Antonio Di GiovanniUn dibattito piuttosto aspro sta accompagnando le recenti vicissitudini del Partito democratico. Molte sono le opinioni che si costruiscono. Alcune, debbo dire, con eccessiva enfasi, altre, invece, attraverso critiche assai affrettate. Quindi voglio cercare di compiere un’analisi serena e distaccata sul dibattito precongressuale del Pd, al fine di cogliere i più importanti nodi controversi dell’attuale soggetto politico. Inizierei proprio da quella fusione ‘fredda’, che non fu poi così scontata come si volle far credere. La politica attuale non è, e non può essere, il luogo privilegiato delle scorciatoie o di immaginarie sintesi che non si muovono dal basso, dalle masse, ovvero dai momenti necessari e indispensabili della democrazia. Credo siano davvero pochi, oggi, i ‘cittadini-elettori’ che hanno perfettamente abbracciato la necessità di un nuovo partito politico che intenda collocarsi  in un centro - sinistra scevro dalle ideologie che lo hanno caratterizzato nel passato. L’elettore avrebbe voluto un partito socialdemocratico di massa nel senso classico del termine. Invece, si è ritrovato un partito di ‘quadri’ e di ‘apparati’ tipico della vecchia nomenklatura. Il tutto, senza peraltro godere, all’interno, dell’unita degli stessi componenti, condizione fondamentale per una nuova formazione che miri alla multidirezionalità su tematiche come laicità, società, costumi, politica estera e immigrazione. Assumere, su taluni argomenti, posizioni cosi diversificate ha fatto seriamente dubitare l’elettore di centro - sinistra circa l’effettiva esistenza del partito. Insomma, il Pd non può ridursi ad essere una forza che affida al proprio Segretario, attraverso la sua opera di mediazione, il compito di superare tutte le incongruenze interne. Se il Pd nasce collocandosi nel centrosinistra non può fare a meno di ricercare equilibri politici che non possono in alcun modo tralasciare un dialogo con le forze che si collocano nella sinistra, mentre è stato fatto l’esatto contrario, indebolendo il partito e la sua forza rappresentativa. Sembra quasi che l’eccessiva preoccupazione di Francescini  di dover ‘catturare’ i voti del ‘centro’ gli abbia fatto dimenticare che un centro - sinistra in espansione non può non fare i conti con la sua ‘ala’ sinistra, la quale, pur con i suoi eccessi, costituiva una risorsa da utilizzare e da convogliare, non da isolare. Altro errore, a mio avviso molto importante, del Pd è stato il progressivo allontanamento da quelle che erano chiamate le ‘piazze’, le sezioni, le fabbriche, terreni per eccellenza di conquista e di battaglie. Diceva Calamandrei, a tal proposito, che “vi era, allora, tutto un popolo che guardava al futuro, a nuove conquiste di libertà e civiltà, e tutti lavoravano con la determinazione di coloro che avevano sofferto fame, distruzioni e mancanza di democrazia. Dai politici all’ultimo manovale e contadino ci si metteva in gioco fino in fondo, sacrificandosi ma sempre accettando il confronto, anche duro ma chiaro. Si ascoltava, si dialogava, e se era il caso ci si scontrava con chiunque ed in tutte le sedi”. C’era un tempo, in effetti, questa vitalità e dialettica nella sinistra italiana. Oggi, invece, gli esponenti del Pd sembrano aver dimenticato quel passato: non vi è più sofferenza vera, né confronto della verità, in particolare, nel mondo politico. Si nota, inoltre, in un Pd in buona parte salottiero e benestante, un certo relativismo esasperato, che guarda al momentaneo cercando di ottenere il più possibile in termini di potere. Il mondo politico di ieri costruiva il futuro, quello di oggi no. Gli avvenimenti politici di quest’ultimo decennio, se vogliamo essere onesti, non sono esaltanti, salvo in qualche raro caso. E i dibattiti attuali appaiono spesso avvilenti, sia per la povertà di pensiero, sia nei contenuti, spesso incentrati su tematiche frivole e ‘gossippare’ che, sinceramente, inquietano. La direttrice per un vero risultato politico resta sempre la formazione, la partecipazione e la responsabilità. Questo significa che bisognerebbe tornare a scommettere sulla ‘formazione’ in tutte le sedi di partito, privilegiando la qualità alla quantità. Per una forza politica a vocazione maggioritaria, solo fornendo una completa formazione si può sperare di ottenere una seria partecipazione da parte dei soggetti preposti. E’ evidente a molti, infine, la generale crisi di responsabilità della classe dirigente presa nel suo complesso, che sembra incidere in maniera rilevante sulla vita della nostra comunità nazionale. Una crisi che prescinde dalla natura delle istituzioni coinvolte o dalla formazione religiosa, culturale e politica degli interessati. Questa spesso si manifesta nella palese incompetenza e nell’evidente sfiducia verso le istituzioni, in cui profitto e sete di potere costituiscono il movente unico di ogni impegno politico, manifestando un’immaturità profonda. E’ questo il caso della ‘Tangentopoli’ del Partito democratico, che ne rappresenta una icona evidente. Restano perciò di grande insegnamento le parole di Don Luigi Sturzo, un politico che, spesso, negli ultimi anni, è stato più citato che studiato: “La politica”, scriveva il senatore Sturzo  “è la sintesi di teorie e d’interessi, di principi e di fatti; la politica è vita nel senso più completo della parola. Partecipare a un partito è come avere uno strumento di lavoro: il partito non è un fine, è un mezzo, ed è un mezzo delicatissimo nella sua funzione, e nella sua finalità. Ogni partito che si rispetti ha un sistema di principi e d’idealità inderogabili, che fanno sostanza della propria attività, nell’educazione dei propri iscritti e nell’ispirazione delle campagne politiche, e non solamente elettorali. Il cittadino e uomo di parte: deve essere educato non con i favori, ma con la giustizia, non con le pretese di privilegi e vantaggi individuali, ma con l’assistenza nel far valere i propri diritti”.





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