Giuseppe LorinÈ per il maggiore scrittore italiano, Dante Maffia, che l’Italia attende quell’aura di riconoscimento nobile, rinnovatrice della nostra cultura, ormai sopita da tempo. Se per Giorgio De Chirico si parlò di ‘pictor optimus’, per Dante Maffia la definizione è, senza ombra di dubbio, ‘poeta doctus’, come da più parti viene nominato, riconosciuto e ricordato. Le innumerevoli traduzioni all’estero dei suoi libri e le tesi di Laurea assegnate dai docenti stranieri ai propri ‘candidati’ nelle più prestigiose Università del mondo sulla produzione di questo nostro autore non fanno altro che confermare e avvalorare l’alto significato culturale che si respira attraverso i suoi scritti di narrativa, poesia, saggistica e critica. Originario di Roseto Capo Spulico, nel centro dell’Alto Jonio cosentino, si è prodigato per l’insegnamento e la ricerca presso la cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Salerno, diretta da Luigi Reina. Dante è nato in Calabria, il 17 gennaio 1946. Il padre, Salvatore, commerciante di Roseto Capo Spulico, scelse il nome ‘Dante’ per il suo quarto figlio - dopo Luigi, Antonio e Filomena - in onore dell’autore della ‘Divina Commedia’, augurandosi che diventasse uno scrittore. La madre, Rosina Tucci, fu colpita da una grave malattia che la costrinse su una sedia a rotelle. Fin da ragazzo, Dante è stato affascinato dai libri e dalle ‘pommedìje’, i racconti orali ascoltati con interesse e fantasia accanto al caminetto. Racconta lui stesso, in una poesia scritta a tredici anni: “Vado la sera / di casa in casa / ad ascoltare le fiabe / che mi raccontano i vecchi /  focolare / come un mendico / che ha bisogno di un pezzo di pane”. Trasferitosi a Roma dalla Calabria, per mantenersi agli studi universitari si è adattato a qualsiasi lavoro fortuitamente trovato. Appena giunto nella capitale ha abitato in via Silvio Pellico (quartiere Prati), poi sulla Tiburtina, poi in via Mantova (Porta Pia), qualche tempo a largo Preneste, poi a via Palestro (Stazione Termini), in seguito a piazza Caduti della Montagnola e, attualmente, risiede in via Adolfo Ravà, proseguimento di Via Benedetto Croce. Si è laureato con una tesi sulla ‘Presenza del Verga nella narrativa calabrese’. Dante Maffia ha approfondito il suo interesse per la scrittura attraverso la lettura delle opere, sia degli scrittori italiani, sia degli autori di altri Paesi. Dotato di una prodigiosa memoria come Tommaso Campanella, filosofo, teologo, poeta e frate domenicano da lui raccontato ne ‘Il romanzo di Tommaso Campanella’ (edito da Rubbettino) riesce puntualmente a suscitare interesse e riflessione per i dotti e appropriati riferimenti durante le sue frequenti conferenze, tenute da anni nelle maggiori Università del mondo. Leonardo Sciascia così rassicurava il giovane Dante Maffia: “Io sono convinto che tu sei uno dei grandi poeti di cui si parlerà molto; nelle tue parole c’è la carne viva di un Sud che non vuole restare nel guado e vuole liberarsi dalle ombre”. Maffia è stato anche fondatore di riviste famose come ‘Il Policordo’, ‘Poetica’ e ‘Polimnia’. Intensa la sua attività critica sulle maggiori riviste italiane, tra cui ‘Nuova Antologia’, ‘Il Veltro’, ‘Il Belli’, ‘La Rassegna Salentina’, ‘Otto/Novecento’ e tante altre. È stato corrispondente de ‘La Nacion’ di Buenos Aires. Per anni ha curato la rubrica dei libri per Raidue ed è redattore degli ‘Studi di italianistica nell’Africa australe’. La sua poesia venne segnalata agli esordi da Aldo Palazzeschi, che le diede voce nella prefazione della sua prima silloge. Come narratore ebbe il plauso da Giampaolo Rugarli. Hanno scritto di lui figure eminenti della letteratura italiana come Pasolini, Calvino, Bufalino, Sciascia, Caproni, De Mauro, Magris, Zanzotto, Luzi, Sansone, Sapegno, Maria Luisa Spaziani, Dacia Maraini, Corrado Calabrò, Alberto Moravia, Giuliano Manacorda e tantissimi altri. E ancora, il giudizio di Claudio Magris: “Capace di nuda essenzialità e di freschezza primordiale, Maffia è poeta doctus: la sua opera comprende la lirica come il romanzo, la saggistica e la critica”. E quello di Norberto Bobbio: “Il romanzo di Tommaso Campanella, scritto da Dante Maffia, è opera in cui l’erudizione, la cultura e la filosofia hanno saputo sciogliersi in racconto lucido e compatto”. Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel marzo del 2004 lo ha insignito della medaglia d’oro alla cultura insieme al violinista Uto Ughi, a Giuseppe Tornatore, a Ermanno Olmi, a Raffaele La Capria, al critico d’arte Achille Bonito Oliva e al ‘diffusore’ di cultura Piero Angela. Pluripremiato, a Dante Maffia sono stati inoltre assegnati prestigiosi riconoscimenti, tra i quali: ‘Martina Franca’, ‘Palmi’, ‘Alfonso Gatto’, ‘Tarquinia-Cardarelli’, 'Calliope', 'Città di Firenze', 'Città di Venezia', 'Trastevere', ‘Pino d’Oro’, ‘Brutium’, ‘Rhegium Julii’, ‘Viareggio’, ‘Stresa’. Ricchissima la sua produzione letteraria, tra cui: ‘San Bettino Craxi e altri racconti’ (Edilet); ‘Sette donne per fare un uomo intero’ (Città del sole Edizioni); ‘I racconti del Ciuto’ (Kaleidon Edizioni); ‘La donna che parlava ai libri’ (Edilet); ‘Milano non esiste’ (Hacca Edizioni); ‘Il poeta e lo spazzino’ (Ugo Mursia Editore), ‘Il romanzo di Tommaso Campanella’ (Rubbettino). E ancora, le sillogi di alta poesia: ‘La strada sconnessa’ (Passigli); ‘Abitare la cecità’ (Lepisma); ‘Sbarco clandestino’ (Tracce Edizioni); ‘Poesie torinesi’ (Lepisma); ‘Al macero dell’invisibile’ (Passigli); ‘Il corpo della parola’ (LietoColle); ‘Canto dell’usignolo e della rana’ (Libroitaliano); ‘Ultimi versi d’amore’ (Lepisma); ‘Papaciòmme’ (Marsilio Editore) e tantissime altre. Si ricordino, infine, le moltissime opere di saggistica e curatele, tra le quali: ‘Nel mondo di Antonio Tabucchi’ (Lepisma); ‘Risalendo il Danubio: scritti su Claudio Magris’ (Lepisma); ‘Voci dalla cultura calabrese’ (Paideia) e ‘Narratori calabresi’ (Abramo Editore).

Dante Maffia, le donne sono state spesso al centro dei suoi racconti: nei suoi personaggi qual’è l’elemento più evidente del loro riscatto sociale e del destino di nascita in una determinata terra?
“D’impatto, direi la consapevolezza. Credo che prima ancora di progettare, reagire o agire ci debba essere la consapevolezza di far parte di una determinata tradizione, di una certa Storia. Soltanto prendendo coscienza di quello che siamo stati e di quello che siamo poi potremo concepire un progetto, aderire a un processo di riscossa e di riscatto. Se si fa caso, però, narrando non evidenzio mai questo pensiero: c’è il rischio di diventare ‘sbandieratore’ di una teoria, di un pensiero astratto. Cerco dunque la via indiretta, per restare narratore e non ‘scantonare’ mai nella sociologia o nell’antropologia. Uno scrittore non può e non deve fare politica in maniera diretta: sciuperebbe altrimenti le ragioni etiche ed estetiche del suo lavoro, chiuderebbe le tensioni ideali nel recinto di un programma, di una stagione. La donna dei miei racconti, invece, non è mai la stessa, ma è sempre se stessa, sia che si tratti di una intellettuale, di una serva, di una sartina, di una impiegata o di una principessa. Questa libertà che le attribuisco, al di là del suo stato sociale, le permette di esprimersi con le sue ragioni interiori fino ad affermarle, a dare loro spazio in ogni ambiente. Ecco: la donna dei miei racconti è soprattutto libera in grazia della sua autenticità. Pensarti è come entrare in un giardino incantato / dove la luce fa impazzire i colori. Sento che il tempo passa e tu non mi hai dato / ancora che attese e furori. Non fare che tutto si dissolva in una tempesta di spine / in una bolla di sapone. Fa’ che i nostri corpi diventino una festa / fa’ che i tuoi baci siano lieti come un aquilone…”.

Nello scrivere attingendo dal quotidiano, o da storie vere tratte dalla cronaca oppure ancora dal sociale, si pongono preoccupazioni particolari che, in qualche modo, inducono lo scrittore a una scelta precisa di narrazione?
“Innanzitutto, se l’accensione è arrivata da un fatto di cronaca, pulire il fatto dalla contingenza, portarlo su un piano che esula dal dato temporale, dalla sua specificità e riporlo nell’alveo della creatività, che ha sempre legami con l’universale. I fatti, pur variando, finiscono per rassomigliarsi: quel che non deve rassomigliare a un altro sono il timbro, la voce, il tono, la qualità linguistica ed espressiva. A migliaia hanno cantato la luna, ma Leopardi l’ha fatto in maniera diversa; a migliaia hanno descritto un omicidio, ma nessuno mai l’ha fatto sentire con il senso d’ineluttabilità di Leone Tolstoi in ‘Suonata a Kreutzer’. Comunque, in genere io comincio a scrivere sapendo esattamente quel che voglio raccontare e come lo voglio raccontare, ma spesso le pagine prendono una loro ‘piega’, pretendono una loro logica e io, sinceramente, non mi sento mai di tradirla. E così, seguo il dettato ‘occulto’ che mi spinge ad andare in un verso anziché in un altro: l’importante è che la ‘coerenza stilistica’, ideale e di contenuto, sia evidente all’interno del racconto o del romanzo. Molti scrittori che sono rimasti rigidi al postulato assunto in partenza, magari bravissimi come Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Alberto Arbasino o Franco Cordelli, per fare soltanto qualche nome, mostrano di avere ‘svuotato’ gli scritti del gesto dell’anima. Impeccabili nella struttura, esatti negli sviluppi narrativi e, tuttavia, senza passione. Spesso un distillato di alchimie da fare invidia a qualsiasi teorico della letteratura. Narrare è anche compromettersi, perdersi con i propri protagonisti, ritrovarsi in realtà diverse, in condizioni diverse. Scrivere è seguire la ‘tabellina pitagorica’ tradendola di continuo, sbagliandola di continuo…”.

Il viaggio è il punto nodale delle sue indagini di scrittore: che rapporto mantiene con questo mezzo di conoscenza?
“Un rapporto totale. Del resto, tutta la vita è un viaggiare, magari intorno alla propria stanza, come diceva De Maistre, ma tutta la letteratura è un viaggio, dentro l’uomo e fuori dall’uomo. Il viaggio permette il confronto (dei cibi, dei sapori, degli odori, delle mentalità, delle abitudini, delle culture, delle tradizioni e così via) con la diversità, aumenta la curiosità della conoscenza, mette in crisi, spinge e forzare l’andatura, ad adattarsi, a modificarsi. Ci sono tanti modi di viaggiare, naturalmente. C’è perfino chi, come succede ad alcuni miei personaggi, arrivato in un posto in aereo, poi resta tutto il tempo del viaggio in albergo. C’è “il viaggiatore curioso delle cose insignificanti”; c’è il collezionista di paesaggi, di ‘ninnoli’; c’è il viaggiatore assatanato di musei; quello invaghito del mare; quello che viaggia soltanto per inquietudine e non gli importa dove va; quello ‘pignolo’, che dorme con la cartina accanto al cuscino. Si racconta che Vittorio Alfieri andò in carrozza fino in Inghilterra senza mai mettere piede a terra. Io sono imprevedibile con me stesso: ho viaggiato per l’Europa in macchina, migliaia e migliaia di chilometri ogni volta con delle mete, ma facendomi trasportare dall’estro, da un’indicazione casuale, mangiando i cibi del posto, adeguandomi alle abitudini degli indigeni, dormendo in hotel di lusso, in pensioni sporche, in automobile. Non ho voluto mai le guide, se non le occasionali ragazze che si improvvisavano per il bisogno: le guide mi annoiano e non mi danno la possibilità di seguire il mio estro. Se le avessi seguite non avrei potuto scrivere né ‘Passeggiate romane’, né ‘Diario Andaluz’, né ‘Poesie torinesi’, né ‘Viaggio a Francoforte’, né ‘Il poeta e lo spazzino’. Mi pare dunque evidente che la mia vocazione a essere nomade sia il perno su cui ruota la mia attività di scrittore. Del resto, da Omero a Dante, da Dante a Milton, da Milton a Borges, da Borges a Canetti è un continuo viaggiare per mondi sconosciuti, anche quando hanno nomi precisi. I luoghi della poesia si connotano in maniera diversa, non restano tali e quali alle cartoline illustrate. E sono comunque luoghi popolati da misteriose figure umane, che hanno la magia della diversità e della novità ricche di suggestioni infinite. Da ragazzo sapete qual’era la mia poesia preferita? Cominciava così: Il viaggiare sarebbe il mio diletto / ma costa molto, per economia / talora uso prendere un diretto / agli sportelli della fantasia”.

Dolcezze ed efferatezze sono troppo spesso le maschere che vengono usate dall’essere umano in genere: secondo lei si tratta di due immaginazioni, due modi di stare al mondo?
“Il problema venuto a crearsi di recente è che spessissimo dolcezze ed efferatezze sono diventate un tutt’uno. E più che maschere sono ‘bandiere’ di una medesima medaglia, che cancella l’immaginazione e pone su un piano paritario il bene e il male. Non so di chi possa essere la colpa di una tale mistificazione, di una tale confusione. So, però, che molti delitti sono il frutto di questa ambiguità. Nei rapporti amorosi - stando a quel che leggo, sento e vedo - sono state bandite le carezze, la tenerezza, l’attesa, quella sottile conoscenza dei due esseri che avveniva coi polpastrelli, con gli sguardi, con lo scambio affannato dei fiati. La convulsione scoppiava piano piano ed era ‘pienezza d’incontro’, volo, gioia. Dico ciò, proprio perché fermamente convinto che dolcezze ed efferatezze siano ‘poli opposti’, che non dovrebbero incontrarsi mai. Vedete, proprio questa mattina ricordavo a due amici, insieme ai quali ho fatto colazione, la scommessa fatta sul lungomare di Trieste, tra la bora e il sole, per vedere che riusciva a spogliare una bella ‘mula’ che stava passando. Stabilito il tempo e fatto testa e croce con una monetina toccò prima alla bora. In pochi minuti aprì con violenza tutta la sua rabbiosa forza. La ragazza si chiuse nel suo cappotto e, nonostante fosse ‘sbattuta’ sul marciapiedi, non ebbe che qualche strappo. Insomma, non si spogliò. Ma lo fece non appena il sole cominciò a sfiorarla, ad accarezzarla: la dolcezza vince sempre; l’efferatezza è negazione della vita”.

Le donne e gli uomini della Calabria rispettano ancora l’omertà? E come mai tante persone rinunciano a parlare e a denunciare le violenze subite?

“Un tempo ho creduto che a essere omertosi fossero soltanto i miei corregionali e i siciliani. Poi ho visto che l’omertà è il prodotto più diffuso e raffinato di tutti gli italiani, soprattutto dei milanesi, dei lombardi in generale. In Lombardia, le organizzazioni malavitose prolificano perché c’è la ricchezza. Intendiamoci: il fatto che l’omertà  sia diventata lo sport preferito di tutta l’Italia e, soprattutto, della Lombardia, non diminuisce il disagio che provo quando penso alla ‘ndrangheta. Quando ero ragazzo, le violenze subite si tenevano segrete: era una cultura imperante. Oggi le cose sono cambiate, sia perché non è più soltanto un fenomeno della Calabria, sia perché l’acculturazione comincia a dare coraggio a molti. Tanto è vero che ci sono imprenditori che si oppongono ai soprusi e alle violenze. E ci sono ragazze che, se subiscono uno stupro, vanno a denunciarlo. Ovviamente non tutti, ma un primo ‘germoglio’ si comincia a vedere. I mutamenti etici, di valori, di giustizia non avvengono repentinamente: si tratta di crescita. E la crescita è sempre lenta, ostacolata, deviata. Per capirne le ragioni contorte, si pensi al fenomeno della infibulazione nel mondo africano: le donne che ne sono state risparmiate dalle circostanze della vita spesso ricorrono personalmente a quella dannosa e stupida pratica. Le culture acquisite generano mostruosità: non sono facili da sradicare. La Calabria ha cominciato a capire che ci vuole una svolta seria. E che questa deve cominciare sempre da quella che all’inizio ho chiamato la consapevolezza del sé e del mondo…”.

Se si pensa ai nostri letterati che, già da diverso tempo, sono in lizza nel mondo dei portali delle ‘superscommesse’ - come per esempio Ladbrokes.it - per i premi Nobel per la Letteratura, ricordiamo Dacia Maraini, Umberto Eco, Andrea Camilleri: come si sente un ‘candidato’ accanto a questi nomi?
“Non ci ho mai pensato. Ho interpretato il gesto fatto dalla Regione Calabria, dal Consiglio regionale all’unanimità, come un atto d’amore, il ribaltamento del ‘nemo propheta in patria’ senza montarmi la testa e senza velleità. I tre nomi fatti li conosco abbastanza bene per averli letti quasi interamente. Sono scrittori di classe, ai quali ho anche dedicato molte pagine critiche. Devo dire, tuttavia, che non mi sento ‘schiacciato’ dal loro successo: io vivo quasi ai bordi del mondo letterario. E vivo la letteratura stessa come religione, in quanto fede nella quale trovo la mia compiutezza d’uomo, la mia gioia e la mia postura. Il resto appartiene all’effimero, condizione che aborro, che sento verminosa e fetida”.

Una sua riflessione sul premio Nobel?
“Una magnifica istituzione, che ha permesso - e resto nel campo letterario - di far conoscere al mondo scrittori e poeti che, altrimenti, sarebbero rimasti ‘locali’, privandoci della loro voce straordinaria: Singer, Pamuk, Canetti, Brodskij, Milosc, e, più indietro negli anni, Hamsun, Bunin, Quasimodo, Deledda. Nobel ha saputo guardare al futuro e, generosamente, ha voluto dare agli uomini uno strumento universale per farci entrare nella diversità dei mondi altrui: una lezione etica altissima, un invito perentorio alla crescita comune dei popoli”.

Le donne sono meno portate alla violenza degli uomini, ma alcune sono ricordate dalla Storia come ‘banditesse’ o ‘sanguinarie’, vittime e carnefici in quanto sottile margine d’equilibrio: di chi è la colpa, forse di una cultura sbagliata?
“Non so se davvero le donne siano meno portate degli uomini alla violenza. Si dice, fin dall’antichità, che le guerre sono sempre scoppiate per colpa del ‘bel sesso’. In tutti i modi guai a portare una donna alla violenza: non ha mezzi termini. Abbiamo avuto le ‘banditesse’ e le ‘sanguinarie’, ma non credo sia avvenuto a causa di una cultura ‘sbagliata’: credo più alle circostanze. Forse, questo mio credere proviene dal fatto che nelle azioni quotidiane, nel fare quotidiano, in cui non escludo grandezze e pochezze umane, io non faccio distinzioni di sesso. Queste le faccio soltanto ‘a letto’, perciò la gestione dei poteri non la interpreto in base alla femminilità o alla mascolinità. L’espressione ‘cultura sbagliata’, inoltre, mi mette i brividi addosso: una cultura, se è tale, non è mai ‘sbagliata’, non dovrebbe esserlo, ma comprendo il senso che avete voluto darle…”.

Isabella Morra di Valsinni, in Basilicata, al confine con la terra di Calabria, con sole 13 rime, tra sonetti e canzoni, è arrivata fino a noi, uomini del terzo millennio: possiamo chiederle una riflessione tra la quantità di sillogi pubblicate da un qualsiasi autore di oggi e quella delle opere ricordate per chi dice di chiamarsi poeta?
“E’ un’antica questione, che non sarà mai risolta: “Scrittori stitici”, si chiedeva Aldo Palazzeschi, o “scrittori prolifici”? Perché un nome dell’antichità arriva fino a noi e oltre, mentre un  nome che ha occupato le pagine dei giornali nell’ultimo mezzo secolo sparisce dalle cronache e dalla memoria collettiva? Non sono uno specialista della comunicazione: penso, semplicemente, che alcuni si incidono nella ‘psiche’ per ragioni che non capiremo mai, mentre altri spariscono, si cancellano e sempre per ragioni oscure. Isabella Morra e oggi! Ho scritto un libro sulla Morra (un romanzo teatrale ancora inedito) e le ho dedicato un saggio molto tempo addietro. Conosco bene la sua storia e la sua poesia. La vicenda è romanzesca: la poesia si eleva rispetto alla maniera dell’epoca e anche rispetto a quella del padre, del fratello e del suo maestro ideale. Comunque, la Morra aveva scritto centinaia e centinaia di canzoni e di sonetti, direi una ‘marea’ distrutta dagli zii e dai fratelli subito dopo averla uccisa. Ma non è neanche questo il problema posto: la questione è se chi, oggi, ha dato alle stampe una valanga di versi (come il sottoscritto, senza andare lontano) resterà, oppure se resteranno i poeti che hanno scritto pochissimo. Io credo che non resterà nessuno. Ciò per ragioni di mutamenti straordinari già in atto e non perché la qualità diminuisca quando c’è la quantità, o viceversa. Utilizzando ancora (per quanto ancora?) i parametri di giudizio a cui ci siamo assuefatti, Tolstòj, Balzac, Simenon, Dostoevskij, Milton e Tasso sono poeticamente e letterariamente inferiori a Sandro Penna, a Tomasi di Lampedusa, insomma a chi ha scritto un piccolo ‘mannello’ di versi o un solo romanzo? Che razza di giudizio sarebbe quello espresso sulla base del ‘poco’ o del ‘molto’ e non del ‘bello’ e del ‘grande’, del ‘profondo’ e dello ‘straordinario’? “Leggende metropolitane”, come ripeteva Palazzeschi, “di stitici d’anima”. Che poi possa essere amata un’opera anziché un’altra, col passare del tempo, può anche accadere. Io racconto sempre di un’intervista di Nico Orengo a Liala sulla ‘Stampa’ di Torino. Alla domanda: “Lei non era riuscita a scrivere il capolavoro perché aveva prodotto troppo”, Liala rispose candida:“Non ne ero capace: più di me ha scritto, per esempio, Dostoevskij e non mi pare che non abbia realizzato dei capolavori…”.

Attualmente, lei sta scrivendo il suo prossimo romanzo nel ricordo della Calabria: può darci qualche anticipazione?
“Sto lavorando, contemporaneamente, a un saggio filosofico sull’arte di perdersi, a parecchi romanzi, a molti racconti e ad alcuni monologhi teatrali. Scrivo e così vivo: vivo scrivendo. No, non è un gioco di parole, ma una sacrosanta verità. E dunque, se uno sta attaccato alla scrivania dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, produce. Sì: ci sono anche un paio di romanzi  ambientati in Calabria, ma è meglio non dare anticipazioni, anche perché, come ho detto prima, poi non starò nel solco prestabilito, ma mi farò guidare dall’estro e dalla necessità logica del testo. La Calabria è uno dei miei serbatoi prediletti: ha tanti volti, tante sfaccettature, tanti semi e tante possibilità che davvero è fonte inesauribile. La Calabria che lo scirocco sferza / non so se venendo o andando verso il mare. La campagna ora arsa ora verde / con pompamagna di vigneti e ulivi / è sempre qui, ingombra la mia anima, la tesse e la distesse nei giulivi / pomeriggi d’estate, negli inverni amari e tristi d’ore interminabili. La Calabria che pretende amore - e non sa bene se sia donna o falco - io la sradico, la esalto, la sotterro, la benedico e maledico e poi / la invoco: madre, tomba, cielo / condanna, luce che non tramonta mai / casa aperta sul mare / mio rifugio eterno”.

Che ruolo ha, oggi, la famiglia nell’educazione dei figli: qual’è l’importanza dei padri, dei nonni e delle istituzioni?
“Un ruolo estremamente importante, direi capitale, è quello della famiglia, perché poi il ragazzo si troverà presto in balia della tecnologia, che sempre più invade gli spazi. Certo, il bambino deve uscire dall’uscio di casa e avviarsi per il mondo. Ma prima deve aver sentito fortemente i legami d’affetto, il senso di protezione, la legittimazione del suo comportamento. Le istituzioni, purtroppo, non sono più il proseguimento, lo sviluppo e il radicamento delle regole della famiglia, dei padri e dei nonni, sono, anzi, discordanti e, spesso, contrastanti. Dunque, bisogna riuscire a dare ai figli, più che delle regole, un metodo che possa diventare via via critico e che permetta al ragazzo di valutare e di decidere. Un rischio, che tuttavia va affrontato, se non vogliamo far crescere una generazione di ‘manichini’, di esseri ‘vuoti’, soltanto meccanizzati: senz’anima, senza poesia, senza sogni, senza ideali, senza umanità”.

Fissare delle regole
(per mia figlia)

Fissare delle regole per quei tuoi gesti morbinosi / è come aprirsi a un torbido mattino di sole / senza luce.
Come dirtelo, come fartelo capire / l’ignoto ordine della fatalità. Potenza e atto / causa ed effetto / leggi dell’universo o solo falsità?
Come accarezzare il tuo imbronciato / sguardo strombato verso la malinconia / come toccare?
Come farti sentire? La durezza della mia fragilità?





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Roberto - Roma - Mail - domenica 15 giugno 2014 23.12
Servizio molto interessante e di qualità: grazie.


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