La proposta di legge che vengo a illustrare in questo numero di ‘Laici.it’ intende fornire, alle coppie che non intendano impostare la propria vita in base alla regolamentazione civilistica tipizzata dalle norme sul matrimonio, la possibilità di optare per uno strumento regolativo pattizio più snello e leggero.
L’idea nasce dalla constatazione di una fenomenologia che ha ormai acquisito dimensioni socialmente imponenti, oltreché largamente sottostimata dalle statistiche in quanto tendente a sottrarsi ad ogni rilevazione. La proposta, dunque, non intende imporre autoritativamente il nuovo istituto alle coppie di fatto che vogliano rifuggire da ogni vincolo giuridico, ma soltanto offrire una possibilità di scelta in più a chi desidera usufruirne. Si tratta, in sostanza, di prendere atto che il pluralismo della nostra società non consente più, se non al prezzo di gravi e inutili costi sociali, di imporre alle famiglie non tradizionali una drastica scelta fra due sole opzioni: il matrimonio tradizionale da una parte e l’assenza assoluta di qualsiasi riconoscimento giuridico e perfino di tutela in caso di eventi imprevisti, dall’altra.
Non deve più accadere che a chi ha convissuto con una persona, magari per trenta anni, possa esser negato perfino il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale e che le famiglie di origine possano addirittura impedire l’accesso al luogo di cura e lo escludano da ogni decisione riguardante il proprio compagno malato e incapace di agire.
Non deve più accadere che, attraverso l’istituto della riserva a favore dei legittimari sia vietato al testatore di lasciare in eredità il proprio patrimonio alla persona con la quale ha condiviso l’esistenza e, anche in assenza di eredi legittimari, che tale eredità venga falcidiata dalla stessa tassazione prevista per i lasciti a persone estranee al defunto, discriminazione aggravata dalla recente modifica del regime fiscale sulle successioni.
Non deve più accadere che trattamenti punitivi di questo genere vengano previsti al solo fine di sanzionare le scelte di vita dei cittadini che semplicemente non ritengano adatta alla propria unione, o non condividano, per alcuni suoi aspetti, la normativa matrimoniale attualmente vigente.
Ancor più grave è il fatto che tale trattamento punitivo venga inflitto a chi non ha potuto nemmeno scegliere se sposarsi o meno, perché l’attuale legislazione matrimoniale italiana non prevede la possibilità di sposarsi per due persone dello stesso sesso. Agli omosessuali italiani, che come tutti gli esseri umani non hanno scelto il proprio orientamento sessuale e, quindi, affettivo, è oggi vietato di scegliere un qualunque tipo di regolamentazione giuridica dei rapporti familiari e di coppia creatisi attraverso convivenze stabili, anche pluridecennali. E tuttavia, va detto che il presente disegno di legge non è strumento atto a perseguire o a realizzare la parità di diritti per i cittadini omosessuali - parità pur prescritta e imposta da principi costituzionali fondamentali, come quelli che regolano l’uguaglianza formale dei cittadini, senza distinzioni, fra l’altro, di “condizioni personali”, e la loro “pari dignità sociale”, nonché la tutela dei loro “diritti fondamentali” non solo come singoli, ma anche “nelle formazioni sociali ove si svolge la [loro] personalità”, secondo quanto disposto dagli articoli 2 e 3 primo comma della Costituzione -.
Alla realizzazione della parità formale ed effettiva dei diritti dei cittadini e delle cittadine omosessuali dovranno provvedere altri più specifici e avanzati (e forse più controversi) provvedimenti legislativi, del resto già formulati da alcuni dei proponenti la presente proposta di legge: provvedimenti analoghi a quelli già oggi vigenti in quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale. Come richiesto da princìpi sempre più acquisiti alla coscienza civile e giuridica europea, la parità di diritti per i cittadini omosessuali potrà infatti dirsi realizzata solo quando sarà loro consentito di scegliere di regolare la propria vita e i loro propri rapporti giuridici e patrimoniali optando fra le stesse alternative che sono a disposizione dei cittadini eterosessuali. Ciò non toglie, ovviamente, che questa proposta, se offre ai cittadini eterosessuali una possibilità di scelta in più, mira pure a garantire, almeno nella pratica, anche ai cittadini omosessuali una prima opportunità di risolvere molti drammatici problemi concreti e ad una prima forma di regolamentazione e di riconoscimento giuridico delle proprie unioni che non le confini obbligatoriamente, come ora, nell’impossibilità di fruire di ogni e qualunque forma di tutela e garanzia. Quasi tutti i Paesi europei che hanno provveduto a realizzare la piena parità di diritti per le coppie omosessuali avevano, del resto, già precedentemente adottato normative non discriminatorie sulle famiglie non tradizionali o di fatto, di cui potevano fruire anche le coppie omosessuali ancor prima dell’introduzione delle leggi sui cosiddetti ‘matrimoni gay’.
Come sopra accennato, la regolamentazione dettata per il patto civile di solidarietà non si applica alle famiglie di fatto che intendano effettivamente rimanere tali, perché decise non solo a non applicare alla propria vita lo strumento della vigente legislazione matrimoniale, ma anche a non attribuire alla propria unione alcun carattere giuridicamente vincolante. Per quel che riguarda le unioni di fatto per quei cittadini che non intendano neppure ricorrere al nuovo istituto, questo disegno di legge si limita ad assicurare una qualche minimale forma di tutela necessaria a salvaguardare gli interessati dai possibili effetti esistenziali catastrofici di eventi impreveduti, codificando e conferendo in tal modo sistematicità a regole in gran parte già introdotte dalla giurisprudenza.
Infine, la presente proposta non ha lo scopo di modificare in alcun modo lo status giuridico dei figli delle parti del patto civile di solidarietà: si è voluto così togliere ogni pretesto alle campagne demagogiche da tempo in atto e che brandiscono tale argomento come giustificazione al diniego di ogni riconoscimento giuridico delle famiglie non tradizionali.
Resta ovviamente il fatto che assicurare alle famiglie non tradizionali un nuovo strumento regolativo pattizio significa anche assicurare loro prospettive di maggiore stabilità e consistenza anche formale, a tutto vantaggio della condizione giuridica ed esistenziale di tutti i membri di tali famiglie, inclusi gli eventuali figli delle parti.
Dal punto di vista della posizione costituzionale delle famiglie non tradizionali, va preliminarmente sfatata una leggenda, negli ultimi anni sempre più insistentemente propagata dagli avversari di qualunque forma di riconoscimento giuridico delle unioni familiari di tipo non tradizionale.
Il primo comma dell’art. 29 della Costituzione non pone alcun ostacolo a tale riconoscimento. Tale disposizione afferma che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ma nulla afferma e nulla vieta circa il riconoscimento di altre forme di convivenza familiare. E ciò per il semplice fatto che un simile riconoscimento non sarebbe suscettibile di modificare, limitare, compromettere o intaccare in nessun modo e in nessuna misura i diritti o la sfera di autonomia delle famiglie tradizionali, che non ne sarebbero neppure sfiorate. L’articolo 29 primo comma, infatti, stabilisce soltanto che lo Stato non può fare a meno di garantire “i diritti” delle famiglie fondate sul matrimonio, alle quali viene così assicurata una relativa sfera di autonomia rispetto al potere regolativo dello Stato: di qui l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali famiglie. L’autonomia della famiglia fondata sul matrimonio come “formazione sociale intermedia”, non può essere invasa da interventi autoritari, come quelli messi in atto dai regimi fascisti che erano appena tramontati all’epoca dell’approvazione della Costituzione, o da quelli comunisti che stavano nascendo nell’Europa centrorientale, volti a soppiantarla a vantaggio di regolamentazioni autoritative di taglio statalista o collettivista e di modelli organizzativi o fini contrastanti con quello del libero e autonomo svolgimento della personalità dei suoi singoli componenti e di tutela dei loro “diritti inviolabili” (così definiti dall’art. 2 C.).
Anche in linea più generale, d’altra parte, è del tutto illogico pretendere che la particolare o rinforzata tutela esplicitamente garantita dalla Costituzione a una specifica situazione obblighi positivamente anche a denegare lo stesso trattamento ad altre situazioni socialmente analoghe o identiche: la garanzia costituzionale rinforzata di un diritto non implica di per sé anche l’obbligo costituzionale di negare la parità di trattamento ai casi in cui, pure, essa non sia costituzionalmente dovuta. Gli articoli 19 e 33 primo comma C. tutelano, in modo particolare, rispettivamente la libertà di culto e quella di insegnamento, ma nessuno si sogna di trarne la conseguenza che la libertà di espressione del pensiero in altri campi, garantita in modo meno incondizionato dall’art. 21 C., debba essere obbligatoriamente limitata al solo fine di sottolinearne un presunto minor valore o una minore dignità nei casi che non sono oggetto della tutela rinforzata prevista dagli artt. 19 e 33. Affermare in modo particolarmente solenne e impegnativo i diritti di qualcuno - perché la Storia recente e gli avvenimenti altrove in corso consigliano di farlo -, non equivale a vietare qualunque minimo riconoscimento dei diritti di qualcun altro. E, comunque, una così rilevante denegazione di diritti, per essere obbligatoria benché derogatoria rispetto a principi fondamentali della Costituzione, dovrebbe essere quanto meno formulata in modo espresso.
Ciò tuttavia non significa che, come già accennato, altre indicazioni, anche cogenti, non siano desumibili da altre disposizioni costituzionali. Una norma cardine dell’intero ordinamento costituzionale italiano come l’art. 3 primo comma C., che impone l’uguaglianza formale fra i cittadini come parametro fondamentale di legittimità della legge ordinaria, impone che situazioni giuridiche uguali siano trattate in modo eguale. Nella misura in cui situazioni giuridiche attinenti alle famiglie tradizionali siano identiche a quelle attinenti a famiglie non tradizionali, queste ultime devono essere trattate in modo identico.
Non solo, quindi, l’art. 29 C. primo comma non impone un trattamento differenziato, ma la Costituzione vigente nel suo complesso – e in alcuni casi gli impegni internazionali dell’Italia – impongono al contrario parità di trattamento e parità di diritti.
E ancora: si è detto che l’art. 29 C. primo comma colloca la tutela della famiglia nel quadro del sistema delle autonomie riconosciute alle “formazioni sociali intermedie”.
Tali “formazioni sociali”, che ricomprendono pertanto anche la famiglia tradizionale e matrimoniale, come caso speciale rivestono il ruolo essenziale di luoghi “ove si svolge la personalità” del singolo individuo, come recita l’art. 2 C. Come tali esse sono i luoghi all’interno dei quali “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”.
Che fra tali “formazioni sociali” possano riconoscersi anche le ‘famiglie di fatto’ comincia ad essere abbastanza pacificamente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza. Ed è altrettanto chiaro dalla lettura complessiva delle disposizioni costituzionali riguardanti le “formazioni sociali” e la famiglia che il loro fine comune è il pieno e libero sviluppo delle personalità e dei diritti umani fondamentali degli individui che le compongono (tanto che non ha mai avuto successo il tentativo di attribuire alla famiglia – neppure alla famiglia tradizionale e matrimoniale – il carattere di persona giuridica, titolare di situazioni giuridiche soggettive distinte e sovraordinate rispetto a quelle dei singoli componenti): è dunque evidente che, a questi effetti, qualunque discriminazione non potrebbe che ritenersi del tutto illegittima.



Parlamentare dei Democratici di sinistra
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