Vittorio CraxiZine El Abidine Ben Alì (definito più comunemente Zaba) non era il più conosciuto dei presidenti ‘padri-padroni’ del mondo arabo. Era, alla stregua degli Assad, dei Mubarak, dei Bouteflika e, ancor più, di Mohammar Gheddafi, un esempio della longevità politica del sistema di autoconservazione della funzione del moderno ‘califfato’. La sua rapida defenestrazione è stata salutata con gioia dal popolo, che aveva tenuto sotto un giogo poliziesco per oltre 23 anni. La stampa internazionale ha riempito le pagine dei giornali illustrando la vastità dei beni sottratti dal suo clan, frutto di una sfacciata corruzione che ha logorato dalle fondamenta il suo impero. Ma, al di là della conclusione grottesca di questa parabola politica, cosa è stata in realtà questa dittatura sofisticata nel Paese arabo più vicino al cuore europeo del Mediterraneo e considerato da tutti gli osservatori il più mite e moderato degli Stati islamici? Ben Alì è figlio purissimo della sua formazione nell’apparato della sicurezza e del ministero dell’Interno tunisino, la Guardia nazionale (la nostra pubblica sicurezza) e dei servizi di intelligence del Paese. La sua provenienza è stata la garanzia affinché il passaggio nella continuità con il ‘bourghibismo’ avvenisse in modo indolore e non traumatico. Ma ciò per cui egli si è saputo contraddistinguere, lungo il corso della sua permanenza al potere, è appunto il carattere assai sofisticato e moderno di un controllo assoluto del Paese, che non cancellasse, anzi che consolidasse, l’impianto laico e progressista della piccola Repubblica mediterranea. La garanzia di stabilità interna è stata, in realtà, l’unico atout che il povero Paese tunisino potesse offrire ai suoi partner economici privilegiati dell’Ue, che hanno accompagnato volentieri lo sviluppo e la crescita formidabile della Tunisia senza richiedere in cambio alcunché, sen non l’affidabilità e la stabilità di uno Stato considerato amico e non sufficientemente strategico nell’area mediterranea. Zaba era un uomo del popolo, nel senso che non proveniva dall’entourage borghese dei quartieri ‘alti’ di Tunisi, la borghesia militare o intellettuale che aveva accompagnato l’indipendenza del ‘56 e magnificato le gesta di Habib Bourghiba, ‘il combattente’. E le sue modeste origini lo avevano fatto entrare, per un lungo periodo, nelle grazie del suo popolo. Lo Stato non era solo ordine e disciplina, ma un intervento costante nello sviluppo delle aree urbane e contadine. E le case del popolo, le scuole, le biblioteche, le case popolari, gli interventi infrastrutturali che avevano modernizzato la Tunisia erano il segno evidente di una presenza assidua di un potere politico che aveva offerto uno scambio alla pari: l’assenza del conflitto sociale, delle libertà politiche, il divieto ai Partiti di origine islamica di partecipare alle elezioni, in cambio di un benessere sufficientemente garantito, una promessa di libertà economiche e di proiezione del Paese nella nuova dimensione globale dell’economia. Mentre passavano gli anni era evidente che questo ‘patto sociale’ non sarebbe durato a lungo: la globalizzazione mordeva il fragile sistema economico tunisino e la redistribuzione dei redditi diseguale tagliava in due il Paese. Zaba, che non è un leader politico, non si rende conto che l’ossessivo controllo sociale, unita all’esplosione di un dirigismo pressoché personale di alcuni gangli vitali dell’economia (in particolare della grande distribuzione e della telefonia) rendeva troppo vistoso il potere familistico, cresciuto, in particolare negli ultimi dieci anni, con l’apparizione sulla scena della figura femminile della moglie, invisa tanto ai settori dell’islamismo più tradizionale, quanto alle élite borghesi della capitale, le quali nutrivano l’avversione verso la ‘parrucchiera’ divenuta presidentessa. Ben Alì offrì lo status di “rifugiato politico” a mio padre Bettino, (in realtà, l’antico trattato bilaterale italo-tunisino offriva l’argomento giuridico per rifiutare l’estradizione, che pure assai blandamente qualche volta veniva sollecitata da Roma) e ripeteva agli amici che se gli italiani gli avessero chiesto Bettino Craxi, lui gli avrebbe “pisciato in testa”. Egli, infatti, considerava l’uomo politico italiano uno dei più coraggiosi difensori della causa araba e, interpretando il popolo tunisino, nutriva per la causa palestinese un particolare sentimento di partecipazione e di solidarietà attiva. Quest’ospitalità e protezione fu assolutamente discreta e non invasiva, tranne una volta quando, organizzando una ‘riunione-assemblea’ di socialisti italiani non lontano dalla capitale, Craxi fu invitato a soprassedere e a sospendere l’incontro. Zaba, uomo dagli occhi furbi e dall’ampia gestualità delle mani, mi ricevette due volte dopo la scomparsa di mio padre. La prima, ricordo bene che si dilungò sull’illustrazione delle potenzialità del web e dei profondi cambiamenti che avrebbe portato anche nella società tunisina. Mi disse pure, commentando ‘l’affaire Lewinsky’, che il vero nervo scoperto per  un uomo politico sono i soldi, le donne e la malattia, quasi a preconizzare le ragioni che lo condurranno alla fine. La seconda e ultima volta che lo vidi, insistetti con lui sulla necessità di una più robusta apertura del sistema tunisino alla dialettica democratica e sull’abrogazione della pena di morte (la Tunisia, con Ben Ali, divenne abrogazionista di fatto). Egli ribadiva, sbagliando, che la nazione era ancora molto giovane per consentirsi un sistema totalmente all’occidentale e che “l’esportazione della democrazia” vaticinata da Bush aveva accresciuto l’ostilità verso il mondo occidentale. Egli  non si fidava della sicurezza del suo Paese: come in una battaglia di Risiko, temeva infiltrazioni dai suoi confini più vulnerabili “io sono uno dei primi della lista per i fondamentalisti islamici”. Zaba, lasciando il Paese che ha governato per 23 anni, porta con sé il bagaglio delle sue intuizioni, ma anche delle sue ossessioni. Era diventato, suo malgrado, il primo sulla lista di tutti: del suo entourage politico, che aveva tenuto sotto scacco per anni con una girandola di promozioni ed esclusioni (egli  prevedeva che soltanto lui potesse eternamente succedere a sé stesso); della gioventù colta e istruita, così come dell’esasperata massa sottoproletaria che aveva illuso e impoverito; della classe medio borghese professionale schiacciata dal peso e dal potere soffocante di una burocrazia di Stato arrogante e corrotta; dell’islamismo radicale interno e internazionale che aveva cancellato, esiliato, torturato e rinchiuso nelle galere patrie applicando la ‘dottrina Bush’; era il primo della lista di coloro che in occidente volevano farla finita con i califfati del Nord-Africa e importare la democrazia. La vasta e ricca letteratura politica islamica conforta nel ritenere realmente possibile far nascere istituzioni democratiche, ma certamente non nel senso che noi occidentali diamo a questo abusato termine, bensì in quello più consono che derivi dalla Storia e dalla cultura di quei popoli e quella civiltà. Nella cultura tradizionale dell’Islam e nell’esperienza moderna della Tunisia ci sono le basi per tendere al vero senso della parola libertà. E c’è da ritenere che a un tratto di quell’esperienza moderna abbia, nel bene e nel male, contribuito anche il lungo ‘califfato’ di Ben Alì.




(articolo tratto dal quotidiano 'il Riformista')
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