Vittorio LussanaIl recente festival di Sanremo ha evidenziato un conservatorismo nazional-popolare duro a morire, in cui poche sono state le vere novità presentate al pubblico, soprattutto sul fronte musicale. Non c’è nulla di male nell’essere conservatori, questo voglio sottolinearlo con estrema chiarezza. Tuttavia, dipende anche da cosa si vuol continuare a conservare nella nostra società, o se finalmente ci decideremo a rinunciare a molte delle nostre certezze, ad alcune convinzioni assolute e irriducibili. Pertanto, questa settimana voglio sottoporre ai lettori un’interessante chiacchierata che mi è capitato di fare di recente con David Riondino, un artista a tutto tondo - attore comico brillante, umorista, scrittore, autore e musicista – insieme al quale ho scambiato qualche idea sulle prospettive future del nostro Paese, soprattutto sotto il profilo culturale, artistico e della nostra possibile evoluzione sociale.

David Riondino, è vero che in Italia ci sono tantissimi giovani validi e di talento, soprattutto in campo artistico e musicale?
“Ma certo. E’ anche aumentato mediamente il livello di competenza nell’uso degli strumenti. Vent'anni fa a suonar bene la chitarra erano in quattro, adesso sono in molti: c’è chi suona l'ukulele, chi s’inventa strumenti elettronici come dei contrabbassi snodati che funzionano avvicinando le mani e il corpo a una sorgente di onde. Applicazioni di tecnologie avanzatissime, dall'elettronica alla musica, con una grande espansione del controllo audio-visivo. Insomma, se tu vedi certi computer, già li vendono con una gamma di montaggio ricca di tutti gli effetti. E’ quindi in atto una rialfabetizzazione artistica e musicale, che non ha più bisogno di accademie. Ciò non significa che siamo tutti dei ‘geni’, bensì che ci sono mediamente degli strumenti più avanzati, più alla portata di tutti e, quindi, molta più gente è in grado di suonare, di montare un brano, di scrivere o di lavorare. A fronte di questo, c'è un mercato che si è dilatato. O meglio: il mercato c'è, ma non ci sono i soldi. Se ci pensi bene, tu puoi fare un film con il tuo telefonino, montarlo e fare un capolavoro, puoi metterti d'accordo con degli amici che stanno in India, in Siria o in Asia e fare un video con delle location meravigliose, fartele spedire via internet, montare il tutto e metterlo in scena dentro il tuo computer. Un festival virtuale dentro a tutti i computer del mondo: son cose che qualcuno ha anche già fatto. A patto, però, che tu non viva di questo: il problema, chiaramente, è questo. C’è una grande dilatazione delle tecnologie, ma ciò non significa che a ciò corrisponda una dilatazione dell'occupazione. Ora, il problema diviene un altro: questo mestiere crea un diritto immediato all'occupazione, al viverci? Una cosa è fare l'artista, ben altra è vivere facendo l'artista. Vivere da artista in generale, siccome non c'è un mercato così ampio, ti costringe ad adattarti, a fare delle cose imposte da coloro che gestiscono i ‘posti’ o dalle strutture di distribuzione nel mercato, che non essendo degli artisti hanno in genere delle mentalità diverse da quelle degli artisti”.

Questa cosa sta accadendo anche a molti giornalisti, che si sentono proporre: “Senti, fai un’altra cosa che ti dia di che vivere, poi la professione la eserciti come hobby…”. Comunque, tu di recente sei stato testimonial di un progetto musicale della IYI Orchestra, che s'intitolava ‘Mal d'Africa’, collegato a un'operazione di beneficenza ben precisa. Dunque, volevo chiederti: che tipo di influenza ci sarà, in futuro, con l’avvento di una nuova società interetnica e multiculturale? Porterà delle contaminazioni ‘felici’, oppure cronicizzerà una situazione di caotico ristagno, soprattutto in termini occupazionali?
“Diciamo che ci sarà una mutazione della fisionomia della nostra società. Questo genere di mutazioni, per quanto si possa essere ottimisti, non sono soltanto segno della sorridente integrazione: spesso sono anche dei conflitti. La società si integra non necessariamente con guerre, ma sicuramente attraverso conflitti. In ogni caso, sta diventando una società come quelle che vediamo costantemente quando accendiamo la televisione o guardando qualsiasi film. Si tratta di quelle società in cui questo processo è già andato avanti, come per esempio negli Stati Uniti, in cui l'elemento interetnico è ormai fortissimo. Difficile che tu veda un telefilm di guerra o di spionaggio, tipo anche la serie ‘Csi’ e queste cose qua, in cui non ci sia un asiatico, un nero, un numero uguale di donne, di uomini, di razze e di costumi diversi. Vuol dire che è una socialità che si rappresenta come una società multietnica. E questo accadrà anche qui da noi. Basta che prendi un aereo e vai a Londra, a Parigi, o a New York e già lo vedi: vedi quello che saremo noi tra 15 o 20 anni”.

Quindi, qualcuno dovrebbe metterci una ‘pietra’ sopra, su questo?
“Sì. Stiamo parlando di conflitti che quei Paesi lì hanno già subito e superato, dove vi sono delle etnie molto identificate, molto organizzate, che hanno avuto modo di mettersi d'accordo con gli altri e patteggiare la condivisione di una città sulla base di principi che salvaguardino l'attività individuale, pagando le tasse per avere una serie di servizi. Il cittadino, di qualsiasi razza sia, funziona nell’organizzazione di una città. Per cui, le origini culturali sono garantite, ma tutto ciò viene condiviso in un rapporto con i servizi e con l'idea stessa di una città. Il che dà luogo a posti meravigliosi: New York, per esempio, è una città bellissima”.

Ma qual è il riverbero culturale di tale processo?
“Una grande energia, una grande vitalità, una grande abitudine a valutare quello che davvero l'individuo può fare, con la perdita, però, di tutta una serie di nostre caratteristiche, diciamo, latine, come il familismo, il senso di protezione, il sentirsi garantiti da tutta una serie di certezze”.

Potrebbe definirsi l’avvento di un nuovo umanesimo?
“Una cosa di questo tipo: una grande attenzione al valore oggettivo, in cui l'ideale è ‘retroposto’ e il mercato è molto veloce. In un certo senso, siamo un po’ condannati a tutto questo, ma abbiamo anche il privilegio, se vogliamo un mondo libero e dinamico, di poter avere una società molto veloce, in cui tutto si consuma, in cui dopo due anni nulla è più la stessa cosa. Noi siamo abituati a cicli molto più lunghi: vogliamo mantenere un certo ‘stile’ di civilizzazione. Invece, dovremo adattarci a un metabolismo molto più accelerato”.

Parliamo allora di linguaggi, di modi di porsi, di forma mentis e parliamo anche della satira: quanto attingeremo alla satira degli altri Paesi? Oppure, sta già succedendo e non ce ne rendiamo conto?
“Questa è una domanda molto interessante. A me capita, ogni tanto, di cercare di capire su internet quel che succede di nuovo. Internet è formidabile in questo genere di cose, poiché ti descrive quello che succede, al di là dei grandi fenomeni che le chiavi del mercato propongono. Ci propongono, per esempio, il signore che ha fatto ‘Borat’, decisamente satirico. Ma approfondendo, su internet trovi diversi altri esperimenti o proposte. Trovi che gli statunitensi hanno una forte e organizzata vena satirica e fanno anche dei bei spettacoli. Oppure che ci sono degli inglesi molto bravi: ce n'è uno biondo, con gli occhi chiari, che fa delle cose molto belle, molto fredde, molto umoristiche. Ce ne sono diversi, insomma. Anche le nostre città sono vive, per carità: non moltissimo, però qualcosa di innovativo c'è. E anche in questo caso mi sembra di capire che si muove quello che esiste non per ‘linee ufficiali’. Un tempo da noi poteva essere un problema scandaloso fare o non fare un programma di satira. Io, per esempio, l'unico progetto che ho fatto seriamente in televisione è stato un programma Rai con Sabina Guzzanti, fermato sin dalla prima puntata. Diventavano affari di stato, strategie complessissime, in cui c’erano in gioco le ‘teste’ dei direttori di rete. E ancora è un po' così, a dire il vero: qui da noi, la satira è sempre un evento peccaminoso e misterioso. Ma in realtà ce n'è molta di più, oggi. E la trovi dentro a questi canali di internet”.

Anche perché, in Italia, talvolta saltano le ‘teste’ dei direttori, mentre in altri Paesi saltano le ‘teste’ e basta, poiché ci sono ambienti in cui chi esprime un pensiero di questo tipo, anche in senso ironico, viene messo al bando: la rete è veramente l'unico luogo in cui ci si può esprimere liberamente?

“Sicuramente. Anche la libertà è un concetto in continuo divenire. Noi siamo abituati a vedere le cose in senso assoluto: la nostra libertà é una cosa che, dal '45 in poi, c'è, esiste, è quella e basta. E’ lì e tutto è finito. In realtà, si tratta di un valore che va costantemente difeso, che va aggiornato ed elaborato. Il mercato culturale continuamente si espande, respira. E internet, in questo ciclo storico, è la grande metafora tra individuo, relazioni sociali ed economia”.

Però, forse, è anche vero che il nostro modello culturale, sia a livello televisivo, sia a livello artistico, è un po' più conservatore degli altri: non so se noi genereremo mai un Lenny Bruce...
“Sai da cosa dipende? Dal denaro che gira o non gira: quanto più le società hanno un'economia veloce, rapida e dinamica, tanto più vengono richiesti prodotti e antiprodotti, o la critica stessa di questi prodotti. Tanto più sapendo che tutti contribuiscono, alla fine dei conti, al fatto che la macchina della vitalità e della creatività faccia girare un sistema economico-culturale: tanto più questo è vitale, tanto più produce la possibilità di grandi esperienze artistiche e anche satiriche”.

Da ragazzo volevi fare proprio quello che stai facendo adesso, oppure c'è ancora qualcosa di cui vorresti occuparti e che nessuno sa fare?
“Ah! Ci sono infinite cose che vorrei fare e che nessuno sa fare. Io ho sempre ragionato in questa maniera: se devo dire una cosa la dico. Poi, inizio una ricerca formale, che è la cosa che mi interessa di più, poiché la rende un ‘oggetto’ che, nel caso migliore, rimane nel tempo, nel mio tempo. Però, se ho ‘zero’ scrivo una pagina, se ho 20 scrivo una canzone, se ho 50 forse faccio un film. Ma la cosa che sento di dover dire, comunque, la dico”.

Ma tu da bambino ti immaginavi così?
“Sì, ma nel senso che io - e qui devo deluderti - non ho mai pensato che vi fosse una relazione economica con l'attività artistica. Io la prima cosa che feci, una volta finito il liceo, fu di trovare un impiego statale. A quei tempi capitava e io ebbi la fortuna di essere assunto al primo concorso che feci presso le biblioteche nazionali. Quindi, andai in questo enorme luogo di sapere che era la videoteca nazionale di Firenze. E lì, lavorando come impiegato e facendo 6 ore al giorno, avevo una parte del giorno libera, alla sera potevo fare concerti, spettacoli satirici, mettere alla prova le cose che mi venivano in mente. Potevo quindi lavorare gratuitamente, perché la mia occupazione mi dava da mangiare. Come dicevi prima tu, al giornalista si suggerisce di avere un altro lavoro: io questo l'ho fatto, per dieci anni. Ho lasciato quel lavoro solo quando l'altro, quello artistico, mi ha messo nelle condizioni di guadagnare più soldi di quando facevo l'impiegato e, quindi, di poter cambiare impiego. Casomai, quel che non capisco veramente è perché, una volta fatte delle cose mie, non dovrei condividere i miei interessi con altri artisti, creando delle condizioni o delle opportunità anche per gli altri. Ora, io ne ho abbastanza per vivere, ma non per moltiplicare le cose. Tuttavia, se avessi 10 volte quello che mi serve e tu fossi un artista, la cosa che si dovrebbe fare, certamente, è pensare di usare una parte di queste possibilità per finanziare e produrre idee e progetti con altri artisti”.

Come fece Charlie Chaplin, quando si inventò la United Artist?
“Certamente. Oppure, aprire teatri, proporre produzioni, non necessariamente per migliorare le proprie cose, ma anche per aiutare qualcuno. Anche se è più bravo di me o di te”.

In questo, l'attore è come il giornalista: una professione che va un po' a cicli e quando ci sono i periodi di ‘vacche magre’ si fa molta fatica. Tuttavia, confrontandomi e intervistando colleghi e artisti, c'è anche chi ha una certa paura dei nuovi ‘talenti’, si teme che arrivi sempre qualcuno più bravo: non è così?

“Chiunque faccia questa attività sa subito riconoscere quelli bravi. Quindi, decide subito cosa fare, se continuare a imparare, oppure entrarci in relazione, trovare una forma di affinità col talento, che è la cosa che a me interessa di più. Oppure ancora, fare di tutto per fermarlo, o quanto meno per contenerlo. Sai com'è: se va avanti lui, non vai avanti te. Questa è una preoccupazione legittima quando hai 20-30 anni, ma dopo penso che non lo sia più. Credo che, fatti i dovuti conti, siano gli artisti più maturi, quando sono molto ricchi, a dover investire. Nel senso che, davvero, in certi casi ci sono ricchezze molto forti, molto significative. Non nel mio caso, purtroppo. Tuttavia, ultimamente io mi sto dedicando a un'idea con l'obiettivo di costruire una specie di situazione collettiva di teatro legata all'improvvisazione ‘in versi’, con artisti che hanno questo tipo di ‘pallino’ qua. Ce ne sono molti, soprattutto a Cuba e in Sudamerica, posti in cui sto lavorando per fare documentari e costruire una specie di gruppo di lavoro. Se ti chiedono Shakespeare, o se il pubblico ti domanda: “Fate Romeo e Giulietta”, tu fai Romeo, quell’altro fa Giulietta e si va avanti improvvisando in versi per un'ora, in una maniera meravigliosa”.

Inventandosi la qualunque…

“Ma siccome la cosa che piace a me è proprio questa, veder nascere il linguaggio e così via, quello che cerco di fare non è tanto imparare io a farlo più o meno bene, ma creare le condizioni per una compagnia internazionale in cui una decina tra i più bravi di questi artisti abbiano la possibilità di uscire da una situazione di reddito tipo 1000 o 1200 euro l'anno e se ne vadano in giro tutte le sere, pagati il giusto per fare una cosa in cui sono davvero dei maestri, molto più di me. Non che io sia generoso, ma perché mi piace vederli”.

In questo, siamo sulla stessa lunghezza d’onda, anche se, purtroppo, si tende a privare la società di una ricchezza che dovrebbe essere a disposizione di tutti. Ciò che è atto creativo e che viene dalla mente umana è una ricchezza che arricchisce gli altri, perché c'è chi è capace di pensare, ma c'è chi non è capace di creare e che, quindi, può arricchirsi solo ascoltando chi è capace di farlo…

“Soprattutto, diciamo, certe esperienze creative, in certi momenti, diventano contagiose, non tanto perché si pensa di fare quello che fa l'artista, ma perché ti viene data la possibilità di pensare che la vita è un continuo movimento inventivo”.

Perché ti vengono offerti continui spunti di riflessione?
“Perché ti fanno capire che ci si può muovere, che la bellezza esiste. Alla fine, è la bellezza il vero motore del nostro creare”.


Lascia il tuo commento

Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - martedi 28 febbraio 2012 13.18
Grazie, Susanna: il tuo giudizio lo apprezzo particolarmente per la tua grande professionalità. Forse, qualcuna delle domande poste qui è un po' lunga, da chiacchierone, ma proviene dalla sbobinatura di una trasmissione radiofonica di qualche mese fa, in un contesto assai più discorsivo. Ti abbraccio: ci sentiamo presto! E grazie ancora. VL
susanna schimperna - roma italia - Mail - lunedi 27 febbraio 2012 19.42
Pur non togliendo nulla alle risposte (Riondino mi è sempre piaciuto), proprio belle le domande.


 1