica e quella comunista - ha finito con l’incidere profondamente sull’equilibrio psicologico e sul destino sociale di intere generazioni, secondo i canoni di una democrazia sonnolenta e noiosa identificata e confusa con l’ordine pubblico, nonché finalizzata a mantenere i giovani in un limbo di staticità e immobilismo, negando loro non soltanto un passato in cui riconoscersi, ma un qualsiasi tipo di futuro verso cui dirigersi e integrarsi.




(articolo tratto dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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Marina - Urbino - Mail - domenica 12 gennaio 2014 4.39
Olè !
Laura - Bergamo - Mail - domenica 12 gennaio 2014 4.38
Tutto quanto lei ha scritto lo condivido appieno....!!!! come possiamo fare per non pagare il canone?????
Maria Antonietta - Roma - Mail - sabato 11 gennaio 2014 20.29
Nostalgica tele in bianco e nero che ha accompagnato i miei primi anni di vita, ti conservo nel mio cuore con tutti i tuoi difetti.
Roberto - Roma - Mail - sabato 11 gennaio 2014 20.25
Mi immagino solamente come ti sia divertito a scrivere questo articolo da autentico "guastafeste"....... Un corsivo molto simpatico.


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