Si dice che il pesce rosso abbia una memoria brevissima, che non supera i due secondi. Per questo motivo non si accorge di essere prigioniero in un piccolo acquario: guardando una parete di vetro di fronte a sé non ricorda di averne un’altra alle spalle, e ogni volta che volge lo sguardo ha l’impressione di vedere qualcosa di nuovo. Questo lessi in un articolo qualche tempo fa. Non ho sufficienti conoscenze ittiologiche per confermare le informazioni riguardo alla mente dei pesci rossi, ma l’idea che qualcosa di simile possa affliggere gli umani mi riempie di angoscia. Pensiamo alla perdita di memoria storica di cui si lamentano molti studiosi. La contrazione della memoria (non solo storica, anche sociale e individuale) porta necessariamente all’incapacità di formarsi chiare idee politiche o etiche, di giudicare eventi o persone, all’incapacità di resistere all’influenza operata dai mezzi di comunicazione di massa o a evidenti falsificazioni propagandistiche finalizzate al consenso politico. Il subdolo radicamento del ‘pensiero unico’ ne è una testimonianza. La perdita di memoria porta necessariamente all’impossibilità di formarsi idee proprie, di comprendere la propria posizione e il mondo esterno. Rende deboli nei confronti di eventuali manipolazioni o inganni e impedisce di conseguire un corretto equilibrio psichico. La gestione dei ricordi è strettamente correlata con la formazione dell’io e con la mappatura dell’ambiente esterno, sia in senso sincronico che diacronico. Parecchi secoli fa, infatti, Platone, nel dialogo ‘Fedro’, lamentava le conseguenze negative dell’invenzione della scrittura sui processi cognitivi. Oggi, la nostra dipendenza da una varietà di mezzi di comunicazione e di archiviazione di informazioni può ben suscitare timori. Viviamo in simbiosi con delle protesi mentali imperfette, gestite dall’esterno e non da noi stessi. Gli strumenti e le tecnologie sono logicamente in mano a chi detiene il potere economico e possono facilmente essere utilizzati al fine di manipolare percezioni e pensieri.
La stessa realtà in cui viviamo è ‘costruita’: la nostra visuale è molto più estesa rispetto al passato, ma ciò che vediamo è filtrato attraverso finestre – monitor - che ci forniscono immagini secondarie, già accuratamente selezionate. Nel corso dello scorso secolo Marshall MacLuhan, l’autore del celebre ‘Villaggio globale’ che coniò, tra l’altro, il termine mass media, studiò approfonditamente il fenomeno del mutamento antropologico come conseguenza dell’evoluzione degli strumenti comunicativi. L’homo communicans, teorizzato dal sociologo canadese, si adatta sensorialmente, psicologicamente e, addirittura, attraverso mutamenti fisiologici, agli strumenti di comunicazione di una determinata epoca. Questo bisogno di comunicare proprio della specie umana (ma, in forma minore, si può notare anche in altre specie) ci rende, infatti, profondamente sensibili ai messaggi mediati. L’affermazione del MacLuhan: “il medium è il messaggio”, non significa, infatti, che non siamo ricettivi ai contenuti, bensì è riferito ai mutamenti socio-antropologici indotti dagli sviluppi dei mezzi di comunicazione. Essi sono da considerare parte integrante del sistema economico e strutturale particolare, ma bisogna anche tenere presente il sistema di classi e la proprietà di tali strumenti. Ciò ha, necessariamente, una notevole influenza sul contenuto dei messaggi mediati e sull’assetto ideologico che ne risulta. Oggi sono in molti ad aver preso coscienza di tali processi e della manipolazione psicologica operata su di noi. Tanto che esigenze di resistenza psichica sono presenti, da alcuni anni, anche in opere letterarie e cinematografiche. Ne è un esempio la serie di film Matrix, che, attraverso un’impostazione vicina alla mitologia gnostica, ripropone la sfiducia platonica nei confronti del mondo percepito. La dottrina dell’antico filosofo ateniese può, infatti, essere considerata come un tentativo di superare il cosiddetto sistema culturale dominante. Ciò diviene comprensibile allorquando pensiamo xhe la realtà esterna non venga da noi elaborata immediatamente, ma trasformata in ‘mappa’ attraverso categorie culturali che ci vengono fornite dalla società in cui viviamo. Tali categorie interpretative sono, a loro volta, introiettate, attraverso l’educazione e l’interazione con gli altri e, in generale, mediante ciò che viene chiamata socializzazione. Si può ricordare, al riguardo, la definizione di Max Weber della cultura come “sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo”. Essa è lo strumento che ci permette di comprendere la realtà in forma sintetica e significativa ma conduce, inevitabilmente, a distorsioni interpretative. Il rifiuto del mondo sensibile come illusione o copia deformata della vera realtà può essere pertanto considerato una critica alle categorie concettuali della cultura dominante. Esso porta, in genere, alla ricerca della ‘vera’ realtà, alla cui conoscenza, ‘gnosi’, si accede attraverso un impegnativo percorso intellettuale, a volte a carattere iniziatico. Ne è un esempio la dottrina orientale, di stampo platonico, elaborata dal Buddha. Egli percorre, nella sua meditazione, la via che porta alla completa cancellazione del mondo esterno, concepito come illusorio e fonte di dolore, non fermandosi neanche di fronte alle divinità ‘vediche’, le quali appartengono anch’esse alla realtà mondana. Egli, d’altronde, non arresta il processo di dissoluzione neppure di fronte alla propria individualità ed esistenza personale, che è, essa stessa, solo apparenza. Il Buddha è spesso definito anche Sukyamuni, in quanto appartenente alla casta dei guerrieri (Sakya), non a quella dei sacerdoti, come sarebbe stato logico per un mistico. Dunque, anche in questo caso notiamo un’opposizione nei confronti della cultura e dei ruoli sociali. Tornando alle tecnologie dell’informazione, devo precisare che non intendo demonizzare il loro progresso, ma solamente mettere in guardia da un utilizzo scorretto e dal subire acritico dei messaggi ricevuti. Il progresso non dovrebbe inibire le potenzialità della mente, semmai integrarle ed aumentarle. Ma ogni sistema, all’interno di un macrosistema sociale ripropone gli stessi assetti come in un gioco di specchi, tanto che lo sviluppo di un settore, per quanto positivo in sè, rischia di trasformarsi in uno svantaggio. E’ evidentemente questo il motivo per cui spesso sono state osteggiate dottrine che ponevano l’accento sulle infinite potenzialità della mente e dell’anima. Ancora oggi, si preferisce lo studio di sistemi teorici mortificanti, a volte addirittura reificanti, rispetto agli scritti di Aleksander Lurija, il grande studioso russo padre delle ‘neuroscienze’, che indagò con profitto i segreti della memoria e la cui concezione antropologica presenta notevoli convergenze con quella elaborata dal filosofo Giordano Bruno. In conformità con la dottrina psicanalitica, Lurija ritiene — e dimostra — che la memoria è potenzialmente infinita in estensione, volontaria e strettamente correlata con la capacità di gestione cosciente dei ricordi. La mente umana è concepita come un ‘sistema funzionale’ di processi mentali interconnessi con capacità di autoregolarsi. Ciò in contrapposizione con le varie dottrine meccanicistiche che, allora come oggi, scompongono le funzioni mentali in singoli elementi, spesso localizzati e circoscritti in singole aree del cervello. Seguendo Vygotskij, neuropsichiatria dell’infanzia e dello sviluppo e suo connazionale, che propose una dottrina alternativa a quella di Piaget riguardo allo sviluppo del pensiero e del linguaggio nel bambino, Lurija sostiene che la mente umana si forma storicamente, attraverso l’elaborazione delle esperienze. Anche in questo caso, vediamo la centralità attribuita alla memoria, intesa però non come un semplice aggregato di elementi disparati, ma come progressiva integrazione del ‘Sé’. E’ necessario precisare che la nostra mente non è assolutamente paragonabile ad una macchina, come alcune dottrine vorrebbero farci credere, ad esempio il ‘riduzionismo’ psicologico. Tali costruzioni teoriche meccanicistiche sono infatti finalizzate a indurci a percepire noi stessi come ‘cose’, le cui capacità sono limitate e dirette esclusivamente allo svolgimento di determinate funzioni. Esse hanno lo scopo di rendere più accettabile il fenomeno della ‘reificazione’ che, altrimenti, sarebbe percepito per quello che è realmente: una riduzione dell’individuo al sistema socio-economico ed una violenza nei confronti della psiche. Studi approfonditi e interessanti su tale fenomeno sono stati svolti da sociologi, filosofi e psicologi e, in particolare, dalla ‘scuola di Francoforte’, le cui affermazioni non possono assolutamente, al giorno d’oggi, essere considerate superate o obsolete. Horkheimer, Adorno, Marcuse e Fromm pongono infatti l’attenzione sui condizionamenti profondi che la società capitalistica opera sulle classi subalterne. Esistono, ora, alcune correnti di pensiero, in particolare il c.d. cyberpunk, che esprimono fiducia nei confronti delle future evoluzioni tecnologiche dei mezzi di comunicazione e ritengono, seguendo un’ interpretazione che riprende il materialismo storico, che esse porteranno ad una maggiore equità e libertà. In effetti, l’era informatica presenta alcune peculiarità: se pensiamo alle informazioni come fonte di ricchezza, ci rendiamo conto che esse non possono, alla lunga, rimanere realmente e totalmente proprietà privata, in particolare nel momento in cui il contatto con i nostri centri nervosi – che alcune opere letterarie e cinematografiche presentano come vera e propria ‘fusione’ – sarà tale da non permettere di erigere barriere tra le informazioni prodotte e i loro stessi produttori. Con ciò, possiamo pertanto, io credo, riacquistare la speranza per un mondo migliore. Anche se, per ora, solo quella.
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