Vittorio LussanaL’Italia delle ‘due parrocchie’ è destinata a implodere per tutta una serie di motivi culturali assai profondi. Lo schematismo bipolare prima, bipartitico poi, ha tratteggiato i difetti più clamorosi delle due classiche ipocrisie di fondo degli italiani: quella gretta e opportunistica delle destre cosiddette ‘moderate’, tesa a nascondere ogni genere di nefandezza morale dietro ‘paraventi’ puramente ‘formali’, insieme a quella burocratica e ‘schematista’ del progressismo cattocomunista, da sempre pervaso da forme di tatticismo finalizzate al congelamento di ogni duplicità, di ogni contraddizione, di ogni doppia verità, fino a teorizzare modelli assolutamente ‘sofistici’, completamente immaginari rispetto alle più autentiche logiche socio-antropologiche della nostra società. Le cause del grave equivoco in cui è incorsa la nostra classe politica e l’intera cittadinanza italiana di una seconda Repubblica assolutamente priva di ogni senso minimo di memoria collettiva, sono svariate e molteplici: l’Italia è un Paese da sempre avvezzo alla repressione sessuale, particolarmente esposto alle controffensive del cattolicesimo controriformista. La sola eccezione ammessa a tale soffocante influenza è sempre stata quella rappresentata dal cosiddetto ‘doppio senso’, che per lungo tempo ha fornito l’unica ‘valvola di sfogo’ di un regime culturale ‘pseudoperbenista’ traboccando nelle riviste e negli spettacoli teatrali. Ma alle donne italiane, tanto per fare un esempio, sino alla liberazione sessuale del 1968 non era permesso, secondo misteriosi canoni di imposizione comportamentale, né di indugiare con lo sguardo su un attore cinematografico di bell’aspetto, né di sorridere di fronte agli sketch dei comici più inclini alla battuta lasciva. Questo clima di castità culturale e verbale ha impregnato per interi decenni il panorama della produzione artistica, letteraria, cinematografica e persino televisiva del nostro Paese: mentre, a Parigi, Georges Brassens e Juliette Gréco, già negli anni ’50 del secolo scorso, interpretavano brani musicali imperniati sui testi di Jean Paul Sartre, qui da noi, sin quasi alla fine degli anni ’60, hanno imperversato le ‘marcette melense’ di Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’, ‘I cadetti di Guascogna’ e ‘I pompieri di Viggiù’), mentre il seguitissimo festival di Sanremo ha consacrato canzoni grondanti uno stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’), una satira tremebonda (‘Papaveri e papere’), lacrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’), squallidi inviti al servilismo (‘Arriva il direttor!’). I baci, poi, nelle canzoni italiane per lunghissimo tempo sono rimasti letteralmente proscritti, mentre l’amore è stato ammesso solamente per ricordare che generalmente va a finir male (‘Grazie dei fior’) o che comunque genera sofferenza e infelicità (‘Viale d’autunno’ e ‘Buongiorno tristezza’). Anche la prosa di giornali e riviste è spesso stata costretta a utilizzare un linguaggio stracarico di circonlocuzioni o sinonimie: ‘petto’ per ‘seno’, ‘stato interessante’ per ‘gravidanza’, ‘lieto evento’ per ‘parto’, ‘interruzione di maternità’ per ‘aborto’ e persino ‘pugno’ per ‘cazzotto’. Il culmine venne toccato quando il settimanale ‘Oggi’ pubblicò, nel 1954, un’inchiesta dedicata alle abitudini sessuali degli americani (si chiamava ‘rapporto Kinsey’) in cui l’editore, Edilio Rusconi, venne bruscamente richiamato a tradurre quell’indagine “in lingua italiana” sostituendo l’aggettivo ‘sessuale’ con ‘amoroso’ e il sostantivo ‘coito’ con il più poetico (?) ‘espansione sentimentale’. Magistrati e commissioni di censura, insomma, in questo Paese hanno sempre lavorato al fine di correggere, tagliare, modificare, modulare, manipolare e proibire come se non avessero nient’altro da fare. Nel cinema, la scure del bigottismo si è più volte abbattuta, tramite l’accusa di “scarso senso del pudore”, su autentici capolavori come ‘Il diavolo in corpo’ di Claude Autant–Lara o ‘Sorrisi di una notte d’estate’ di Ingmar Bergman, mentre per quanto riguarda il teatro, nel 1961 si è giunti addirittura a proibire la rappresentazione de ‘l’Arialda’ di Giovanni Testori. Nel campo pubblicitario, soprattutto nella presentazione di capi di abbigliamento e di biancheria intima, i pericoli erano addirittura all’ordine del giorno: mostrare l’attaccatura di un seno era lecito sui giornali femminili (“tra donne si può”), ma diventava pericolosissimo sui manifesti ‘murali’, poiché questi si imponevano allo sguardo dei bambini innocenti. Si dovette perciò seguire l’esempio dei rotocalchi, in cui le foto delle attrici venivano regolarmente ritoccate ricoprendo le scollature con pizzi e merletti, naturalmente al fine di evitare vere e proprie condanne penali per oltraggio al pudore. La gravità di una simile ‘etica dominante’, che ha sempre ‘sbandato’ tra un falso ‘buonismo’ di stampo ‘cattoprogressista’ e veri e propri trasalimenti ‘clericofascisti’, era rappresentato soprattutto dal fatto che questa veniva imposta soprattutto alle donne. Esse erano costrette ad atteggiamenti quotidiani di illibatezza e di riserbo, mentre per gli uomini un preciso ‘gallismo virile’, di diretta discendenza fascista, ha sempre rappresentato un modello di comportamento da interpretare obbligatoriamente. Questo ‘gallismo maschilista’, oggi fortunatamente in grave crisi di identità, è sempre stato un tratto del nostro carattere nazionale che il fascismo aveva fortemente incoraggiato e che il clero cattolico non ha mai voluto combattere. La Chiesa, in particolare, su tali frontiere culturali ancor’oggi è totalmente disarmata, o costretta a continui ‘arroccamenti difensivi’ e, nel tentativo di aggirare l’ostacolo, da sempre esercita una pressione spaventosa sui bambini attraverso un uso terroristico della confessione, che ha trasformato i cosiddetti ‘atti impuri’ nel peccato per antonomasia profetizzando, a chi pratica la masturbazione, una morte precoce, malattie veneree o addirittura la cecità. Il disinteresse cattolico per l’omossessualità, oggetto di un vero e proprio abominio sociale, è la più esplicita di queste gravissime ‘spie’ di discriminazione materiale e morale, poiché la stabilità del matrimonio cristiano deve rappresentare il perno primario di ogni istituzione sociale, nonché il luogo di riproduzione elettiva della fede e del culto. Una sessuofobia di tal genere è dovuta principalmente a una forma di gravissimo disagio culturale, che finisce col trascendere ogni rispetto verso le leggi dello Stato in quanto sintomo di insicurezza di fronte ai fenomeni di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita individuali. Ma attenzione: anche il Partito comunista ha sempre imposto ai propri militanti un’etica sessuale molto severa. La riprovazione generale circondò sempre la convivenza tra Palmiro Togliatti e Nilde Jotti, la rottura del matrimonio tra Luigi Longo e Teresa Noce o la sofferta omosessualità di Pier Paolo Pasolini. Ciò, naturalmente, a causa della necessità di sottrarre argomenti a una propaganda che attribuiva al marxismo la teoria del ‘libero amore’ e nella convinzione che una sessualità non ‘regolata’ fosse frutto di degenerazioni del sistema capitalistico. Sta di fatto che l’accordo di fondo tra queste due soffocanti pedagogie collettive, quella cattolica e quella comunista, ha finito con l’incidere profondamente sull’equilibrio psicologico e sul destino sociale di intere generazioni di italiani, specie nelle aree più marginali, dove più strette erano le usanze e più facile la sorveglianza sui singoli individui. Ciò ha finito col reprimere l’immaginario erotico del nostro Paese arrestandolo a uno stadio puramente adolescenziale, nonché ribaltando ogni metro di giudizio pedagogico nei confronti delle generazioni più giovani, come argutamente denunciato dallo scrittore Giovanni Arpino nel libro ‘L’amore in campagna’: “Proprio i ragazzi più sfrontati, più allegri, più intelligenti, che meno si preoccupano di violare tacite leggi, sono quelli condannati a restare nel ‘mucchio’, a essere privati di una fortuna normale”. Insomma, il nostro Paese paga lo scotto di un’immaturità culturale, comportamentale e persino erotico-sessuale che lo pone, già da tempo, ai gradini più bassi di coerenza logica e morale rispetto agli altri Paesi occidentali. Basare la propria vita quotidiana su comportamenti in cui ogni scelta, professionale o di vita, non risulta quasi mai ‘agganciata’ a modalità basate su sistemi di principio applicabili concretamente, bensì su una concezione della cultura come mero ‘bagaglio formale’, in cui ciò che si è studiato e approfondito deve necessariamente scontare, nei suoi passaggi applicativi, una sorta di ‘esclusione’ che finisce col rendere il patrimonio formativo di ogni singolo cittadino un qualcosa di inutile o persino di dannoso, crea questo genere di sconquassi: una classe imprenditoriale ‘pasticciona’; un ceto politico di basso, bassissimo, livello; un apparato amministrativo pigro e inconcludente. La risposta di reazione a tutto questo non può, dunque, neanche essere una ‘nuova sinistra’, come ritengono il pur valente Nichi Vendola o l’ingegnoso Beppe Grillo, poiché servirebbe, in realtà, anche un nuovo centro, una nuova destra, un nuovo liberalismo, un nuovo socialismo, una nuova filosofia politica, insomma: una nuova Italia. Così come servirebbero una nuova Costituzione, una nuova Chiesa, un nuovo piano infrastrutturale, un nuovo modello imprenditoriale, una nuova etica istituzionale. Tutto dovrebbe esser rimesso a nuovo nel nostro Paese, non soltanto la cultura di sinistra. Ma per far questo servirebbero anche nuove leadership, con grandi idee e ‘due palle’ grosse come una casa, caratteristiche di cui nessun esponente, al momento, sembra essere effettivamente dotato. Dunque, che fare, cara Italia? Continuare ad attendere cattolicamente l’intervento della Provvidenza divina? Oppure, vogliamo veramente darci una ‘mossa’ e scrollarci di dosso l’ipocrisia alla quale ci stiamo tutti quanti abituando?




Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile delle riviste 'Periodico italiano magazine' e 'Confronto Italia'

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