Stefania CatalloSono in tante e vengono chiamate 'agunah', che in lingua ebraica significa 'incatenata', 'ancorata'. Ed è con questo termine che vengono definite le donne che non ottengono il 'gett', ossia il divorzio dal marito, restando quindi vincolate a dispetto della loro volontà. Facciamo chiarezza: il divorzio, in Israele, è una questione religiosa. Il diritto di concederlo spetta solo al marito e, qualora la donna decidesse di interrompere comunque il legame matrimoniale e di avere dei figli con un altro uomo, questi ultimi verrebbero considerati dei 'mamzer', letteralmente: dei 'bastardi'. Ma c'è di più: quelle che vivono in contesti sociali maggiormente religiosi e che decidono di coprirsi il capo col 'kissui rosh', il velo tradizionale ebraico che viene indossato dopo il matrimonio, vengono sottoposte a pressioni ancora maggiori delle altre. E se, come estremo atto di protesta, intendessero togliersi il velo, verrebbero additate come 'isha moredet', ossia delle ribelli, con conseguenze anche sui figli, che risultano isolati socialmente, se non addirittura tolti alla custodia della madre. Inoltre, gli accordi 'prematrimoniali' possono essere stipulati, ma non hanno grande valore ai fini di un eventuale divorzio, vista la sua giurisdizione religiosa. Insomma, sembra che i diritti femminili sul matrimonio e sul divorzio siano inesistenti o di minima importanza, in Israele. Effetto di un governo conservatore? Risultato di una mentalità troppo tradizionalista? Oppure, entrambe le cose? In ogni caso, pur di ottenere il divorzio, molte donne cedono a prepotenze e soprusi da parte dei mariti. Shararahel Dea, un'artista italo-israeliana, 'agunah' per due anni, ha deciso di denunciare questa situazione attraverso una serie di incontri pubblici nei vari Stati europei, tra i quali anche l'Italia. La sua rottura con le modalità del 'gett' è stata eclatante. E la racconta così: "Dopo un anno dalla richiesta di divorzio, esasperata, ho deciso di compiere un atto di rottura forte e pubblico. Ero molto religiosa, avevo vissuto in un 'moshav' religioso per sette anni e per ben dieci ho portato il 'kissui rosh'. Sono andata dal rabbino del 'moshav' e gli ho comunicato la mia decisione di toglierlo. Siccome mio marito, benché già da un anno vivessimo separati, continuava a definirmi davanti agli altri "mia moglie", togliere il 'kissui' rosh era il mio gesto personale per dichiarare pubblicamente che no, io non ero più sposata". Un gesto che l'artista ha diffuso attraverso un videoclip, intitolato: 'Remove the veils'. In un'ottica di resilienza, Shararahel Dea ha inteso il clip come un esempio per le altre donne che si trovano nelle medesime condizioni, in modo che possano acquisire forza, e consapevolezza degli abusi dei quali sono vittime. "La realtà delle 'agunah' viene celata", aggiunge l'artista, "io stessa non ne sapevo niente finché non mi sono trovata nella loro situazione. La legge prevede il carcere per i mariti che non concedono il divorzio, ma nella pratica questo è successo solo una volta. Essere 'agunah' è il prezzo da pagare per uscire dai confini di una società patriarcale, attenta solo alle apparenze". L'artista è stata a Roma, dal 27 al 29 gennaio scorsi, per diffondere sia il suo progetto artistico, sia quello di attivismo femminile, 'Women Wage Peace', oltre che una maggiore conoscenza delle norme sul divorzio e l'affidamento dei figli in Israele.


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