Silvia MattinaNegli ultimi decenni, il mondo del lavoro ha subìto traumi e lacerazioni: tutti cambiamenti applicati dalle aziende e dalle istituzioni per esigenze produttive, privando l'individuo della possibilità di costruirsi un'esistenza normale, fino alla pensione

In questi giorni di vacanze estive, pochi fortunati possono vivere le proprie meritate ferie, mentre per il resto della popolazione, ormai la maggioranza, non resta che un 'pugno di mosche' e il paradosso di non avere i soldi neanche per viaggiare. E' sufficiente un 'micragnoso' posto di lavoro, per togliere il prezioso tempo delle vacanze, perché i precari non hanno ferie o, peggio ancora, il diritto ad averle, a causa delle tante forme d'avanguardia raggiunte dallo sfruttamento. Contratti a tempo parziale, a progetto, 'job sharing' o lavoro ripartito, telelavoro, prestazioni di lavoro accessorio, lavoro intermittente, contratto di somministrazione di lavoro (ex lavoro interinale): sono solo alcune delle esperienze imposte ai giovani e, ancor più tristemente, a chi, ormai oltrepassati i quarant'anni, deve accettare il ricatto dei tirocini e del precariato selvaggio. Da questa realtà è nato il libro dell'autrice e ricercatrice Marta Fana, che partendo dalle testimonianze raccolte tra amici, conoscenti e diversi incontri nelle piazze, ha descritto un mondo sempre più svuotato di diritti, appiattito da un progressivo indebolimento professionale. 'Non è lavoro, è sfruttamento', edito da Laterza, è un viaggio nel burrascoso girone infernale del mondo del lavoro, che vede la contrapposizione tra rapaci manager e giovani 'agnelli sacrificali', spesso descritti come "bamboccioni" o "choosy". Quest'autrice testimonia un processo irreversibile. E con lucida amarezza registra come il senso comune si sia ormai arreso al precariato come valore aggiunto. La narrazione del lavoro è in mano, ormai, a pochi che, coalizzandosi, hanno potuto imporre la propria visione della produzione, secondo un'ottica privatistica e disgregante. L'autrice prospetta la possibilità del riscatto solo attraverso l'unione e una visione d'insieme dei lavoratori, in grado di donare nuova dignità, diritti e desideri ai tanti disoccupati. Una chiamata ad alzare la testa contro lo sfruttamento, in ricordo delle antiche battaglie politico-sociali per la realizzazione di un nuovo 'quarto Stato', che intende avanzare verso un Paese rinnovato, dove ognuno possa prendersi le responsabilità di ribaltare i meccanismi imposti e disinnescare l'inutile guerra tra poveri: immigrati, giovani e anziani.

Marta Fana, in 'Non è lavoro, è sfruttamento' lei fotografa una situazione lavorativa senza tutele e con meno diritti: dopo le tante lotte dei lavoratori degli anni '60 del secolo scorso, com'è stato possibilie arrivare all'involuzione odierna?
"In realtà, tutto il lavoro in un sistema capitalistico è sfruttamento. Io ho solamente ripreso una definizione tautologica: quelle che viviamo oggi sono le cinquanta sfumature di sfruttamento, inserite nel sistema in modi anche molto evidenti, rapaci e violenti. Ci siamo arrivati perché, sostanzialmente, alla fine degli anni '70, i nostri grandi capitalisti e la classe imprenditoriale voleva riprendere potere rispetto alla fase storica delle lotte. Da un lato, hanno ristrutturato i processi produttivi 'spezzettandoli', in maniera tale che i lavoratori non fossero più tutti insieme; dall'altro, hanno chiesto leggi, o lavorato per averle a loro favore: flessibilizzazione dei contratti e liberalizzazione di altri tipi di contratti, tipo quelli a termine o di somministrazione, fino a raggiungere una situazione normativa di diritto per cui è la legge stessa a essere un abuso. L'abuso è stato legalizzato. E ciò è stato fatto per raggiungere degli obiettivi politici. Ma siamo stati noi a indietreggiare, a dire 'non toglieteci l'ultimo diritto', anziché affermare: 'Guardate che ce ne dovreste dare almeno altri undici'...".

L'emergenza lavorativa non è una piaga solo dei giovani, poiché ci sono anche alcune categorie di persone di 40 e 50 anni che, improvvisamente, si ritrovano senza lavoro, completamente fuori mercato: dunque, non si tratta solamente di una crisi generazionale?
"Infatti, non è una crisi generazionale, ma della classe lavoratrice. I giovani non sono considerati una categoria politica, perché chi è figlio di un ereditiero che non ha bisogno di un'occupazione non è nella stessa condizione di un suo coetaneo che tutte le mattine deve alzarsi prestissimo per andare a farsi sfruttare, perché gli offrono il magazzinaggio da 'Amazon' o il tirocinio gratuito. La 'questione lavoro' è, dunque, intergenerazionale. Poi è anche vero che i giovani, con la crisi di mezzo, sono stati anche sfortunati in modo indipendente rispetto alla loro volontà di volersi mettere in gioco. Si è detto spesso: 'Ci sono tutte le leggi per far entrare i giovani nel mercato del lavoro'. Senza la disoccupazione, però. E a condizioni sempre più svantaggiate. Si è deciso che i giovani dovessero rimanere una categoria vulnerabile sul mercato del lavoro, in particolare per chi proveniva dalle periferie o non avava studiato, oppure aveva vissuto tutta una serie di problemi. È anche vero, tuttavia, che con la crisi la frattura generazionale di fatto si è ricomposta, perché gli adulti espulsi dai processi produttivi o licenziati, spesso rientrano nel mercato del lavoro attraverso l'apprendistato e il tirocinio. Ma cià significa che i livelli di sfruttamento e di ricattabilità sono più estesi, dal punto di vista generazionale e anagrafico. E il punto 'teorico' sottostante rimane l'idea che i giovani non siano una categoria politica, mentre un lavoratore, invece, lo è".


Da più parti si incitano i giovani ad andare all'estero a cercare lavoro: visto anche il suo dottorato di ricerca a Sciences Po (Parigi), cosa si trova veramente, al di fuori dell'Italia? Il Paese dei balocchi?
"Assolutamente no. Fare il magazziniere da 'Amazon' all'estero è quasi la stessa cosa che farlo in Italia. È vero che all'estero non esiste il lavoro gratuito, o almeno non è così diffuso, né tantomeno legalizzato, in molti settori. Dopodiché, se sei un lavapiatti a Londra fai la 'fame' esattamente quanto la fai qui, forse un poco meno. È vero che gli stipendi all'estero, per un lavoro a tempo determinato in una qualsiasi azienda o pubblica amministrazione, sono del 30% superiori a quelli italiani. In più, se ti licenziano, ci sono alcuni diritti in termini di welfare: l'affitto per la casa, gli abbonamenti dei mezzi pubblici e così via. C'è, insomma, una costruzione più solidaristica e non ci sono certe 'derive', tipiche del mercato del lavoro italiano. C'è da dire che, se entri nel mercato del lavoro inglese come lavapiatti, fai quello, ti pagano quel poco senza contributi e ti licenziano da un momento all'altro. Quindi, all'estero dipende anche da dove entri, sul mercato del lavoro. Se vai a fare l'ingegnere chimico a Losanna, sei ben pagato e sei trattato bene, ma se vai a fare la donna delle pulizie e sei anche un'immigrata, le condizioni di lavoro rimangono pessime".

A proposito di 'lavoro gratuito', il 9 gennaio scorso è uscito un bando, pubblicato dall'Università di Bologna, per un lavoro volontario come assistente bibliotecario: è mai possibile che proprio l'università, che dovrebbe essere garante per la formazione di senso civico, divenga anch'essa l'ennesimo strumento per sperimentare politiche 'dall'alto'?
"Sì, purtroppo. Si è pensato che avere una riga sul curriculum come assistente bibliotecario a gratis valesse più di una persona con dei diritti e una dignità. Questo vale sia per il pubblico, sia per il privato, ovviamente. Ma farlo nel pubblico è addirittura peggio. Soprattutto, questa cosa ci dice molto sull'idea che il lavoro non ci sia, quando in verità non lo vogliono pagare. Da un lato, il lavoro gratuito viene posto come ricatto: se non accetti e decidi di rimanere a casa, sei un 'bamboccione' ed è colpa tua. In altre situazioni, non viene neanche chiarito che il lavoro che si sta offrendo è gratuito. Ed esiste anche una forma di 'narrazione', di retorica, che colpevolizza chi non accetta di doversi svegliare tutte le mattine alle 7 e andare a lavorare a gratis, per poi tornare a casa e non potersi neanche comprare mezzo chilo di pasta. Dall'altro lato, c'è uno Stato che, quantomeno, dovrebbe mettere dei 'paletti', dei limiti, rispetto a quello che le imprese private possono fare. Ma ciò non avviene: lo Stato viene governato in modo aziendalistico, avallando il modello che le imprese vorrebbero. Quindi, ecco il lavoro gratuito, 'a cottimo', in somministrazione e i voucher".

Lei ha spesso dichiarato come l'uso che si fa dei social network corrisponda a un vero e proprio lavoro di produzione di dati: ci può spiegare meglio questo concetto?
"Si è creato un nuovo modello di produzione di valore, tramite i social e l'economia digitale, molto complessa: gli utilizzatori delle piattaforme producono dati che hanno un valore. Essendo un'azienda privata, Google può vendere i dati raccolti, per esempio al ministero della Salute, proponendoli come "utenti che parlano di malattie e di cancro". Oppure, alle agenzie di pubblicità o ad altre imprese. Ciò che noi vediamo o pensiamo che Facebook faccia da solo, attraverso l'automazione e la digitalizzazione, non è esattamente quel che avviene veramente: da un lato, dietro Facebook ci sono migliaia di persone che, ogni giorno, inseriscono dei 'tag' che operano una mediazione sui commenti e così via. Lì dietro, ci sono persone pagate 'a cottimo', o a numero di 'hashtag' inseriti, oppure ancora come numero di commenti moderati. Ci sono, dunque, vari 'pezzi' della produzione di valore. Dall'altro lato, è vero che la produzione di informazioni ha un valore che può essere considerato di mercato o di scambio, nella pubblicità o in altri settori".

In una situazione politica sempre più incerta, come si dovrebbe parlare di lavoro?
"Dipende da chi parla di lavoro, perché se continua a farlo Confindustria, allora va bene così. Nel senso che loro hanno sempre chiesto e hanno saputo essere influenti per avere più flessibilità, maggiori profitti e più poteri di ricattabilità. E li hanno ottenuti. Il vero problema, invece, è come noi dovremmo parlare di lavoro, cominciando a smontare tutte le falsità che ci hanno venduto in questi anni. Non è vero che la flessibilità crea più competitività, come dimostrano gli studi scientifici, accademici e la realtà stessa. Così come bisognerebbe cominciare a distinguere cosa è verità e cosa è 'fake' o propaganda politica. Al governo si può cominciare a chiedere di reintrodurre la causale sul tempo determinato e altre piccole cose che non sono affatto una rivoluzione, ma che comincerebbero a far respirare la gente. Non ci possono essere, nello stesso luogo di lavoro, due colleghi che svolgono la stessa mansione, ma che hanno contratti con regimi salariali diversi. Questa cosa va abolita o, perlomeno, si deve cominciare a dire che le persone devono essere trattate allo stesso modo quando svolgono le stesse funzioni. Ci sono tantissime cose che si possono proporre, a cominciare dal fatto che il welfare possa essere privatizzato dal punto di vista aziendale. Il welfare è una cosa che riguarda tutti i cittadini, a prescindere che siano occupati o disoccupati. La lista della spesa è lunga e ha un'unica idea da seguire: tutelare la parte più debole in un rapporto di lavoro, i lavoratori. Purtroppo, negli ultimi venti anni abbiamo vissuto il capovolgimento di questo punto di vista".


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Lorena - bologna - Mail - martedi 21 agosto 2018 14.57
...inevitabilmente l'argomento rimanda a considerazioni di etica e responsabilita'.
da sempre le regole le detta il potere economico, chi ha bisogno di esercitare il potere e' sempre la parte eticamente e moralmente piu' debole che ha paura e la paura in genere si manifesta sempre con il bisogno di controllo.
Alla base di tutte le dinamiche umane e delle maggior parte delle ingiustizie sta sempre una necessita' di controllo.
E' così ovvio che si debba ripensare in chiave etica, ai rapporti tra chi crea lavoro e chi contribuisce alla realizzazione dei vari sogni imprenditoriali.
Chi decide di realizzarsi attraverso un'impresa che deve dare profitto, non lo deve giustificare nell'instaurare rapporti ricattatori o peggio di disconoscimento della dignita' delle persone.
Chi contribuisce alla produzione e alla tenuta di un'impresa e' egualmente indispensabile di chi ha creato il posto di lavoro.
Tutta l'aberrazione che si e' venuta a creare in questi anni, con lo smantellamento dei diritti fondamentali del lavoro, deriva proprio da questa concezione distorta del potere.
L' uomo che non e' dententore di potere economico diventa ricattabile da chi possiede il capitale, il lavoratore e' considerato mero strumento finalizzato a produrre il "mio" profitto.
Confindustria con le sue logiche, deve uscire dal "loop" mentale che se si crea poca offerta di lavoro, rispetto alla domanda, malpagata e mal regolamentata, il potere dell'imprenditore è garantito e pure il profitto aumentato.
Se chi dovrebbe acquistare il mio prodotto, non possiede capacita' economica per poterlo fare, e' cosi' ovvio che la "mia" impresa sara' destinata a non funzionare.
Non sara' certo calpestando la dignita' del lavoro a farne diminuirne il costo e a garantire la tenuta dell'impresa.
Non occorre essere degli economisti per comprendere l' ovvieta' della situazione.
Lo squilibrio tra il potere di acquisto dei lavoratori e la pretesa di maggior produttivita' e guadagno dall'altra e' destinato a peggiorare sempre di piu', occorre come al solito una visione piu' ampia delle cose, vedere in prospettiva, riportando al centro l'uomo il suo futuro e non il profitto immediato.

Non possiamo essere o diventare tutti imprenditori, del resto non e' nemmeno necessario, per una buona economia, esiste solo una strada, contribuire all'equilibrio delle forze in gioco.
Questa e' una responsabilita' di tutti, soprattutto della parte piu' debole che deve fare tutto il possibile per lottare smascherando le false logiche della paura e dell'ineluttabilita' delle circostanze.

Occorre creare/ripristinare il rispetto di quelle regole fondamentali per una civilta' eticamente sana e questo e' e deve diventare la priorita' di chi mi rappresenta al governo.

Diceva qualcuno:
" se l'ape soffre, soffrira' prima o poi tutto l'alveare"





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