Marta De LucaIl mondo artistico italiano pullula di giovani emergenti e di realtà artistiche interessanti e molto promettenti. Eppure, il panorama ‘generalista’ imposto dalla televisione continua a perpetuare sempre gli stessi volti e i soliti noti, che spesso risultano, anche sotto il profilo dei dati auditel, già da tempo aver saturato i gusti del pubblico. Dive e ‘divette’ continuano a imperversare sui nostri teleschermi, fornendo un’immagine di scarsissima qualità all’intero mondo della produzione artistica. Anche il settore dei quiz televisivi mostra il fianco ad ampie critiche. Non si punta più sull’approfondimento monografico, come ai tempi di ‘Lascia o raddoppia’, bensì sul puro nozionismo o la piatta abilità analogica. Eppure, il Roma Fringe Festival del 2013, svoltosi nella stagione appena conclusa nella capitale, oltre ad aver messo in evidenza un ambiente, quello teatrale, ingiustamente dato per ‘morto’, ha proposto una ricca serie di giovani attori preparati e all’avanguardia, freschi di studi presso le migliori accademie di arte drammatica del nostro Paese e già ricchissimi di esperienze artistiche in tutta Europa. A dimostrazione di ciò, abbiamo deciso di presentare, a titolo di approfondimento, tutte le recensioni redatte dalla nostra redazione nel corso della manifestazione svoltasi quest’estate nella capitale, al fine di dimostrare l’alta qualità artistica degli spettacoli proposti al Roma Fringe Festival 2013 e la grande capacità di impegno e di elaborazione culturale delle nostre generazioni più giovani. Buona lettura.

Ri-Evolution
La rivoluzione di Eva rivendica una 'risposta di senso' nei confronti di un certo mondo femminile che, in virtù di una sicurezza economica, diventa oggetto di consumo. C'è chi sta sotto una scrivania pur di ottenere una sedia (definizione intesa come dispregiativo di poltrona, in quanto totalmente immeritata) o una vita comoda e agiata. Modelli di vita che danno molto meno di ciò che promettono, a sentire le due protagoniste: un decalogo di regole da rispettare che riflette la 'ferocia' di un mondo maschile che ama comprare e consumare corpi, piuttosto che confrontarsi con cervelli e anime, o il timore costante di essere sostituite da ‘carne fresca’ o dal 'nuovo che avanza' (concorrenza alquanto agguerrita). In un intreccio di dialoghi ben congegnato, efficacemente diretto e ottimamente interpretato da Beatrice Fedi e Roberta Mattei, ‘Ri-Evolution’ non è un attacco all'uomo come facilmente si potrebbe pensare, bensì alla donna. Ne è conferma la fugace apparizione maschile sul palco che si esprime in un'unica azione: la soddisfazione sessuale, unico fine del rapporto uomo/donna. Un personaggio maschile anonimo in quanto stereotipo dell’intera categoria di uomini che si trasforma, in ultimo, nella Eva primordiale quale metafora di un potere che è espressione di una categoria di donne 'svenduta', che ha tolto dignità a tutto il genere femminile. Necessario. Con Beatrice Fedi, Francesca Ceccarelli, Roberta Mattei. Regia di Roberto Di Maio. Scritto da Paolo Di Maio. Videoproiezioni di Federico Spaziani. Musiche: Ato. Costumi: Fabiana Di Vito.
(Recensione di Francesca Buffo)

Ballarò
La storica piazzetta palermitana è crocevia di commerci, traffici e personaggi maestri nell'arte di arrangiarsi. Ogni fatto può essere trasformato in 'storia', in un sistema dove la storia è sempre uguale a se stessa. Così, con la leggerezza del cantastorie, vengono narrati episodi di mafia a un pubblico che 'sa' ma non vuole sapere, a una Sicilia 'corrotta' che si lascia corrompere, dove il ‘pizzo’ è, per tradizione,  'offrire da bere agli amici' al fine di festeggiare il proprio successo. Una memoria storica edulcorata, che dimentica persino le vite civili sacrificate durante i bombardamenti degli alleati americani. La narrazione, un po' troppo 'cantata', indebolisce il ritmo drammaturgico. Si sorride, ma il retrogusto è amaro. Di Antonio Giordano, con Giancarlo Latina e Luigi Maria Rausa.
(Recensione di Francesca Buffo)


Monodia

La donna del sud, che resta ‘figlia’ e che, di fronte alle imposizioni di un sistema maschilista e violento, si rifugia nell'io bambino. In un lungo monologo, non sempre efficace, Raffaella D'Angelo alterna cruda lucidità a momenti di 'grottesco' infantilismo. Un delirio che sfugge a una realtà tragicamente predefinita dal contesto sociale, con un gesto estremo: l'omicidio. Le mille sfaccettature della protagonista si disperdono in un'interpretazione un po' monocorde. Prodotto da Artemysia Teatro. Testo e interpretazione di Raffaella D'Angelo.
(Recensione di Francesca Buffo)

Walking no-tav
Un ragazzo di 26 anni, un giovane come tanti che, schiavo dei perbenismi e dei tabù familiari di impronta borghese, osserva la società in cui vive e sente che è giunto il momento di agire, di fare qualcosa di grande e di utile, di provare a cambiare il corso degli eventi imposti da un potere ‘cieco’. La rappresentazione, accompagnata dai disegni dal vivo di Petra Trombini, narra le ore precedenti a una mobilitazione ‘No Tav’ in Val di Susa e si snoda a partire dalle emozioni, dai pensieri e dai timori del giovane protagonista (Dario Muratore) che, inesperto e, soprattutto, impaurito, con il passare delle ore e l’avvicinarsi al momento della ‘lotta’, inizia a prendere coscienza che ciò che sta vivendo non è un sogno: è realtà. Nonostante l’aria sia tesa e densa di ansia e preoccupazione, la voglia di disturbo, di insurrezione ideologica e il desiderio dello scontro sono più forti e crescono sempre di più. In un Paese in cui ogni forma di responsabilità è depotenziata e in una comunità che “vuole il calore, ma si accontenta del tiepido”, il ‘neo’ militante si convince che lo scuotimento etico sia necessario. E quando finalmente arriva l’attimo della rivolta e l’adrenalina sale, la paura scompare, cedendo il posto all’immagine dei partigiani: come loro, ribellandosi e agognando il ‘botto’ del potere, anela riconquistare una terra defraudata, violentata e tradita. Originale e divertente. Compagnia Quartiatri. Autore: Dario Muratore. Attore: Dario Muratore. Graphic live: Petra Trombini.
(Recensione di Carla De Leo)

Pass Ages
La vita di una donna dura 15 anni, ovvero dai quindici ai trent'anni di età. Lo si scopre un giorno, all'improvviso. Una festa di compleanno, tanto rumore, i commenti degli amici, i regali del 'forse' fidanzato, della famiglia, degli amici. Così, molte donne scoprono che si sono illuse di vivere una vita brillante e quell'universo, di cui si sono sentite protagoniste centrali, di colpo le rigetta: finte feste, finti fidanzati, finte amicizie, finti regali. Perché nessuno si è preso la ‘briga’ di capire come realmente sei fatta al di là di un vestitino e di un paio di tacchi. Una vita brillante che si trasforma in serate solitarie e 'impigiamate'. Silvia Furlan, supportata da una buona regia e un'originale scenografia, dà vita a un femminile che sa illudersi, distruggersi e ricostruirsi (forse in una nuova illusione) pur di sopravvivere emotivamente in una società dove tutto è consumo, anche i rapporti umani. Ironico.
(Recensione di Francesca Buffo)

Libera uscita
Una rappresentazione cabarettistica schietta e, al contempo, ironica sulla ‘rotta’ di navigazione di una società che non sa più da quale parte andare dopo aver tolto ogni possibilità di incidenza alla classe operaia: ogni possibile refolo di vento si è esaurito e la ‘barca’ non va più da nessuna parte. I due ‘giullari’ in scena sono simpatici e spiritosi. E, tutto sommato, pur nella loro apparente e voluta ‘dabbenaggine’, lasciano intendere come la morale del ‘buffone di corte’ sia poi quella che ha l’ingrato compito di affermare la verità di un individuo sempre più solo, alla mercé del mercato. Poche pretese e un messaggio di fondo più libertario che ideologico-rivoluzionario: per niente ‘malvagio’.
(Recensione di Vittorio Lussana)

In bloom
Il Fringe non è solo teatro indipendente, ma una categoria artistica in senso pieno. Dunque, non poteva mancare anche la proposta di un balletto ‘Fringe-style’, carico di ironica sensualità e tecnicamente ben eseguito dalle ragazze della ‘Freefall Dance Company’. Una perfomance appassionante, che cattura l’occhio dello spettatore, anche di quello poco affine a questo genere di rappresentazioni artistiche. Le interpreti sono perfette nella loro esecuzione, poiché riescono a esprimere in forme nuove la sensibilità femminile più profonda, con tecniche innovative e una ricerca musicale assolutamente originale. Un ottimo lavoro.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Le fondamenta dell’impero
Enrico Lombardi, della compagnia teatrale ‘Quinta parete’, porta in scena un monologo tratto da un racconto di Luca Balbarini in cui viene messa in discussione la figura dell’italiano medio. E così scopriamo che, alla fine, proprio l’imprenditore tutto casa, famiglia e lavoro, sempre pronto a giudicare il fratello per le sue sfortunate iniziative aziendali e ormai vittima della propria sterilità morale e valoriale, in realtà è il vero ‘sfigato’ della situazione. Infatti, il protagonista finisce con l’essere stritolato dai meccanismi di inefficienza e sciatteria del nostro ‘sistema-Paese’. E il suo mondo finisce letteralmente col crollare, rendendo vana la sua corsa verso il benessere e il successo. L’interpretazione di Lombardi è apprezzabile e coinvolgente, ma la tesi di fondo del soggetto teatrale eccessivamente pessimistica: l’impero dell’italianità cosiddetta ‘media’ non crolla quasi mai improvvisamente, bensì trascina tutto e tutti verso un lento e inesorabile declino degenerativo, che lascia dietro di sé solamente macerie. Il bronzeo schematismo ideologico che caratterizza questo lavoro, insomma, considera la coscienza storica della classe media solamente un rivolo di spurgo, fornendone un’immagine puramente idealtipica. Non fa ridere, non fa piangere, non fa neanche, più di tanto, riflettere: discutibile.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Altrove
Esther e Iago attendono, nel chiuso di un magazzino, il momento fatale in cui dovranno compiere un attentato. Due 'soldati' votati alla causa a cui lui, realista, lega il filo della propria esistenza, mentre lei cerca disperatamente un appiglio ‘altrove’, animata da una speranza che, in fondo, un’altra vita sia possibile. Al centro, una piccola scacchiera, metafora di una partita che stanno ingaggiando. Gli spettatori vengono trasportati in rimandi continui verso un ‘altrove’ in cui sono spostati gli elementi della Storia: i personaggi sono là, nel magazzino, ma parlano di ‘altro’, di se stessi e della loro relazione che, appunto, è altrove rispetto al presente che sta per compiersi. Dov'è la verità? Qui e ora, nell’azione che devono compiere e per cui sono stati ‘addestrati’? O altrove, fuori da lì? “Io sono quello che sono”, ripete Iago come un mantra per convincersi e giustificarsi agli occhi di lei. “No, tu sei quello che sei diventato”, ribatte Esther. Mentre dibattono sulla questione se terroristi si nasce o si diventa, tra le loro parole trova posto anche il sentimento, ricercato come un barlume di vita da due esseri ‘morti’, che nella loro esistenza, sono trascinati da ragionamenti logicamente consequenziali e velatamente ideologici. La realtà, dunque, dov’è? Esther alla fine fugge, ci prova, per poi far ritorno, continuando, invano, a sperare che la vita sia ‘altrove’. Due maschere ‘cattive’ alla disperata ricerca di giustificare il proprio ruolo. Denso, impegnativo e ben recitato. Di Simone Ranucci.?Regia di Herbert Simone Paragnani. Con Matteo Castellino e Martina Sechi.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Io mai niente con nessuno avevo fatto
Una vicenda drammatica, ma convincente nel suo tratto ‘neo-verista’, su come venga vissuta l’omosessualità in Sicilia. La bestialità dei racconti di violenza e una sessualità sporcata da un mondo in cui, invece di amarsi, le persone tendono a possedersi, viene messa a fuoco con una crudezza che ha molto il ‘sapore’ della verità e dell’abuso. Buona l’interpretazione degli attori in scena e ben seguibile dagli spettatori la semplice strutturazione registica: un merito di non poco conto. 3 bravi attori palermitani della compagnia ‘Vucciria Teatro’ che si battono con gli strumenti dell’arte per denunciare l’arretratezza di mentalità e costumi della loro terra. Un lavoro meritevole di apprezzamento.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Delirio registico
È la poesia del teatro ad andare in scena. Ma anche una presa d’atto circa le attuali difficoltà nel riuscire a ricostruire, metaforicamente e concretamente, il ruolo stesso dell’attore, in una società multiforme, schematica, superficialmente astratta. Il teatro, le sue storie e i suoi personaggi non risultano solamente superati dal tempo, ma letteralmente distrutti: perché? Il tema avanzato dalla compagnia ‘Marluna Teatro’ è senza dubbio interessante, meno ‘nostalgico’ di quanto possa sembrare a prima vista nel segnalare l’esigenza di una rigenerazione poetica del teatro nel suo complesso. Gustabile, a tratti emozionante.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Canto clandestino
“Venivano dal mondo di sotto quei sussurri di mare...”. Uno spettacolo dedicato al più grande naufragio nel Mediterraneo dai tempi della seconda guerra mondiale, che costò la vita, nel Natale del 1996, a 286 migranti. Un alternarsi di voci che narrano la vicenda, i sentimenti e le anime dei corpi risucchiati dal mare. È questa la voce del mare? E che Paese è mai questo, che 'ignora' le tragedie dei migranti? Un lavoro di regia e drammaturgia di altissimo livello. Un canto a più voci che diventa immagine: scorre, schiumo, sciabordo... Scorre, schiumo, sciabordo è quel mare che culla le speranze e i sogni, metafora di un’apparente quiete, di una monotona indifferenza verso la sofferenza altrui. Magistrale. Concerto di voci, versi e sciagurata verità. Regia e drammaturgia Patrizia Schiavo. Con Antonio De Stefano, Domenico Maugeri, Francesco Meoni, Alberto Rossatti e Patrizia Schiavo. Canto Silvia Grassi.
(Recensione di Francesca Buffo)

Stop di M
Le regole di vita di Marta e della madre sono semplici: uccidere i clienti facoltosi del loro squallido hotel, per poter fuggire al mare, visto come ultima meta e unica svolta da una vita monotona e forse ingrata. Senza accorgersene, le due donne hanno costruito un perfetto meccanismo a orologeria, una rete a scacchi in cui intrappolano il malcapitato, muovendosi ogni volta secondo i medesimi gesti. Tuttavia, anche le lancette di un orologio possono incepparsi. L’arrivo di Ian, fratello di Marta, fuggito vent’anni prima, porterà ‘ruggine’ in quegli ingranaggi perfetti. L’uomo, felicemente sposato con Maria, non viene riconosciuto. Da qui la facile previsione dell’epilogo. La domanda, però, nasce spontanea: ce la farà a sfuggire a un destino ineluttabile? Una riscrittura del ‘Malinteso’ di Camus, una storia sul senso di inesorabilità degli eventi, con degli individui che non hanno margine di manovra, ma si muovono ‘costretti’ nelle maglie di un destino che li stringe sempre più in una morsa finale. Ognuno, in fondo, ricerca la propria felicità a tutti i costi, con ogni mezzo possibile, ma verrebbe da dire e gridare: fermate la M, ‘emme’ come Morte, Mare, Madre, Marta, Malinteso. Il solo a osservare e a conoscere gli eventi è il misterioso maggiordomo, muto. Il suo silenzio è quasi una metafora, come il ‘No’ pronunciato alla fine. Non si può fermare la ‘M’. Discreto e ben recitato. Regia Alessandro Federico. Riscrittura di Marco Racca. Con Valentina Virando, Alessandra Guazzani, Lorenzo Bartoli, Federica Fabiani, Gaia Insegna, Francesca Porrini, Angelica Leo, Paolo Giangrasso.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Loop
Cosa succede quando cala il sipario? Esiste un aldilà dopo la morte? Questi gli interrogativi che si pone il misterioso personaggio ‘M. Erciful’, mentre sfoglia un fumetto di Lupo Alberto di cui è appassionato. Lui sì (il Lupo) che non muore mai: “È lì che cerca di raggiungere il suo obiettivo e fallisce sempre”, ma nel suo ostinato ripetersi, come in un loop, diviene allegoria. E col passare dei minuti, lo spettatore ha sempre più chiaro il quadro della situazione, riuscendo a capire cosa sta accadendo ai due balordi, Frank e Mike, sicari ingaggiati dall’eccentrico M. Erciful (6 milioni di euro per un facile lavoretto). Tutto si ripete, all’infinito. E, come nei fumetti, non si muore mai. Dubbi e domande sfiorano i personaggi e il pubblico, mentre lui, quel misterioso uomo d'affari, sembra ‘saperla lunga’. Battuta dopo battuta, rivelerà la sua vera essenza, la nota migliore di una rappresentazione comunque ben congegnata. Erciful è il personaggio che tira le fila e lo fa in maniera efficace. Azione e riflessione. Non banale.  Compagnia artistica The Mork. Regia A. Menal. Con E. Maggini, A. Angelini, Osman Lima Espinosa.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Deae et  Medeae
Maria Emy Cannata è attrice ben ‘titolata’ e attrezzata. E da anni va sperimentando i molteplici aspetti caratteriali attraverso i personaggi che mette in scena. In ‘Deae et Medeae’ sfilano, a turno, quattro figure femminili, quattro tipologie di donne che, sulla base delle loro differenti esperienze, raccontano il proprio amore. Le musiche sono ‘in accordo’ col testo. Così,  sulle note di ‘Stairway to heaven’ dei Led Zeppelin, una lei innamorata ricorda il suo sentimento intenso, devoto, doloroso e indimenticabile. Segue un femminile più violento, masochista: una donna che odia il ‘bastardo’ che l’ha denudata di qualcosa che, come lei afferma, "credevo fosse nostra”.  Si passa poi alla donna incantatrice, l’amante: “Quello che ci serve è solo il vostro seme”. Chiude la rassegna l’amore intriso di dolore per le persone care che, ormai, non ci sono più. Donne ‘dee’ e ‘Medee’, innamorate di un amore puro o ciniche vendicatrici, un piccolo campionario di tipologie femminili che calca la scena per concludere con un messaggio pacifico: la donna, delusa dall’uomo e dall’amore, ha imparato “l’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto”. Nel complesso una messa in scena standardizzata. Di Isabella Courier. Regia Isabella Duchanne. Con Emy Cannata e Clelia.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Cromosoma X
Vanessa Cremaschi e Giovanna Famulari presentano una sorta di ‘reading’ dei lavori più incisivi ed elevati delle potesse della ‘beat generation’. Il tema è la condizione della donna, ma le due attrici-musiciste finiscono con l’agganciarsi alla tradizione libertaria americana come a un vero e proprio ‘argano artistico’ al quale allacciare l’intera regia di questo lavoro, rendendo così marginali gli apporti scenografici di musiche, disegni e video come fossero ancora in via di ‘reassemblament’ con il resto dell’opera. Probabilmente è così. E si spera in una definizione più organica e completa, poiché gli elementi per dare vita a un ottimo lavoro ci sarebbero tutti. Disordinato.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Elementos
Si tratta di uno spettacolo a suo modo suggestivo e originale, composto di recitazione e danze, animato da figure ancestrali che indossano le antiche maschere sarde dei Mammuthones. Belle le coreografie, che si richiamano a un mondo lontanissimo. Non convince del tutto, invece, la recitazione della voce narrante, una sorta di Diogene che cerca di condurre gli spettatori all’interno di racconti epici, espressi con accenti favolistici un poco ridondanti, scarsamente affini a una tradizione da ‘cantastorie’ che, invece, avrebbe completato l’opera secondo un effetto più popolaresco, forse, ma assai meno incoerente. Bello a metà.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Chi fa da sé fa più fatica
Anche il tema della disabilità entra giustamente in scena al Fringe Festival di Roma con questo ‘Chi fa da sé fa più fatica’, una rappresentazione che affronta la non semplice questione di una società che a parole si autodefinisce inclusiva, ma che in realtà risulta caratterizzata da una vuota indifferenza, dal voltare il proprio sguardo da un'altra parte rispetto ai problemi reali. La visione del regista, Gaetano Battista, appare un poco pessimista nel suo addentrarsi all’interno di un’amicizia tra due personaggi specularmente diversi, benché legati da un sentimento sincero. Ma le differenze tra i due amici non riescono più di tanto a valorizzare e a rianimare un rapporto che appare ormai indebolito dalle rispettive difficoltà ad affrontare la vita quotidiana. Il malessere viene visto come proveniente, quasi interamente, dal di fuori del rapporto tra i due protagonisti, i quali invece sono ormai giunti sul confine della consunzione della loro amicizia. Un punto di vista interessante.
(Recensione di Vittorio Lussana)

The white room
La brava Caterina Gramaglia presenta alcune piccole idee, anche carine e divertenti, che alla fine si chiudono con un encomiabile omaggio a Giulietta Masina. Il pubblico apprezza, noi un po’ meno: non si capisce per quale motivo un lavoro che poteva svilupparsi con maggiori profondità di vedute, alla fine si ritrovi ristretto in un’esibizione da 35 minuti. Alcune idee sembrano ‘strozzate’ in partenza, nonostante la loro originalità di principio. Tutto sembra venir liquidato secondo la moda dei video da mandare su Youtube, mentre invece alcune invenzioni meritavano una lettura più articolata, anziché l’impressione di veri e propri ‘infanticidi teatrali’. Il risultato, nel complesso, è gradevole e leggero, forse anche troppo.
(Recensione di Vittorio Lussana)

The flying pinter circus
“Non vi sono confini netti tra reale ed irreale, né tra vero e falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa, può essere contemporaneamente sia vera che falsa”. Così la Compagnia TeatroLux e Teatri della Resistenza, con una frase di Harold Pinter – conosciuto per il suo famoso teatro dell’assurdo - propone al pubblico uno spettacolo che vuole evidenziare il teatro civile e il teatro della scienza. Tre attori (Simone Faucci, Dario Focardi e Paolo Giommarelli), 10 azioni sceniche, 6 intervalli, 4 visioni oracolari (composte da 4 monologhi)  e luci stroboscopiche compongono un ‘cabaret’ di denuncia che evidenzia i problemi sociali derivanti dalle passioni politiche e dal disimpegno umano. Interessante.
(Recensione di Ilaria Cordì)

L’arte della fuga
Ava Loiacono presenta la propria abilità di ventriloqua elaborando una sorta di principio filosofico ‘neokantiano’ della fuga: tesi che si contrappongono ad antitesi sino a trovare una sintesi al termine di un processo artistico ‘circolare’. Apprezzabile il tentativo, un po’ meno il risultato, che non sempre trova quella soluzione ‘centrata’ teorizzata come principio originario della creazione artistica: la fuga dalla banalità. La quale, tuttavia, non può nemmeno essere una fuga dalla realtà. Migliorabile.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Io sono la luna
È uno spettacolo che ha il merito di informare. La vicenda è quasi uno spunto per trattare il tema dell’obesità: due ragazzi si conoscono ai tempi della scuola e si innamorano. Negli anni dell’infanzia, il ‘ciccione’ che subisce discriminazioni è lui, che tuttavia, in età ormai adulta, finalmente riesce a dimagrire. Negli anni della maturità, invece, è lei, una speaker radiofonica dalla voce stuzzicante, a subire una serie di delusioni compensate con l’assunzione continua di dolci e zuccheri vari, fino a diventare ‘cicciona’. La trasmissione radiofonica notturna diviene un intelligente pretesto per fornire dati, statistiche e rilevazioni d’indagine intorno alla questione, serissima, dell’obesità in tutte le sue sfumature. Brioso e lodevole al tempo stesso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Achilles: how is a legend made?
Un ‘reading’ che prova a mescolare le due culture teatrali più grandi di sempre: quella greco-omerica e quella shakespeariana. Dunque, non potevano mancare riflessioni sull’eroe antico e sull’antitesi tra libero arbitrio e destino, o fatalità. Il mondo mitologico di Achille prende forma attraverso le due interpreti, che rievocano con essenzialità, ma senza astrattezze, tutti i principali protagonisti dell’epica, da Priamo a Teti, da Ulisse allo stesso Achille. I due stili, quello greco antico e quello britannico shakespeariano, finiscono col formare un’ottima osmosi teatrale, che trasforma le due attrici in autentiche muse delle forme artistiche divenute le fondamenta stesse della cultura teatrale di tutti i tempi. Affascinante e di livello.
(Recensione di Vittorio Lussana)

My name
La compagnia teatrale ‘Banda Kurenai’ porta in scena uno spettacolo dissacrante e protestatario nei confronti della società moderna, in cui le persone vivono, si muovono e agiscono credendo di allineare le loro scelte (standardizzate) con lo ‘status’ dell’individuo che, in quanto tale, è unico, irripetibile, libero e originale. Carlo Strazza, attraverso un forte ed esasperato senso del linguaggio del corpo, è l’interprete dei possibili momenti di vita quotidiani (e idealmente rappresenta le azioni di tutti gli esseri umani) che, man mano, vengono ‘incarnati’ sul palco, ‘pilotati’ da una voce narrante. L’esegesi della trama è sottile e procede in un crescendo che, alla fine, squarcerà ‘il velo di Maya’, mostrando la realtà per quella che effettivamente è, svelando la grande menzogna: le persone sono invischiate all’interno di una trama, abilmente intessuta e penetrata nelle fibre e credono ‘libere e consapevoli’ decisioni che, invece, sono il frutto di precetti, norme e contaminazioni inalateci sin dalla nascita e ‘comunemente’ accettate. In famiglia, a scuola o in chiesa ci insegnano cosa è giusto e cosa non lo è; quali atteggiamenti sono decorosi e da perseguire e quali non lo sono. Ma l’accettazione non avviene come conseguenza di una ‘presa di coscienza’. Essa corrisponde, piuttosto, a un ipocrita ‘comune sentire’ che omologa le scelte, appiattisce le idee e globalizza, collettivizzandoli, i comportamenti individuali. All’interno di questa società non c’è, dunque, spazio per le ‘variabili’: fermarsi e analizzare altre angolazioni, altre prospettive e altre possibilità è argomento da fannulloni e da drogati. Ciò che ‘sta bene’ è guardare avanti e procedere dritti, tutti ‘felicemente’ nella stessa direzione. A colui il quale scruterà il grande inganno, cercando di sottrarsi alla ‘morte cerebrale’ di una comunità a compartimenti stagni, così complessa ma così identica, l’unica via di fuga verrà vista nel celare il proprio nome. Il nome va preservato: è l’unico ‘bene’ che ci distingue dagli altri e ci rende unici. Rivoluzionario. Regia di Raffaella Russo con la partecipazione di Davide Aloi. Voci ed effetti sonori: Davide Aloi. Recitazione: Carlo Strazza.
(Recensione di Carla De Leo)

Il big biggi one man show
Satirico, irriverente, trasgressivo, dissacrante. Queste le caratteristiche principali dello spettacolo presentato da Simone Biggi, un giovane e promettente attore proveniente da La Spezia letteralmente scatenato sul palco nell’inseguire la sua utopia: “Tutto è teatro”. E lo dimostra, rivisitando a suo modo autentici capolavori come ‘Natale in casa Cupiello’ o lo stesso ‘Amleto’ shakespeariano. Ne esce una divertentissima rilettura dissacrante del presepio cattolico, che all’improvviso si anima di personaggi televisivi degli anni ’80 mescolati a quelli ‘disneyani’, fino a essere interrotto da una conferenza stampa di Barack Obama che teme un finale alla ‘21. 12. 2012’, con la stella cometa vista come un asteroide che sta per distruggere il pianeta. Anche il teatro d’impegno e il mondo della televisione finiscono nel mirino di Simone Biggi, che trasforma se stesso in uno ‘zapping umano’ per sottolinearne il vuoto contenutistico e la falsa teatralità. Qualche eccesso nel ‘trash’ sbilancia un poco lo spettacolo, che tuttavia riesce a difendere grazie alla propria irritualità, la sua stessa originalità. Spassoso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

(H)elle
Si tratta di un tentativo di ridisegnare i canoni della drammaturgia, rileggendo con nuovi occhi il complesso di Elettra. Non semplice e, talvolta, eccessivamente metaforico nel recuperare ricordi al fine di esprimerli in forme innovativamente poetiche. Elisa Menchicchi dimostra comunque una recitazione eclettica e versatile nel descrivere al pubblico tutte le ‘paturnie’ psicologiche della protagonista, ormai totalmente immersa in un inferno di contraddizioni irrisolte e di memorie sconnesse, per una rappresentazione che possiamo definire poeticamente femminile, per autenticità d’interpretazione e sperimentalismo di struttura.
(Recensione di Vittorio Lussana)

I fiori del male
La compagnia ‘Avamposto teatro’ presenta uno spettacolo che si richiama alla poesia di Boudelaire solamente in termini puramente metaforici e d’ispirazione. In realtà, si ricostruisce la controversa vicenda di Roberto Calvi e del ‘crack’ del Banco Ambrosiano insieme a tutte le sue connessioni con lo Ior, il Vaticano e la Loggia massonica P2. Il tutto attraverso una ricostruzione che trova il proprio principale ‘capro espiatorio’ nel Vaticano in forma alquanto contraddittoria, poiché non si chiariscono del tutto i legami tra una massoneria deviata - intrisa di connotazioni anticlericali addirittura secolari - e l’istituzione rappresentante del cattolicesimo in Terra. Probabilmente, qualche contraddizione presente nel soggetto teatrale non riesce a inquadrare alcuni fattori storici e d’informazione ancora oggi mantenuti sotto il massimo riserbo. Così così.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Finding beauty
Un clown dislessico, ‘inciampa’ nel testo e nella difficoltà a essere creduto. La donna che lo ascolta ha difficoltà a credere alle sue parole che, sostiene, sono solo di felicità, mentre la sofferenza gli è estranea. “La cicatrice rimane, ma che importa? Il sorriso fa bene alla salute”, cerca disperatamente di affermare il clown, ma ci si rende conto che ormai quella purezza, quel sentimento sotteso alle sue parole rimane incompreso. E’ la bellezza che non riusciamo a intravedere, che non riusciamo a comprendere, come quella donna, o che non riusciamo a esprimere, perché ‘dislessici’ anche noi come il clown. Un atto di accusa sulla scomparsa della poesia e del sentimento, ma… chi ci salverà alla fine? Dove troveremo la bellezza ormai sommersa? Un gioco di luci che si spengono e si accendono è metafora di una realtà incomprensibile che solo a tratti ci appare chiara. Intenso, con una felice interpretazione di Michelangelo Bellani nella parte del pagliaccio. Regia C. L. Grugher. Drammaturgia: Michelangelo Bellani. Con Michelangelo Bellani, Giulia Battisti. Produzione: La Società dello Spettacolo con la collaborazione di Attack.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Viaggio in un incubo
Lento e onirico, rievoca le tipiche atmosfere kafkiane (liberamente tratto da ‘Il processo’) accompagnando lo spettatore in un viaggio assurdo, quello del protagonista, il Signor K, che lo vede coinvolto in un angoscioso processo in cui, nell’avanzare dei minuti, ognuno si sentirà ‘tirato dentro’. Così il tribunale finisce col divenire la ‘casa’ di tutti, dove si svolge lo sporco gioco della legge: far passare la ‘non verità’, ovvero solo ciò che è ‘necessario’. La menzogna. Una illogicità tale da non sembrare vera, eppure finirà per esserlo, dimostrandosi, oltretutto, anche attuale. Un incubo che lascia con una sensazione di sgomento. Bravi gli attori, per ‘palati’ sofisticati.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Manuale distruzione
Mariantonia Capriglione giunge dalla Puglia carica di speranze e di sogni: vuole fare l’attrice e il teatro è la sua vita. S’impegna, allora, in un spasmodico ‘tour de force’ tra accademia d’arte drammatica, diete per regolare la propria conformazione fisica ‘boteriana’ ed esperienze di dura ‘gavetta’ professionale. Alla fine scopre la verità: il sistema soffre di una mentalità maschilista e piccolo borghese; la deriva estetizzante dell’intero mondo dello spettacolo le rinfaccia continuamente di non essere una ‘taglia 42’; la bella presenza rimane il requisito primario anche per ruoli minori da caratterista. La ragazza cerca di ‘sfondare’ con tutti i mezzi, sino a mettersi uno spazzolino da denti in gola per imparare a vomitare. Le crisi di bulimia si insidiano pericolosamente nella testa, insieme alla paura di essere immeritatamente rigettata dal mercato pur possedendo un ricco curriculum di esperienze e un’ormai raggiunta professionalità. La deriva diviene autolesionistica, sino alla consumazione dell’Io più interiore. E lo sguardo si spegne in una rabbia lucida che ormai sconfina nel cinismo. Lo spettacolo ha il merito di rappresentare pienamente un modello di società da rivoluzionare in tutti i settori. A cominciare da quello artistico, ancorato al contrattualismo spicciolo del ‘do ut des’ e a una cultura omologativa che appiattisce ogni merito individuale sino alla totale disintegrazione di ogni valore di dignità personale. Un monologo realmente innovativo nei suoi contenuti. Bravissima la Capriglione.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Riflessioni postume
Ezio Budini si dimostra attore completo e di esperienza nel presentare questo monologo sulla morte carico di ironia e di humor ‘nero’. Il genere non è molto amato qui da noi, poiché realista e sottilmente beffardo nel descrivere comportamenti e convenzioni sociali prive di ogni effettiva razionalità. “Chi muore giace e chi vive si dà pace” diviene, pertanto, una chiave interpretativa da ribaltare completamente: sono i vivi coloro che si affannano in un’esistenza futile e angosciosa, mentre è il morto a essere veramente fortunato, poiché finalmente può godersi la pace dell’eternità. Intelligente e garbato.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Dietro i tuoi passi
Storie di uomini che si sono ribellati alla mafia, fortunatamente ce ne sono, ma quella di Giuseppe Impastato possiede dei connotati tutti suoi: l’irriverenza, oltre che il coraggio dimostrato per combatterla, hanno fatto del giovane ‘Peppino’, che abitava a cento passi dalla casa del boss di Cinisi, uno dei più fulgidi oppositori di una cultura del silenzio, fertile terreno su cui ha proliferato, come la gramigna, quella organizzazione criminale che il giornalista con disprezzo definiva “una montagna di merda”. Il suo essere ‘rivoluzionario’ lo ha posto, agli occhi del padre Luigi, piccolo capoclan, in una posizione difficile da ‘digerire’ per una famiglia ancora molto intrisa di certi retaggi tardo-contadini, per cui si vuole che il figlio diventi un uomo ‘rispettabile’. “Qua non siamo in Continente”, cerca di spiegargli il padre, marcando la distinzione di ‘valori’, la differenza di grado di quella rispettabilità che pure Peppino rincorreva, identica nel termine, ma così lontana nel significato, “Qua il rivoluzionario non si fa. In paese conoscono me!”. La storia e il tempo, invece, ci hanno lasciato la memoria di Giuseppe, un “pazzo”, un “rivoluzionario” contro un sistema di anti-valori, contro un padre mafioso, contro una mafia che, oltre al genitore, gli stava ammazzando una Terra e le sue radici.Una rappresentazione toccante, di incomunicabilità tra due mondi e due sistemi che mal convivono in Sicilia,  e che spesso richiedono un sacrificio alto, che pochi uomini hanno saputo sostenere. Spicca, fra tutti, Claudia Perna, nei panni della madre Felicia Bartolotta: riesce a fornire una prova di grande sensibilità. Regia di  Massimo Natale. Con Claudia Perna (Felicia Bartolotta), Calogero Macaluso (Luigi Impastato), Francesco Basile (Peppino Impastato), Domenico Cangialosi (Salvo Vitale), Duan Melodia (Giovanni Impastato).
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Cave canem: ‘na storiaccia de borgata
L’associazione culturale  Cattive Compagnie ritorna al Fringe, forte della vittoria dell’anno scorso, con una rappresentazione ‘forte’, una storia di periferia e di malavita, quella di Andrea e Antonio, che la strada, la durezza e le difficoltà del quotidiano hanno trasformato, ingabbiandoli, in ‘Er Condor’ ed ‘Er Piccoletto’. Una storia ispirata a un reale fatto di cronaca, avvenuto nella Roma degli anni 80 (l’omicidio del pugile Giancarlo Ricci, da parte di Pietro Negri, ‘Er Canaro’) recitata in ‘lingua originale’, in romanesco, per rendere più vera e cruda una vicenda che sembra in parte uscire da ‘Romanzo Criminale’, ma che possiede una sua originalità, e che spicca in particolar modo per una regia originale, che in qualche modo tenta di trasportare a teatro il cinema e il suo linguaggio. Storia di due ‘bastardi’, che sopravvivono all’ombra di una ‘Mala’ con la ‘m’ minuscola, personaggi secondari, ma non per questo meno ‘cattivi’ eppure intrisi di una tragica umanità, alla ricerca di un riscatto sociale che non riescono a raggiungere. Del resto, “Il Condor vive sulla morte” e, salito sul treno sbagliato, non sa più come scendere. Drammaturgicamente ben reso, un autentico angolo di strada di periferia romana, mediato dal cinema e trasportato sul palcoscenico.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Padroni delle nostre vite
Un testo di peso e importanza vitali per il nostro Paese: il racconto della vicenda del caro amico Pino Masciari, imprenditore calabrese costretto a fuggire dalla propria terra per l’oppressione minacciosa della ‘ndrangheta. Il coraggio di un testimone di giustizia e della sua famiglia costretti nella morsa di un apparato burocratico dello Stato ottuso e farraginoso e il rischio incombente di rimanere uccisi. Per non parlare degli innumerevoli disagi patiti nel corso di un decennio trascorso a nascondersi. L’interpretazione di Ture Magro è assolutamente da segnalare: sentita, accorata, coinvolgente. Uno spettacolo eccellente, “da far girare ovunque”, ha dichiarato Lina Wertmuller. Con piena ragione. Regia: Leonardo Buttaroni. Con Diego Migeni e Sebastiano Gervaso. Scenografia: Paolo Conte.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Lei gli direbbe
Sara Tosti, sulla scena, è assai brava nel rappresentare la profondità dell’amore, ricco di ‘sfumature’ dolci e affettuose anche nelle piccole ritualità quotidiane, di una ragazza costretta a un’esistenza da ‘vedova bianca’ a causa della detenzione del proprio compagno su un’isola per motivi politici. La regia è ben studiata, con l’utilizzo di disegni pittorici essenziali nel tratto, ma artisticamente vitali e una musica dal vivo che interagisce con il monologo della protagonista senza ‘invadere’ la rappresentazione nel suo complesso con sonorità inquietanti. Il risultato è un lavoro tutto sommato equilibrato nella sua rabbia pessimistica, fors’anche un po’ ingenuo nel rappresentare l’infrangersi dei sentimenti al cospetto della realtà. Toccante.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Il protocollo
Quattro ragazze sintetizzano attraverso una recitazione totalmente gestuale il percorso di vita archetipico della donna italiana. Le identità sono 4, ma il percorso è il medesimo per tutte. L’idea è tutta qui, ma il merito di questo lavoro è quello di essere riuscito a sviluppare un singolo concetto con leggerezza e senza schematismi ideologici particolari. Un’opera ariosa, libera, a tratti divertente, a dimostrazione di come un’idea semplice, quando ben sviluppata, possa tranquillamente bastare per fare un teatro vero e intelligente. Simpaticissimo.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Tableau ravenant
Si tratta di un’interpretazione alquanto ‘libera’ degli ‘Spettri’ di Ibsen - il grande drammaturgo norvegese - messa a punto dalla compagnia ‘Il picchio’ che, tuttavia, di spettrale non possiede, o non dimostra, un granché e che, a malapena, riesce a rappresentare il disastro familiare di una madre e un figlio costretti a ripercorrere il controverso rapporto con un ‘marito-padre’ oppressivo e crudele. Che l’opera rimanga a mezza strada tra la rappresentazione della fine di un ciclo familiare e un nuovo difficile inizio senza fornire ulteriori indicazioni di sorta è un fatto voluto; il risultato di un’interpretazione accademica da parte dei due interpreti, Alessandra Mirra e Renato Avallone, assai meno, soprattutto al cospetto di un copione liberamente riadattato. Una sufficienza ‘stiracchiata’.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Senso unico
Tra le opere presentate quest’anno al Fringe festival di Roma non poteva mancare anche un ‘giallo’. Ed ecco dunque questo ‘Senso unico’, diretto e interpretato da Andrea Quintili. Si tratta di un lavoro che dimostra una buona strutturazione scenica, interpretativa e di regia, anche se il contesto di sfondo trascende, involontariamente, da quello di una Roma popolare a una realtà periferica o di borgata. Non potendo più di tanto spiegare la trama (un ‘giallo’ dev’essere gustato dagli spettatori) possiamo affermare che la tesi di fondo, ovvero quella di una vita a ‘senso unico’ costellata di scelte obbligate, non convince del tutto. Da menzionare, in ogni caso, la naturalezza recitativa del più piccolo degli attori di questa compagnia, Matteo Mercatali, spontaneo e intelligentemente impiegato sulla scena. Discreto.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Improbook: improvvisazione da reader!
Felicissima l’interpretazione di questi 4 ‘guitti’ della compagnia T(i)LT, che giocano con l’improvvisazione teatrale come solo dei veri ‘ladri’ di atteggiamenti, linguaggi ed estemporaneità popolari sono capaci di fare. L’arte è anche questo: prendersi giuoco della recitazione stessa, dei suoi svariati stili e delle sue molteplici forme espressive, creando ogni sera un nuovo spettacolo nello spettacolo. Il coinvolgimento del pubblico apre la rappresentazione agli apporti esterni: agli spettatori vengono chiesti spunti, suggerimenti, frasi da collegare al contesto recitativo. Ma all’interno della ‘cornice’ satireggiante, il quadro che ne esce, benché sempre diverso, diverte fino allo spasimo senza eccezione alcuna. Bravi e simpatici.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Abbascio a’ grotta
Lo spagnolismo del titolo, incistato nell’idioma partenopeo dal quale proviene, già di per sé rende l’idea di come questo lavoro rappresenti un viaggio interiore tra i meandri infernali di terribili traumi vissuti nell’infanzia. Sotto la grotta si nascondono, infatti, i segreti inaccettabili per la morale dominante, le cose che si preferisce non sapere, non conoscere, non capire, i momenti di violenza psicologica, prima ancora che fisica, che si continuano ipocritamente a rifiutare. Ne esce uno spettacolo doloroso, che scuote come un pugno allo stomaco, di un realismo duro, spietato, ‘cattivo’. Ottima la recitazione dei ragazzi della compagnia ‘Madrearte’, che soffrono, cantano e piangono con una maestria attoriale decisamente encomiabile per dei talenti giovanili decisi a porsi con coraggio sull’avamposto più avanzato della cultura teatrale italiana, soprattutto per i temi trattati. Abbascio a’ grotta è dunque un’opera intensamente drammatica, ma coinvolgente e per niente scontata. Bravissimi.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Il velo e la sposa
Emma aspettava, nel fondo della sua anima, un principe azzurro “beddu beddu” come Amedeo Nazzari in ‘Le notti di Cabiria’, alla fine troverà Antonio Ficara, un poco più basso di lei, stempiato, impiegato delle poste, ma almeno “viene dalla città e sa parlare corretto”. Quel saper leggere e scrivere che Emma tiene in gran conto, come unica via di scampo da un ‘paesello’ siciliano e dai suoi pettegolezzi, diventa ora l’oggetto di un patto coniugale, uno scambio di ‘favori’: una ‘parolina’ per un piccolo ‘gesto d’amore’. Un gioco che Antonio accetta, animato da ben altri intenti, che Emma, nella sua purezza, stenta inizialmente a riconoscere, ma che nel tempo le farà credere, illudendola e confondendola, come l’amore può manifestarsi anche sotto altre forme, sessualmente più prevaricanti. E poi quella violenza, che accetta in silenzio, solo per raggiungere il vero obiettivo: imparare a leggere e a scrivere. Proprio la prima parola appresa da Antonio, ‘coltello’, diventa anche l’ultima che userà per spezzare quel filo che l’avrebbe legata per sempre a un ruolo di moglie-casalinga, secondo una logica maschilista in uso specie nel Sud di pochi decenni orsono. Emma alla fine riesce a raggiungere il suo scopo: 30 anni di carcere le saranno sufficienti per quella conoscenza su cui basava il proprio riscatto personale. Ora sarà finalmente ‘libera’ di leggere e scrivere. Reclusa, ma libera. In questa dicotomia, si concentra tutto il dramma di una donna, analfabeta per necessità, come tante in un’Italia di un passato nemmeno troppo lontano, che a una morte lenta dentro un mondo chiuso e retrogrado, dove i ruoli sociali sono prestabiliti e immobili, preferisce una vita difficile ma vissuta con maggiore consapevolezza di sé. A una libertà apparente, meglio una reclusione in cui si senta ‘viva’.Bello e amaro, usa con intelligenza l’ironia per far sorridere di un autentico dramma che spesso viene sottaciuto. Testo di Patrizia Caiffa. Regia: Rinaldo Felli. Con Claudia Pellegrini.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Schizzata
'Schizzata' è un lamento disperato di dolore e rabbia che Chiara - la protagonista - urla, nel suo monologo, a squarciagola, nel tentativo di comprendere, metabolizzare e alleviare le sue pene. La storia, percorsa a ritroso, ci offre lo spettacolo di una giovane donna al culmine della follia: costretta a prostituirsi e violentata (soprattutto nell’anima) dal suo uomo diventato carnefice, comprende che la sua vita è irrimediabilmente sfregiata. I suoi sogni sono stati strappati, la fiducia è lacerata. L’amore è stato tradito. Il disagio e il ‘mal di vivere’ sono ormai troppo grandi. Non vi è possibilità di riscatto personale. Le violenze e gli abusi restano tatuate sulla sua pelle, così come l’ombra di un bambino mai nato si muove costantemente nei meandri più bui della coscienza. Un bambino che avrebbe potuto invertire la rotta di un destino infamante e che, invece, diventa il monito di due vite interrotte. Uccidere l’aguzzino, uscire dall’oblìo e rivestirsi con i brandelli che restano di se stessa, diventa allora indispensabile. Ma non dà sollievo, non offre conforto e non apre spiragli di speranza. Nell’insopportabilità di convivere con se stessa e con il rimpianto della propria vita ‘uccisa’, Chiara intravede un’unica via di fuga per porre fine alle proprie sofferenze: il suicidio. La rappresentazione è alternata a scene proiettate in cui la recitazione è muta e il racconto del dramma è affidato alla musica. Proprio gli episodi musicali riescono a districare il filo di una trama difficile, ad interpretare il mondo interiore e a dare ‘luce’ ad alcuni passaggi contorti che, spesso, non si riesce a comprendere durante l’evolversi della storia. Ideato da: Leonardo Jattarelli. Regia: Leonardo Jattarelli, Carlo Oldani. Musiche: Saga. Interpreti: Valeria Zazzaretta.
(Recensione di Carla De Leo)

Alfonsina Storni: la mia casa è il mare
Quella di Alfonsina Storni è stata un'esistenza vissuta intensamente: trasfusa in versi strappati all'osservazione del quotidiano. Uno sguardo lucido, tenace, mai ipocrita. Anche di fronte alla devastazione di un male incurabile sul quale l'unica forma di controllo è, forse, il poter decidere quando lasciarsi andare alla morte. Marica Roberto riesce a ripercorrere e trasmettere, con la medesima intensità, la storia di questa poetessa argentina del '900. Un bellissimo testo che attinge alla poesia ma, più di tutto, all'anima della 'poeta' che "cercando amore facendo versi, ha perso amore facendo versi”. Il tango e le canzoni argentine si fondono nel monologo recitativo e compongono, con la scenografia  dipinta dal vivo, tutti i tasselli della vita di Alfonsina. Bello.
(Recensione di Francesca Buffo)

I Pupa
Tre stereotipi di donne si incontrano, si scontrano, si confrontano. C’è la ‘Figa’, tutta ‘smaltini’, frivolezze e vezzosità; c’è poi l’arrampicatrice sociale, assessore comunale del centrodestra, che inanella i consueti e ormai stantìi luoghi comuni del linguaggio politico attuale; e c’è la depressa, con la sua visione più realista e tuttavia costretta a ‘impasticcarsi’ per riuscire a resistere alle imposizioni stereotipate di una società ipocrita e falsa. Alla fine avviene il ‘colpo di scena’: tutte e tre le ragazze stavano recitando un copione estremamente distante dalla loro vera natura esistenziale, al fine di essere accettate dal sistema, o dal ‘mercato’ che dir si voglia. Nulla, in realtà, cambia realmente per la loro vita. E il loro ‘vaffanculo’ finale, esclamato all’unisono, pur risultando parzialmente giustificato forse stona un poco per il cupo pessimismo che esprime. Grazioso, in ogni caso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Cose di questo mondo
Una rappresentazione solida, ben strutturata, da teatro comico-brillante di ottimo livello. La traccia, anche in questo caso, è quella ‘orwelliana’, ma è presente anche qualche innovativo richiamo alla simpatica visione surreale dei fratelli Cohen. Fugaci e Marchetti hanno modi diversi di vivere e giudicare il mondo, ma a un certo punto si rendono conto di essere ambedue sottomessi da un ‘capo’ dirigista e a un sistema di produzione giunto sulla soglia estrema del proprio delirio consumista. Si ride, si scherza, si riflette intorno ai concetti di responsabilità morale, individuale e collettiva, se cioè sia giusto lasciarsi utilizzare dal sistema sino all’abuso, oppure se non sia meglio ricercare un’esistenza diversa, una miglior qualità di vita. Purtroppo, nessuno è mai così piccolo da riuscire a non fare la differenza. E Fugaci sarà costretto a prenderne atto, cogliendo le ragioni dell’amico Marchetti il quale, alla fine, dopo aver escogitato la migliore delle sue formule di produzione industriale di “oggetti che durano solamente un giorno”, si dimette dalla ditta in virtù della propria recuperata dignità intellettuale e umana. Una rappresentazione brillante, insomma, sia nel senso del genere, sia nei termini di un giudizio critico complessivo. Gustoso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Hamletelia
È la ‘rivincita’ di Ofelia, una rivalsa proposta come un monologo spiritoso e anche un po’ audace sotto il punto di vista strettamente erotico. La poverina risorge dalla tomba e subito chiarisce al pubblico: “Ragazzi, oggi sono veramente un cadavere”. Il dramma shakespeariano di Amleto viene rivisto - e fors’anche un po’ stravolto - partendo da un punto di vista assai comprensibile, se giudicato con gli occhi dell’oggi. Ofelia amava Amleto, il quale, però, si ostinava a immergersi nei suoi drammi, nei suo eterni dubbi, tra le sue angoscianti riflessioni, incertezze e tentennamenti: “E che palle!”, esclama Ofelia, facendo affettuosamente a pezzi la mitizzazione letteraria dell’amato e del dramma shakespeariano medesimo, rivelando altresì anche i vari ‘altarini’ della madre di Amleto, Geltrude, la regina di Danimarca. Una buona visione in ‘controcampo’, insomma, che l’attrice Caroline Pagani esprime con ironia e sagacia senza trascendere nel ‘trash’. Spiritoso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Il bambino che verrà
La compagnia teatrale 'Imprevisti e Probabilità' presenta uno spettacolo metaforico e polemico, interamente basato sul gioco beckettiano (un complicato confronto delle parti). Due personaggi sono costretti a elaborare il dramma della solitudine e dello sfruttamento. L'arrivo di un bambino dona loro la speranza che un giorno le cose possano cambiare. Soledad Agresti, protagonista e regista, e Raffaele Furno riescono a portare in scena, con una recitazione allegra e pungente, il tema della crisi economica. Tra un lavoro che li opprime, cibo e acqua che scarseggiano, dubbi esistenziali e l’affidarsi al ‘gioco’ del destino, i due personaggi - che alle volte sembrano formarne uno solo - sperano, un giorno, di diventare i padroni della propria esistenza: stanchi del loro status invocano il diritto di sciopero ribellandosi (con scarso successo) ai padroni, rappresentati metaforicamente con tre luci colorate. Un testo sarcastico che diverte il pubblico.
(Recensione di Ilaria Cordì)

Ballatoio
Ballatoio è una riflessione sull’individuo e la sua rete affettiva. Una rappresentazione delle dinamiche di conflitto individuale, che creano, se viste nel complesso, la trama del tessuto di una intera società in crisi. Le storie di varia umanità ‘transitano’ sul ballatoio, che diviene il luogo in cui certi disagi e talune inquietudini vengono alla luce, sviluppandosi fino all’evoluzione finale: dal trauma (la scoperta di un problema) a quello del suo superamento. La crisi dei personaggi, da iniziale momento di instabilità, diventa ‘scelta’, ‘decisione’ (significato originario del termine crisi), necessaria per andare avanti, possibile motore di cambiamento. Quattro personaggi in preda ai ‘difetti’ della vita, vittime di una incomunicabilità che nasce da parole errate, quelle che si utilizzano impropriamente nel dialogo quotidiano. Il testo con cui la rappresentazione è giunta al Fringe è l’ultima fase di un progetto più ambizioso: una video-performance sui balconi di un popolare quartiere di Roma. Qui ne viene rappresentata una parte e, probabilmente l’opera ha più efficacia nella versione integrale. Pochi e scarni elementi lasciano intravedere una trama che diventa chiara quando è forse troppo tardi. Un peccato, perché il risultato è un effimero andirivieni su un ballatoio.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Nothing personal... oh yeah
Davvero audace, con uno scenario a tratti delirante, quello su cui si stagliano i personaggi pensati da Francesca Viscardi Leonetti, regista e autrice innovativa e vincitrice di vari premi internazionali, che in questa occasione è andata a pescare direttamente dal genio di Roman Polanski in La Morte e la Fanciulla. “Niente di personale” è l’espressione tipica e paradossale che si esprime di fronte alle tragedie, ai drammi della vita. Parole che ripetute in ‘loop’ dai personaggi, ‘recitate’ come un mantra protettivo per allontanare le paure, sembrano svuotarsi di tutto il loro significato. Non c’è nulla di personale, allora, a parlare per esempio di stupro: “Oh mio Dio, che crudeltà!” è lo scialbo commento che consente di continuare a vivere in una illusoria serenità. Giudizi e pregiudizi altrui animano la rappresentazione facendo sorridere nel dramma. Completano il testo, le incursioni letterarie di Elliot, De Filippo e Shakespeare (per chi le ha colte). Impreziosiscono le note musicali suonate dal vivo da una piccola orchestra e cantate dalla suggestiva voce di Amalia Grè, che con la sua bravura, forse, sopperisce all’audacia creativa di una rappresentazione che il pubblico non sempre comprende. Nel complesso merita una visione, ma meglio se muniti, in anticipo, di alcune informazioni.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Anna e le altre storie
Attraverso una serie di ‘corti’ teatrali, 5 attori si cimentano in una serie di drammi familiari tipici dei nostri giorni, affrontando con piglio grottesco alcuni temi sensibili: l’omosessualità, la crisi della coppia, le varie psicosi della vita quotidiana. Il risultato è alquanto ‘medio’, il linguaggio utilizzato ‘pesante’, la recitazione talvolta forzata, come se si volesse colpire il pubblico a tutti i costi attraverso una serie di ‘quadretti’ rappresentativi più del mondo della periferia romana che delle gravi ‘tare’ di mentalità che affliggono la società italiana. I temi vengono indubbiamente evidenziati, ma l’approccio rimane scarno, finalizzato verso ‘freddure’ che sembrano banalizzare argomenti e contraddizioni che necessitano, invece, di analisi ben più approfondite, pur nei loro aspetti ironici o surreali. Una serie di fotografie che restano ‘aggrappate’ alle forti contrapposizioni caratteriali tra singoli personaggi del mondo popolare, anziché cogliere le movenze di fondo della società, lasciate sullo sfondo in quanto contesto scontato. Prosaico.
(Recensione di Vittorio Lussana)

No
Lo spettacolo scritto e diretto da Andrea Lanciotti mette in scena gli abitanti di un villaggio alle prese con l’organizzazione di una “festa in centro” in occasione della quale il Poeta intende scrivere de “La storia poetica del paese”. Il suo tentativo è però vanificato da un contesto sociale in cui tutti mentono e spettegolano. Paesani che convivono nell’ipocrisia, con pochi interessi in comune: la falsità e il 'rum del Moro'.  Attraverso il tentativo di riunire in un'unica rappresentazione, teatro classico e d’avanguardia, 'No' tenta di descrivere l’incomunicabilità tra esseri che si fraintendono continuamente, a parole, ma che esprimono ‘altre’ verità, attraverso il linguaggio del corpo. Lo spettacolo, infatti, gioca su due livelli di comunicazione: quello verbale, con i dialoghi tra i personaggi; quello del corpo, che continuamente mima movimenti precisi, intesi come espressione sia dell’agire quotidiano (infilarsi una giacca, per esempio) sia di un nudo pensiero che invece le parole hanno sottaciuto. L’effetto, nel complesso, rende i personaggi catatonici, pieni di anomalie motorie e comportamentali. Perché parliamo male degli altri? E perché ci fraintendiamo di continuo mentre il corpo, seguendo l’istinto, non mente, verrebbe da chiedersi? Il “No!” gridato dal coreuta (personaggio in tunica bianca che ogni tanto appare sul palco) potrebbe sembrare la risposta al quesito: un respingimento alla catatonia dell’esistenza. L’intenzione, tuttavia, sembra soltanto urlata, più che essere applicata. Drammaturgia difficile. Incomprensibile al pubblico al pari dell’incomprensione tra gli abitanti del paese. Metafisico.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Il tempo e la stanza
Non è semplice portare in scena, soprattutto in Italia, il teatro di Botho Strauss, le sue storie lacerate, i suoi corpi caratterizzati da movimenti compulsivi, i suoi personaggi impegnati a riempire lo ‘spazio’ con le parole, nell’illusione di riuscire a sfuggire alla solitudine alienante della modernità. Eppure, proprio la condizione sempre più caotica e difficile della nostra società attuale rende meno ‘criptico’ il messaggio di un drammaturgo che ha cercato disperatamente un significato alla nostra esistenza, senza riuscire a trovarlo. È divenuto meno difficile, oggi, per il pubblico ‘medio’, riuscire a comprendere la pessimistica profezia di Strauss, ormai materializzatasi da ‘spirito’ a ‘corpo’, da ‘atto interpretativo’ a ‘fatto’. Va dunque segnalato il coraggio - ma anche l’opportunità - della scelta operata dalla compagnia ‘Arcadia delle 18 lune’ nel voler mettere in scena un genere teatrale intellettualmente complesso, che ha il merito di riuscire a irridere il pubblico e le sue aspettative. La realtà non ha alcun senso. Ogni luogo è divenuto un ‘non luogo’. E il monologo finale di Olaf, l’apatico, rappresenta pienamente il conservatorismo piccolo borghese di una società chiusa in se stessa, allergica ai cambiamenti, refrattaria a concepire la benché minima ricerca antropologica all’interno di ogni forma di disordine creativo. La vita di oggi è infatti un ordine ‘malato’, che genera solamente ossessioni e paranoie. Un lavoro coraggioso, poiché destinato agli ‘eletti’ o agli ‘iniziati’ verso questo genere di teatro.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Ah l’amore l’amore
Nel tentativo di dare una definizione e un’interpretazione alla parola ‘amore’, la rappresentazione portata in scena da Francesca Botti e Sabrina Carletti (caratteriste talentuose) porta a galla verità inconsce e scomode (o solo sopite). L’amore è oggetto di migliaia di conversazioni insaziabili ma, al tempo stesso, nessuno sa cosa sia. L’amore non si può interpretare, né descrivere a parole. L’amore è. Davanti ad una bottiglia di vino, due amiche si ‘confessano’ mettendo a nudo i loro più intimi pensieri e le loro più segrete paure, dipingendo l’amore come un ‘felice dramma’ che annebbia la ragione e che, per un attimo di calore e di felicità, rende disposti a tutto. Può ferire e può deludere, ma basta uno sguardo per riaccendere la speranza: “Il giorno mi pento di averti incontrato e la notte… vengo a cercarti”. Amare è condividere. Amare significa ‘vedere’ il meraviglioso mondo immaginifico che si cela dentro l’altro. Il resto è solo un misero tentativo di fuggire al vuoto creato dalla solitudine. Le scene sono rese efficaci, non senza un pizzico di enfasi, attraverso l’esecuzione musicale dal vivo e grazie alle capacità di esegesi delle protagoniste, che riescono a coinvolgere il pubblico e a proiettarlo negli ‘attimi’ e nelle suggestioni emotive, a tratti malinconiche, altre introspettive o spinte fino alla disperazione. Ma, soprattutto, di grande ironia e comicità. Divertente commedia sul sentire femminile.
(Recensione di Carla De Leo)

Futuri voli
Le rivoluzione delle idee, da condividere in rete, una rete di relazioni. Luminoso divenire di società in ascolto. Perché il pensiero è un bene collettivo, quindi, il flusso va aperto e il giudizio sospeso. Ma passare dalla teoria alla pratica ha tutto un altro effetto. Accompagnato da una splendida coreografia. Efficace metafora della caduta delle facili utopie. Da vedere.
(Recensione di Francesca Buffo)

Sudo a fermo
Il treno tarda ad arrivare. Tre personaggi si ritrovano per caso sulla banchina della stazione, accompagnati dal ticchettio di una valigia…Tre vite apparentemente diverse quelle di Tiziano, commesso viaggiatore, Cassandra, donna in carriera e Martello, il clown. Tre esistenze dissonanti tra loro ma ugualmente in crisi. Una diversità che tuttavia si assottiglia mano a mano che la trama si dipana, tra dialoghi serrati e monologhi introspettivi, facendo venire alla luce la reale somiglianza e comunanza. I tre personaggi giocano con il loro ruolo in maniera esasperata, ognuno convinto assertore delle proprie verità, ognuno combattuto nella propria difficoltà. A essere rappresentata è l’esistenza umana in profonda crisi, che lacera l’animo fino a portarlo alla soluzione più becera e codarda: quel treno in stazione non arriverà mai, mentre sullo sfondo appare l’immagine di un uomo che si è impiccato dopo aver fatto saltare una bomba.Un tetro finale: “Hai ucciso quelli sulla tua stessa barca. Non cambi il mondo facendolo brillare”. Amaro, ma il graffio che intende lasciare sulla coscienza potrebbe essere più sferzante.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Quarto movimento
Gioia Montanari racconta al pubblico le 4 complesse fasi di vita della figlia di un ufficiale dell’esercito messicano, costretto all’esilio dalla rivoluzione ‘zapatista’ dei primi del novecento. La recitazione è sicura e profonda, il personaggio ben interiorizzato dall’attrice, che riesce a compensare qualche ‘legnosità divistica’ che poco ha a che fare con la passionalità erotica di una prostituta d’alto bordo messicana. Tuttavia, è proprio questo il merito principale della Montanari, la quale riesce comunque a raggiungere un’interpretazione convincente di una donna alquanto distante da se stessa. Intenso.
(Recensione di Vittorio Lussana)

#tessuto
Mia è alla ricerca della madre, una sarta che stava collezionando parole sino a dare forma a una sorta di ‘diario-patchwork’. La recitazione della protagonista, soavemente esotica, prende per mano gli spettatori inducendoli a camminare sul filo sottile di un lavoro costruito su un equilibrio tra teatro, disegno dal vivo e musica live. Il risultato è un’opera splendida, delicata, toccante, una vicenda di abbandono dolorosa, ma al contempo, dolce. Una menzione particolare per la regia, un impegno collettivo realizzato a più mani che è riuscita a coniugare sperimentalismi ed esperienze provenienti da direzioni distinte. Il risultato è rivoluzionario: un nuovo modo di fare teatro che lascia sperare in futuri ulteriori sviluppi, sia per la compagnia in questione, la Cascina Barà, sia per il teatro stesso nel suo complesso. Fresco, originale, incantevole.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Hamelin
Chi non ricorda la storia del Pifferaio magico di Michael Ende? Hamelin è liberamente tratto da questa famosa novella, per una messa in scena prettamente allegorica e favolistica. Il tema di fondo è quello del ricco e del povero e delle differenze sociali che li distinguono. Una sceneggiatura semplice, con una recitazione in rima, conduce lo spettatore a porsi domande riguardo all'amara condizione del mondo. Un modo di affrontare il teatro civile, di denuncia, che satiricamente pone colui che assiste a comprendere i problemi e le illusioni dei falsi idoli - le religioni e i ‘governanti’ - in un mondo nel quale il denaro sembra essere l'unica gretta risposta, la soluzione a ogni singolo problema. "Il potere risiede dove gli uomini credono che esso risieda": è questa la manipolazione delle menti che la società mira a conservare, escludendo tutti coloro che, avendo compreso l'avvenuta distorsione della verità, cercano di illuminare il prossimo. Una vicenda messa in scena con essenzialità, che tuttavia cerca di ‘pungere’ l’animo di coloro che assistono. Un’ora di denuncia, un’ora di caduta nel mondo.
(Recensione di Ilaria Cordì)

Gedeone
L’incontro tra Ada e Gedeone sembra casuale, con un ‘tocco’ iniziale gradevolmente underground. Ma poi la loro vicenda si rimescola sino ad assumere i contorni di una graziosa metafora sull’amore, vissuto come un romantico volo di due rondini nel cielo. La vicenda, tuttavia, si sviluppa come tutti gli amori: il rapporto nasce, cresce, matura, ma a un certo punto finisce, poiché Gedeone, che Ada aveva incontrato in un sottopasso con un’ala ferita, è ormai nuovamente in grado di riprendere il suo volo e non necessità più di cure e attenzione. I progetti di vita dei due protagonisti si rivelano, dunque, diversi. E, alla fine, avviene la dolorosa separazione. Poetico.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Sirene
Il canto di dolore delle sirene, metafora di vite e tragedie consumate in mare. Donne naufraghe su un'isola e nella vita ripercorrono la realtà dei 'viaggi della speranza' e l'indifferenza per le vite perse nell'illusione di un'esistenza e di un mondo migliore. Il dolore che si trasforma in odio e desiderio di vendetta in virtù di una giustizia indifferente. Quattro donne diverse, si svelano sul palco spiegando che anche il dolore è consapevolezza e il perdono è un atto di amore e speranza per la vita. La storia c'è, il ritmo un po' meno.
(Recensione di Francesca Buffo)

The oyster boy
La compagnia teatrale 'Haste' propone una rivisitazione della dark comedy burtoniana. Sei ragazze raccontano con allegria le vicende di un bambino nato da una storia d’amore. Ma il ‘frutto’ in questione è un bambino con la testa a forma di ostrica. Una commedia musicale (con un testo sviluppato in italiano, inglese e francese) sul tema della diversità e dell'emarginazione che lasciano lo spettatore rapito e sorpreso da un finale inaspettato. 50 minuti di risate e spensieratezza.
(Recensione di Ilaria Cordì)

Suite
Sarah Sammartino dedica al pubblico, con impegno e un certo carisma, tre ritratti femminili alla ricerca dell’amore visto come luogo di incanto interiore e spirituale il quale, tuttavia, si scontra con la banalità del codice ‘binario’ del mondo maschile. Le sfumature sono molteplici e ben recitate, soprattutto nel loro dolore e intensità. La sensibilità femminile, alla fine, si ritrova ingiustamente sconfitta dalla superficialità di un universo maschile incapace di comprendere la grande capacità di amare delle donne, anche di quelle più possessive e contraddittorie. Un confronto con l’altro sesso gestito secondo canoni non banali e culturalmente elevati. Alla fine, il quadro complessivo è quello di una condizione femminile che resta incompresa nelle sue complessità più profonde, sempre sul punto di dover cedere di fronte alle bassezze del gallismo sessista degli uomini. Le affinità elettive restano, dunque, sullo sfondo come una mera utopia. Bello.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Oscillazione
Un coinvolgente Daniele Tammurello analizza le contraddizioni della vita maschile irridendo tutti i canoni di deresponsabilizzazione sociale dell’uomo medio di provincia, sino alla teorizzazione del killer seriale. Un quadro sulla rabbia ferma sul confine della follia che, pur possedendo tutte le giustificazioni del caso, alla fine presenta la profonda crisi di identità del maschio italiano, stretto tra i numerosi problemi della vita quotidiana e incapace di intraprendere, o quanto meno di immaginare, una nuova e diversa evoluzione di se stesso. Un buon ritratto della solitudine dell’uomo italiano di questi tempi. Un testo moderno e attuale, insomma.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Incepe
È uno sguardo ironico sul tema dell’immigrazione: un equilibrio teatrale non semplice, dunque. Ed è forse questo il merito maggiore di una rappresentazione che evidenzia le contraddizioni che il nostro Paese, nei decenni passati, ha finito col trasmettere e diffondere nel resto del mondo. L’Italia è il Paese che sta “dall’altra parte del mare”, dice più volte la protagonista del monologo, molto abile nel mettere in scena l’ingenuità di tanti disperati che hanno cercato, attraverso la fuga, un riscatto da una condizione di autentica disperazione. La traccia ‘orwelliana’ viene espressa attraverso immagini e canzoni di una televisione italiana frivola e leggera fino alla superficialità. E la crisi di identità che la protagonista vive nel corso della traversata sul classico ‘barcone’ di immigrati clandestini suscita simpatia ed affetto, pur nella sua drammaticità. Interessante.
(Recensione di Vittorio Lussana)

Testaccio spara
La musica iniziale, nell’attesa che gli attori si impossessino della scena, ci trasporta letteralmente indietro in quei difficili anni ’70 in cui poliziotti e bande armate hanno ingaggiato una dura lotta per le strade cittadine; omicidi che ancora oggi, a distanza di anni, urlano vendetta. Max è un vecchio dalla chioma canuta e dall’espressione un po’ spiritata, ha l’aria dell’uomo vissuto, che ora si presenta recitando salmi e preghiere, con quella convinta ‘devozione’ che lo identificano fin da subito come uno in cui pensiero e azione testardamente coincidono. Oggi come in passato. Anni in cui Max, oltre che star del cinema di azione, di quel genere polizziottesco anni ‘70, è stato uno dei protagonisti della lotta armata, convinto assertore delle sue idee e delle sue azioni. La sua storia si intreccia con quella di Walter, un giovane fissato con quel genere poliziesco, su cui intende fare un film che ‘rivendica’ il ruolo di figlio abbandonato. Fra i due nasce un confronto personale e ideologico. Le ombre di un passato violento, anni di lotta per un ideale, i corsi di guerriglia in Irlanda con l’Ira non possono ridursi a una parte in un film di un esaltato che crede di essere Thomas Milian. Una rappresentazione tra passato e presente che trasporta il pubblico fuori dal tempo, in un luogo irreale in cui i tre protagonisti si incontrano. Tragedia e ironia caratterizzano il testo bene interpretato dagli attori. Aurora Kostova (Katia) ha ben rappresentato la donna, ‘femme fatal’ del duro di turno, un po’ brilla, un po’ svampita, funzionale per i ruoli maschili della storia, proprio come le protagoniste, belle e sexy, del poliziottesco anni 70. È un bel tuffo in quel genere cinematografico che pescava materiale in una realtà cruenta, differente da quella di oggi. Meglio o peggio? Per Max “è come negli anni ‘70, ma è peggio, perché non c’è un pensiero sotto. Una mutazione antropologica in atto... Siamo passati dal gelo degli anni di piombo, al calduccio della merda”. Un presente dove le molotov lanciate contro il muro del suo garage descrivono la guerriglia moderna. Nulla di paragonabile alla guerra che lui ha combattuto.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)

Il venditore di attimi
Nessuno pone fine alla propria esistenza in un posto pieno di vita. Su questo assunto si sviluppa “Il venditore di attimi”, adattamento teatrale di Mariella Gravinese del romanzo omonimo di Accursio Soldano. Una tragedia familiare che ruota attorno al protagonista, Alfred, un cuoco che ha perso il lavoro e, di conseguenza, decide di farla finita recandosi sulla riva del mare. Proprio il lavoro era stato il motivo del suo allontanamento dal padre, che non ha più visto per cinque anni e che rivede giusto in tempo sul letto di morte. Ora quel lavoro non c’è più e rischia di rovinare anche le relazioni con il resto della famiglia: il peso della responsabilità familiare incombe al punto da spingere il padre-marito a recarsi su una spiaggia e tentare il suicidio. È qui che incontra casualmente un tizio ben vestito che incomincia a raccontargli storie. Dapprima Alfred si dichiara infastidito da quei racconti, i cui protagonisti sono tutti folli: dal medico di un ospedale psichiatrico a Ian, che trascorre ormai le sue giornate all’interno di una stanza coi suoi libri di geografia, in ricordo dei viaggi trascorsi. Il tempo, però, cambia le cose. Gli ‘amici’ di cui lo sconosciuto narra, hanno terminato male la loro esistenza, decidendo di ‘chiudere’ col passato, definitivamente. E Alfred? Posto dinnanzi al suo dilemma personale, cosa deciderà di fare? Il suicidio è là che incombe sotto le spoglie di una subdola soluzione, pronto a sollevarlo da ogni responsabilità e da ogni incertezza. Una rappresentazione suggestiva incornicia il dramma di un uomo, che crede di non aver più nulla da perdere, che accarezza la tentazione di un gesto estremo, un attimo in grado di spazzare via ogni angoscia. Un istante  che viene spazzato via dal racconto di altre storie, altre vite, altre difficoltà. “Vendo attimi, quelli che la gente perde quando sceglie”, racconta il personaggio misterioso. E forse, è proprio di qualche attimo in più che Alfred aveva bisogno per capire meglio se stesso. Una sorpresa finale rivelerà la verità di quei racconti e darà il senso alla storia.La pièce è un’occasione per riflettere sulla irripetibilità degli attimi che compongono un’intera vita e che spesso ci lasciamo sfuggire. Racconti orribili di ordinaria follia che “se ne va passeggiando per il mondo e non c’è luogo ove non risplenda”.
(Recensione di Gaetano Massimo Macrì)




(servizio tratto dalla rubrica 'Roma Fringe Festival 2013' pubblicata sul sito web www.periodicoitalianomagazine.it)
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