Michela DiamantiDuro colpo per il 'made in Italy' agroalimentare. Entro fine ottobre, entreranno in vigore i dazi addizionali previsti dal Governo americano per molti prodotti di provenienza europea. Giustificata l'apprensione da parte delle associazioni degli imprenditori coinvolti per il futuro dell'export italiano verso gli Stati Uniti. Lo scorso 2 ottobre, infatti, il Tribunale della World Trade Organization (Wto) ha stabilito che gli Usa potranno imporre dazi sui prodotti europei per quasi 7,5 miliardi di dollari, come compensazione per gli aiuti illegali concessi dall'Unione europea al consorzio aeronautico Airbus. Tra i prodotti colpiti in base alla lista pubblicata dall'Us Trade Representative (Ustr), ci sarebbero anche merci di Paesi che non fanno parte della 'cordata' di salvataggio di Airbus. Della nostra produzione, secondo la Coldiretti, risulteranno maggiormente penalizzati i prodotti dell'industria casearia, come il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano e il Pecorino, ma la lista non è definitiva e gli Stati Uniti potrebbero aumentare le tariffe o cambiare i prodotti indicati in qualsiasi momento. I nuovi 'balzelli' americani contro l'Europa potrebbero colpire, inoltre, anche altri settori, come per esempio quello della moda. Ciò sta suscitando preoccupazione in molte aziende italiane, che se coinvolte subirebbero una drastica riduzione dell'export. Nel recente incontro a Villa Madama tra il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo e il nostro ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, è stato evidenziato la presenza di un nostro partner commerciale scomodo per gli statunitensi. Per Pompeo, "la Cina ha un approccio predatorio negli scambi commerciali" e rappresenta "una minaccia comune".  L'Italia è stato il primo Paese del G7 che ha aderito al grande progetto infrastrutturale cinese della nuova 'Via della Seta'. La firma del memorandum con la Cina, avvenuta a fine marzo scorso in occasione della visita del presidente cinese, Xi Jinping, in Italia, è dunque oggetto di perplessità e di accesi dibattiti. E' il comparto delle telecomunicazioni ad alta tecnologia a destare maggiore preoccupazione: inizialmente rimasto fuori dall'accordo, sembrerebbe invece entrato a far parte del Protocollo d'intesa. Recentemente, la Farnesina ha acquisito dal dicastero dello sviluppo economico le competenze sul commercio estero: "Avendo incluso nel ministero degli Esteri anche le politiche commerciali", ha spiegato Di Maio, "potremo essere ancora più efficienti a portare il 'Made in Italy' nel mondo". Il raggiungimento di accordi con il grande rivale geopolitico degli americani permetterà all'Italia di agevolare e promuovere lo sviluppo economico del nostro Paese, oltre a migliorare sensibilmente la nostra posizione strategica per l trasporto delle merci. Non a caso, negli anni scorsi il nuovo porto di Trieste - città destinata a tornare agli antici splendori dell'Impero austro-ungarico - è stato completato in vista delle nuove esigenze commerciali. Secondo i dati Eurostat del 2018, l'Italia si conferma il quarto fornitore della Cina tra i Paesi europei, ma in settori strategici, come per esempio quello della moda, siamo già da qualche anno addirittura il primo. Molta della produzione commerciale delle nostre aziende è da sempre destinata all'export, ma la scelta da parte degli Stati Uniti di 'includere' nella lista dei tributi anche molti prodotti considerati 'eccellenze' del 'made in Italy', non dev'essere essere interpretata non come un avvertimento, bensì come un'ulteriore quanto involontaria spinta verso la ricerca di nuovi sbocchi commerciali. In pratica, l'Italia si ritrova costretta, a causa di una penalizzazione ingiusta, a intensificare i suoi rapporti commerciali con Pechino. "Vari settori delle nostre esportazioni sono stati risparmiati o colpiti in maniera inferiore rispetto ad altri partner europei", ha infatti puntalizzato il nostro ministro degli Esteri, in una lettera alle aziende italiane. Le tensioni commerciali nascono principalmente tra Usa e Cina popolare, ma la politica protezionistica messa in atto dal governo degli Stati Uniti potrebbe creare non pochi problemi, in quanto rischierebbe di 'chiudere' il mercato americano, che dovrà basarsi maggiormente sulla propria produzione interna, non sempre all'altezza degli standard qualitativi richiesti. Insomma, gli Stati Uniti stanno facendo tutto da soli. In un clima di tensione commerciale a livello globale è lecito chiedersi quali potrebbero essere le conseguenze di scelte poco ponderate. Reagire tempestivamente e muoversi di conseguenza sembra essere la posizione presa da Di Maio, che ha ribadito: "Come Governo, daremo tutto noi stessi per difendere le nostre eccellenze e metteremo tutte le nostre forze per riuscire ad aumentare la capacità di esportazione". Non si tratta di 'tradimenti' geostrategici o militari, né sono in campo ipotesi di mutamenti delle alleanze come ai tempi della diplomazia dei primi del novecento: l'Italia ha semplicemente il problema di dover espandere le proprie politiche commerciali verso quei mercati che potrebbero soddisfare le esigenze dell'export e, conseguentemente, contribuire ad aumentare sia la nostra produttività, sia la stabilità della nostra economia. La Cina, ma più in generale tutto l'est asiatico, ha la capacità di assorbire gran parte della nostra produzione destinata all'export e, attualmente, grazie anche alle politiche adottate dai grandi colossi commerciale asiatici, alcuni risultati positivi già raggiunti fanno ben sperare in un futuro migliore per le nostre aziende e la nostra economia. Non calcolare o sottostimare la vastità dei mercati asiatici e le loro possibilità di assorbimento degli scambi ci appare un'ingenuità: un errore madornale d'improvvisazione, in tempi di globalizzazione ormai diffusa.


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