Giuseppe Caldarola, deputato dei Ds politicamente vicino a Piero Fassino ed ex-direttore responsabile de “l’Unità”, ci ha voluto spiegare in questa intervista perché una scissione del suo partito non sia fondamentale alla costruzione di una futura maggioranza di centrosinistra alternativa alla Casa delle Libertà.

Onorevole Caldarola, con lei vorremmo partire dalla questione del referendum sull’estensibilità dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: quali sono, a suo parere, le differenze sostanziali tra chi è favorevole e chi è contrario?
“La preoccupazione nasce da un giudizio che non chiede grandi divisioni, cioè il fatto che questo referendum crea il rischio di aprire una frattura all’interno del mondo del lavoro e di dividere una parte del mondo del lavoro dal sistema della piccola e media impresa. Tuttavia, esso pone una questione seria e vera: quella della disparità dei diritti che esistono tra i lavoratori, che non riguarda soltanto la questione della dimensione dell’azienda. A questo punto, le soluzioni in campo sono tutte presenti. Io credo che quella verso cui ci si sta ormai orientando, cioè la scelta di non partecipazione al voto, non sia giusta, poiché quando si discutono materie di questo genere sarebbe meglio non astenersi. La soluzione del ‘no’, invece, lascia campo libero alla posizione più dura nei confronti del mondo del lavoro e che, non a caso, è la posizione patrocinata dalla Confindustria e dal governo”.

Sta dicendo che, alla fine, è meglio recarsi alle urne e votare ‘sì’ quasi per il gusto di fare un ‘torto’ a chi, in passato, ha stimolato la discussione su quel determinato articolo dello Statuto?
“Diciamo che propendo per la tesi definita del ‘sì tecnico’. Ora mi spiego: un ‘sì tecnico’ riconosce che una questione di disparità di trattamento esiste, però si differenzia dalla posizione dei promotori del referendum in quanto ritiene che la soluzione da dare non riguardi il tema della ‘reintegra secca’ del lavoratore licenziato, ma quello della tutela di un congruo risarcimento nel caso in cui la reintegra non avvenga proprio. Questa soluzione mi pare più facilmente approcciabile, alla fine, con un ‘sì tecnico’ che non con l’astensione o col ‘no’...”.

Lei non vede acuirsi una frattura, nella sinistra in generale e nei Ds in particolare, su questioni di questo genere?
“La frattura c’è, indubbiamente: tra una parte dei cosiddetti ‘movimenti’, all’interno del movimento sindacale, che acuisce la distanza tra Cgil e Cisl, e anche tra i Ds, dove però questa è di carattere più trasversale, poiché vede collocata sullo stesso orientamento astensionista una parte della maggioranza di Pesaro con lo stesso Sergio Cofferati, il quale, in sede di Congresso, era loro oppositore. Invece, sulla posizione del ‘sì’ oggi si ritrovano, a ben guardare, esponenti come me, che fanno parte della maggioranza di Piero Fassino e persone che hanno vissuto la battaglia del ‘correntone’...”.

Ma in linea di principio, lei non vede giunto il momento, per i Ds, di una chiarificazione politica, insomma di una scissione?
“Io sono convinto che i Ds siano di fronte ad una fase di questo tipo: il lungo processo di avvicinamento alla cultura riformista è giunto abbastanza avanti, per cui non ci sono grandi differenze sulle tematiche, ma solo qualche diversità di atteggiamento politico, tra un riformista che opera nei Ds, uno che lavora all’interno della Margherita, un altro che si trova nello Sdi o anche un altro ancora che, in questa fase, non vuole stare da nessuna parte... Quindi, io credo che sia oggi prioritario stabilire un raccordo su questo punto: anch’io ritengo ci sia stata una deriva radicale, all’interno della sinistra italiana, dalla quale pare, per fortuna, si stia uscendo in tutta fretta. Tuttavia, il problema non è quello di scindersi, ma di ideare una più larga direzione riformista per l’Ulivo e, quindi, anche per i Ds, nella quale si potrebbe convivere tutti, non solo tra esponenti della stessa coalizione, ma anche dello stesso partito, dato che questo accade, per esempio, nelle grandi socialdemocrazie. Porre il tema della scissione, invece, finisce col ridurre il pluralismo interno al partito e, al tempo stesso, essendo ossessionati dalla tematica unitaria, riduce sia la forza della proposta radicale, sia quella della proposta riformista. I Ds devono con più coraggio guardare alla possibilità di un raccordo più forte con i riformisti dell’Ulivo”.

Perché i termini ‘riformista’ e ‘massimalista’ sono tornati così di moda nella dialettica politica della sinistra italiana?
“Perché non ce ne sono altri di effettivamente nuovi. Fondamentalmente, il termine ‘riformista’ io personalmente ritengo di poterlo difendere, in quanto lo scontro politico attuale di questo Paese dimostra che la cosa principale che l’Italia non può fare è quella di star ferma. Ma è anche chiaro che il Paese ha bisogno di una ‘Grande Riforma’, che riguardi i suoi assetti istituzionali così come i grandi capisaldi che reggono la società. Il termine ‘massimalista’, invece, corrisponde al fatto che c’è un pezzo comunque importante della sinistra che dà un peso importante a precise tematiche identitarie, collegandosi ad una lunga storia o, più in particolare, ‘all’ultimo berlinguerismo’, cioè non al Berlinguer che esce deluso dall’esperienza del compromesso storico, ma a quello teso a salvaguardare la ‘diversità identitaria’ della sinistra italiana per prospettare un progetto di alternativa democratica. Questo è uno scontro reale, oggi, all’interno della sinistra, non assimilabile a quello dei primi anni del XX secolo o degli anni ’40-’50, poiché il ragionamento non verte su chi si pone dentro e chi si pone al di fuori del sistema democratico: neomassimalisti e neo riformisti, oggi, comunque fanno scelte in linea con le logiche di un sistema democratico”.

Allora c’è un problema non sostanziale, ma formale, di mentalità? Voglio dire: una parte di quell’elettorato di sinistra che discende direttamente dal Pci ‘tardo-berlingueriano’ mantiene una nostalgia inconscia per una dialettica di natura sindacalistico-contrattativa o criticamente recriminatoria?
“Sì, questo è abbastanza vero. Difatti, quando lanciammo le tematiche dell’Alleanza per l’Italia e anche adesso che stiamo prospettando una forte riunificazione di tutte le culture in grado di delineare anche un processo politico più ampio, mi viene da riflettere sul fatto che il termine identitario, tra riformisti, non sia affatto la comune appartenenza ad un partito della ‘vecchia’ sinistra, né che abbiamo l’obbligo di ‘riprovarci tutti assieme’ solo perché siamo stati od eravamo tutti comunisti: abbiamo tutti dato una risposta diversa alla crisi di quell’esperienza, che è stata superata non per naturale evoluzione, ma in quanto implosa strutturalmente. Questo è il dato di partenza. Se assumiamo tale presupposto, diventa del tutto evidente che non possiamo più rileggere la Storia del passato e proiettarci nel futuro come se fossimo ancora 'dentro' a quella storia. E’ anche legittimo continuare a pensarlo, per carità. Ciò non toglie, però, che potrebbe essere politicamente sbagliato...”.

Negli anni del centrosinistra al governo non sarebbe stato meglio cercare un’intesa su un programma di riforme istituzionali di ampio respiro con la Lega Nord, anziché puntare sulla discesa in campo di Antonio Di Pietro?
“Sin dai tempi in cui ero direttore de ‘l’Unità’, io sono sempre stato piuttosto freddo nei riguardi di un’alleanza politico-strategica con Di Pietro, perché pensavo, e penso tutt’ora, che la figura di quest'ultimo vada sottoposta ad un confronto molto serio in quanto, allo stato attuale, esprime un consenso populistico e giustizialista, fenomeni che non mi sono mai piaciuti. La questione di un coinvolgimento della Lega Nord in un progetto di grandi riforme fu tentato all’epoca della Commissione Bicamerale: in quel tempo, anche di quell’esperienza non ero, francamente, entusiasta, ma analizzandola oggi credo si possa dire che chi si è preso la responsabilità di farla fallire fece una grave danno al Paese. Lì, in effetti, avremmo potuto dare una risposta ‘di sistema’ sia sulla giustizia, sia sul federalismo”.

E perché quel tentativo non andò a buon fine, secondo lei?
“Per la confluenza di tre fattori distinti: la cattiva volontà di Berlusconi, perché Fini non ha ‘la schiena dritta’ e perché c’è un pezzo di sinistra che quando sente di dover ragionare su come lasciarsi alle spalle un ‘vecchio porto’ per inoltrarsi verso rotte ancora inesplorate non ha questo coraggio, in contraddizione anche con la stessa tradizione togliattiana: Togliatti aveva, quando era necessario, il coraggio di ragionare e di dialogare anche con forze decisamente distinte e distanti da quella che lui rappresentava... Purtroppo, una parte della sinistra italiana rimane ossessionata dalla paura di precipitare in un regime fascista”.

Quali sono le forze o i personaggi con i quali si può trovare un’intesa strategica per il futuro? E’ ancora ‘in piedi’ il progetto denominato ‘ticket Prodi-Cofferati’?
“Io sono contrario al ‘ticket’, ma non per il cognome della seconda persona che lo comporrebbe. Il ‘ticket’ ha un senso per chi considera l’Ulivo, fondamentalmente, un ‘tavolo a due gambe’ più i ‘cespugli’: in tutti i miei ragionamenti, io parto invece dal presupposto che tutti siano uguali, che tutti i soggetti partitici siano paritari, sul medesimo piano qualitativo di ragionamento. A quel punto, essendo tutti uguali, siamo in grado di darci una leadership unica e il problema centrale non è più quello del ‘ticket’ bensì della ‘squadra’, cioè quello delle personalità in grado di collaborare, con ruoli ministeriali, nel futuro nuovo governo di Romano Prodi, abituandosi a ragionare come in Inghilterra, in Germania o in Francia, dove si elegge un Presidente, un Cancelliere, un Premier”.

Dunque, anche lei si sta orientando, ora che il centrosinistra è all’opposizione, verso la creazione di un Ufficio Politico, di una ‘cabina di regia’ per tutta l’alleanza di centrosinistra?
“Molti di noi si sono battuti per avere il Portavoce Unico alla Camera, ponendo anche il tema del ‘cabina di regia’, che rimane, a mio parere, un passaggio fondamentale, che non urta quello della definizione del programma, il quale va poi scritto assieme al candidato premier. Anzi, la ‘cabina di regia’ avrebbe specificamente il ruolo di costruire itinerari per arrivare, oltre alla definizione del candidato presidente – che c’è ed è Romano Prodi -, a quella della ‘squadra’ e dello stesso programma di governo. Insomma, la ‘cabina di regia’ sarebbe strumento essenziale per avviare definitivamente il processo, regolando e limitando, altresì, anche litigiosità o potenziali conflittualità interne...”.

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