Celle sovraffollate, strutture inadeguate, personale insufficiente, sistematica violazione dei diritti umani e delle più elementari norme igieniche e sanitarie.
Questa la fotografia delle carceri italiane scaturita da una nostra rapida inchiesta svolta tra alcuni “illustri ex detenuti” – Davide Giacalone, ex dirigente nazionale del Pri, Clelio Darida, ex Ministro della Giustizia della Dc, Francesco De Lorenzo, ex Ministro della Sanità del Pli, Valerio 'Giusva' Fioravanti, ex militante dell'estremismo di destra e Sergio Segio ex appartenente alle Br -, ai quali abbiamo chiesto di compiere un viaggio a ritroso nel tempo e nella memoria per raccontare la propria esperienza negli istituti penitenziari del nostro Paese.
La domanda che abbiamo loro posto è la seguente:

Quali sono, secondo la vostra personale esperienza di testimonianza, le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane?

Davide Giacalone:
“Nel corso della mia esperienza nel carcere di Regina Coeli ho assistito a diversi episodi di palese violazione dei diritti umani dei detenuti, che nel carcere romano vivono in condizioni orrende, inumane, inaccettabili.
Quando ebbi modo di conoscere quell’inferno, avendo ancora fiducia in qualcosa di simile alla giustizia, presi carta e penna e presentai in più occasioni formale e regolare denuncia alle autorità competenti.
Raccontai ciò di cui avevo avuto esperienza diretta, a cominciare dal sovraffollamento delle celle, alla carenza del personale addetto all’assistenza sanitaria e sociale, fino alle incredibili condizioni igieniche in cui i detenuti sono costretti a vivere. Io stavo in una cella che era praticamente un ‘albergo diurno’, nel senso che eravamo in 18 in una cella per nove – una cosa davvero impressionante - e c’era un secondino addetto all’annuncio dell’assistente sociale e dello psicologo che ad ogni nuovo arrivato diceva: “Buongiorno, lei ha diritto ad un colloquio con lo psicologo. Sia chiaro che è un diritto e non un dovere, pertanto lo faccia solo se lo ritiene e, comunque, tenga presente che lo psicologo non c’è”. Cosa che gli abbiamo sentito ripetere una trentina di volte sino a divenire qualcosa di esilarante. L’assistenza che viene fatta all’ingresso, anche di carattere sanitario, è considerata la tipologia di quell’universo: fa schifo! Io, ad esempio, avevo in cella 4 o 5 tossicodipendenti, tra cui uno in violenta crisi d’ astinenza e non si è mai visto uno straccio di un avanzo di sottomedico. Si deve inoltre sapere che solo i tossicodipendenti ‘condannati’ hanno diritto per legge ad andare in comunità. In realtà, però, le carceri sono zeppe non di gente condannata arrestata ma di persone che nessuno ha mai condannato, tra i quali tossicodipendenti che non hanno questo diritto e che, comunque, in quanto tossicodipendenti, necessiterebbero di un’assistenza sanitaria per affrontare quella che può diventare una devastante crisi di astinenza. Per non parlare di quell’assistenza fondamentale laddove vi sono sieropositivi o malati di aids conclamati. Nella mia cella, ricordo, c’era un ragazzo sieropositivo e non vi è stata nessunissima forma di profilassi e protezione nei suoi confronti, né nei riguardi degli altri detenuti che con lui dividevano la cella. E questa è una cosa infame: l’assistenza a questo ragazzo l’abbiamo prestata noi, a mani nude e senza alcun tipo di disinfettante. Quando ho chiesto l’alcol mi è stato negato perché dicevano che avremmo potuto dare fuoco alla cella. Nella mia prima denuncia alla Pretura Penale di Roma, denunciai altre forme di ‘tortura’ cui venivano sottoposti moltissimi detenuti, la grandissima maggioranza dei quali in stato di custodia cautelare e, quindi, non riconosciuti colpevoli di alcun reato e che venivano tenuti in regime di isolamento. Questo non perché ricorressero motivi disciplinari o perché fosse stato espressamente richiesto dalla magistratura inquirente, ma in quanto il primo ‘braccio’, quello dell'isolamento, funziona anche da prima accoglienza e lì si rimane fino a quando non si liberano i posti nei ‘bracci’ normali. In isolamento si rimane ammassati in diedi, dodici persone in pochi metri quadrati, con servizi igienici in uno stato inimmaginabile, con un'assistenza sanitaria inesistente (ho personalmente ricevuto una terapia senza mai, dico mai, essere stato visitato) e, come se non bastasse, con il personale di sorveglianza che si arroga il diritto di contraddire le prescrizioni del medico. All'interno del primo ‘braccio’ si trovano due celle, la 4 e la 4 bis, dette ‘celle liscie’. In esse viene introdotto il detenuto che, a giudizio del personale di sorveglianza, merita una punizione. Queste due celle, se si trovassero allo zoo, comporterebbero la denuncia del direttore per maltrattamento delle bestie. La loro stessa esistenza contraddice non solo le leggi di questo Stato, ma anche il più elementare rispetto della persona umana. La carcerazione in Italia è una forma di tortura. Eppure la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo proibisce anche la sola ipotesi di tenere nello stesso posto cittadini arrestati per motivi di indagini o comunque prima di una qualsiasi condanna e cittadini invece che sono stati effettivamente riconosciuti colpevoli e condannati. Alla faccia della Convenzione dei Diritti dell’uomo che ha valore di legge costituzionale! Vorrei ricordare che lo stesso Capo dello Stato, nell’augurare buon anno agli italiani, ha detto, poco tempo fa: “Attenzione, perché in Italia la carcerazione viene utilizzata come una tortura”. Ma, nonostante l’autorevolezza della fonte, nessuno sembra aver preso la cosa in considerazione come un problema vero. Ed è utopia costituzionale pensare che chiudere le persone in un posto, facendole stare 23 ore e mezzo al giorno chiuse in una topaia, abbia qualcosa a che vedere con la rieducazione. Il carcere è un’istituzione meramente retributiva e punitiva, ovvero tu hai commesso un reato e io ti punisco tenendoti in carcere. Ma, anche questa sanzione priva di pretese educative deve comunque rimanere nell’ambito delle cose ‘umane’. Che un tossicodipendente venga abbandonato nel bel mezzo di una crisi in mezzo ad altri signori che non sanno né hanno alcuno strumento per soccorrerlo, non appartiene alle cose umane, ma alla tortura. Tutti questi fatti sono stati da me puntualmente e regolarmente denunciati nel corso degli anni. Ebbene, non ho trovato un solo Procuratore della Repubblica disposto a dare seguito alla cosa, nemmeno in considerazione della presunta e violata obbligatorietà dell’azione penale. Non è successo assolutamente niente. Delle mie denuncie hanno fatta carta da macero. E, al macero, assieme a quelle pagine, c’è andata la giustizia così male amministrata da chi, occupato esclusivamente dalla propria carriera, fa fatica a doversi occupare anche dei propri doveri”.

Clelio Darida:
“Dal 1981 al 1983, io sono stato Ministro della Giustizia e dieci anni fa ho provato personalmente l’esperienza del carcere. L’ultima rilevazione che feci sulla situazione degli istituti penitenziari italiani risale, in verità, al 1999, quando cioè scrissi un libro sull’argomento. Dopo quella data non ho più seguito la situazione, ma ho l’impressione che, dal ‘99 ad oggi, le cose non siano molto cambiate. Secondo la letteratura che esiste in materia, il carcere dovrebbe essere non solo una misura cautelare – per difendere la sicurezza dei cittadini – ma anche una sede di rieducazione. Non a caso, il motto del corpo della polizia penitenziaria è ‘vigilando redimere’. Per vigilare, si vigila, ma nessuno viene redento. Anzi…Questo aspetto, molto importante, della rieducazione, che poggia su necessità di agevolare il diritto al lavoro e l’insegnamento ai detenuti, purtroppo è proprio quello che viene meno. E la causa di questa grave lacuna è, perlopiù, l’eccessivo affollamento che caratterizza gli istituti penitenziari del nostro Paese. In qualità di Ministro della Giustizia, venti anni fa visitai le carceri italiane e lavorai molto per ovviare il problema. Stilammo anche un piano di edilizia carceraria, cosa che potrebbe costituire ancora oggi una possibile risposta al fenomeno dell’ ‘overbooking’, in quanto assistiamo ad un notevole aumento della popolazione penitenziaria anche a causa dall’incessante flusso di immigrazione clandestina nel Paese. Purtroppo, però, l’affollamento delle carceri cresce in modo inversamente proporzionale al miglioramento dell’edilizia penitenziaria. E sarebbe invece importante operare in questo senso: nuove costruzioni e un miglioramento qualitativo degli impianti potrebbero portare grossi benefici. Il sovraffollamento è la causa scatenante: il funzionamento delle strutture penitenziarie, poi, per forza di cose diminuisce. Quando, ad esempio, io stavo a San Vittore c’erano addirittura celle che ospitavano 8-10 detenuti ammucchiati uno sull’altro: in quelle condizioni, insomma, cosa vuoi fare? Ogni tanto, sia per sfollare le carceri stesse, sia le scrivanie ‘ingolfate’ dei giudici, si fanno questi provvedimenti - vedi amnistia, indulto, indultino -, che sono però come un’aspirina, una pasticca contro il mal di testa che cura il sintomo ma non la malattia, poiché il fenomeno entro breve tempo tende naturalmente a riprodursi. Allora la risposta teoricamente è semplice: ulteriore sviluppo dell’edilizia penitenziaria e depenalizzazione. Il personale come tale non è carente: le nuove leve che vengono dalla scuola della polizia penitenziaria sono notevolmente migliori della figura tradizionale del secondino o del carceriere e, anche l’assistenza sanitaria, è notevolmente migliorata. Ma, in presenza di un pesante sovraffollamento, anche questi miglioramenti perdono larga parte della loro efficacia. Anche se, ripeto, in base a quanto constatato di persona, notevoli migliorie sono state apportate anche a livello sanitario. Certo, non è l’optimum, ma oggi vi sono strutture carcerarie più moderne. Insomma, io non darei un giudizio totalmente negativo alla struttura sanitaria penitenziaria, così come non mi risulta che i diritti umani dei detenuti vengano calpestati. Le rimostranze che arrivano non riguardano qualcosa che dipende dal sistema penitenziario: si lamenta, perlopiù, la lentezza dei giudizi. Questo è, in verità, il fenomeno molto grave: in carcere dovrebbe esserci una maggioranza di detenuti in espiazione, per cui esiste, cioè, una condanna definitiva e una minoranza di detenuti in attesa di giudizio, per i quali funziona il precetto costituzionale della presunzione di innocenza. Invece, il rapporto è rovesciato. Non ho statistiche recenti alla mano - anche sono stato portato a interessarmene dopo averne avuto diretta esperienza – ma, in ogni caso, siamo molto lontani dal tipo di proporzione auspicata. Buona parte dei detenuti sono in galera in attesa di giudizio e questo, per inciso, determina anche situazioni psicologiche di frustrazione, insofferenza. Il carcere definitivo, sotto tale aspetto, è molto più tranquillo e ordinato di quello provvisorio, perché chi sta lì sa che ci deve stare un certo periodo di tempo, mentre invece chi è in attesa di giudizio è in uno stato d’animo sicuramente diverso. Ma il problema rimane ‘a monte’, poiché è un fenomeno che riguarda l’amministrazione della giustizia, non quella penitenziaria. I giudizi dovrebbero essere più rapidi: ci vorrebbe forse un’amministrazione di tipo americano, più sciolta, meno formale, anche se poi con me in galera c’era gente che doveva essere estradata negli Usa ma che preferiva restare nelle affollate carceri italiane, piuttosto che andare in quelle statunitensi, dove il funzionamento tecnico è nettamente migliore ma nel quale il clima di convivenza non lo è affatto”.

Francesco De Lorenzo:
“Tra le tante vicende di cui sono stato direttamente testimone ne posso accennare qualcuna che può dare un’esatta fotografia del problema del mancato funzionamento di quelli che sono i riconoscimenti e i benefici previsti dalla legge per i detenuti. Ricordo, ad esempio, un ragazzo che aveva già scontato quasi tutta la pena e che aveva diritto ad usufruire della liberazione anticipata, ossìa sei mesi di detrazione della sanzione. Lasciato l’istituto penitenziario, non gli è stato consentito di fare ‘dall’esterno’ la domanda per avere questo riconoscimento. E’ stato dunque costretto a tornare in carcere e attendere tutto il tempo della decorrenza della pena residua: insomma non è riuscito ad avere quello che era un suo diritto, cioè la liberazione anticipata. Allo stesso modo, le posso raccontare di tantissima gente che è in attesa, per esempio, di avere l’affidamento al servizio sociale o di ottenere riconoscimenti di liberazione anticipata per usufruire di benefici come quello dei permessi per recarsi in famiglia o della semilibertà, benefici che vengono concessi con ritardi spaventosi. La questione della quale oggi si discute tanto, vale a dire l’indulto o l’indultino, va perciò vista, a mio parere, nell’ottica non tanto di concedere delle facilitazioni ad uscire dal carcere a chi, avendo avuto una pena, la deve scontare per intero - poiché si può anche non condividere, in linea di principio né un indulto né un’amnistia -, ma non si può non essere d’accordo con la necessità che in un Paese civile e democratico si riconosca l’applicazione delle leggi anche ai detenuti. E questo, purtroppo, non avviene ed è un vero e proprio scandalo. Ciò che sta succedendo a Napoli in questi giorni è molto significativo: gli avvocati penalisti ritornano a fare sciopero dopo due anni per poter evidenziare ritardi spaventosi del Tribunale di sorveglianza di Napoli che non concede ai detenuti diritti che sono previsti dalle leggi dello Stato. Diritti, va detto, che sono invece riconosciuti da tutti i Paesi d’Europa e del mondo in misura superiore e maggiore di quanto avvenga in Italia. Peraltro, come forse chi da giustizialista continua a parlare della necessità di assicurare lo sconto della pena totale non sa, se non ci fossero certi benefici le carceri sarebbero ingestibili. Il problema del mancato riconoscimento dei diritti del detenuto è un nodo centrale, anche per ciò che riguarda la questione del sovraffollamento. Io stesso ne ho avuto diretta esperienza, poiché mi è capitato di dover stare anche in celle di 3 metri x4 con altre 5 persone. Ma, attenzione, la tragedia non era quella di vivere male l’affollamento fisico, quanto il vivere male per tutti i diritti negati ‘a causa’ dell’affollamento. La risoluzione del problema non va affrontata, come il Ministro Castelli va ripetendo insieme ai giustizialisti dell’ultima ora o di sempre, preoccupandosi di costruire nuove carceri – anche perchè basterebbe riattivare quelli che ci sono…-, bensì facendo sì che i Tribunali di sorveglianza funzionino. E che siano in grado di riconoscere i diritti nei tempi previsti dalle leggi dello Stato. C’è tanta gente malata che non esce di galera solo perché i magistrati dei Tribunali di sorveglianza o non hanno tempo, perché devono rispettare i numeri progressivi per prendere in considerazione le richieste inoltrate, o perché esistono ancora dei pregiudizi nei confronti del diritto a curarsi…E sappiamo poi come vanno le cose nelle carceri. C’è infine la questione, molto grave e di cui porto testimonianza diretta e personale, della difficoltà dei Tribunali di sorveglianza a riconoscere il diritto ai tossicodipendenti di andare nelle comunità o nei centri per la riabilitazione. E, anche in questo caso, ci sono delle leggi dello Stato che non vengono applicate, con difficoltà enormi per chi, tossicodipendente, è invece costretto a rimanere in carcere. Ho visto personalmente, nella ‘Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini’ con cui ormai da anni collaboro, giovani con problemi di tossicodipendenza non trattati adeguatamente nelle carceri, ‘perduti’ o diventati psicotici. E continuano ancora a stare in carcere! Bisognerebbe ricordare a quanti ritengono che si parli incoscientemente di anticipare l’uscita dal carcere ad alcuni detenuti, che questi ultimi non sono dei deportati, ma persone che devono scontare una pena che ha un suo limite. E che, soprattutto, il loro recupero, la loro rieducazione è tanto importante quanto la pena che devono scontare. Esemplare in questo senso la storia di un ragazzo di Piacenza avvenuta 2 anni fa. In carcere per piccoli reati – truffa -, dopo 10 anni è uscito e ha compiuto un reato di sangue, perché era pieno di odio e rancore. E ciò per conseguenza della mancanza di una rieducazione, del rispetto del diritto al lavoro in carcere, per la mancanza di educatori, di psicologi…che sono largamente sotto organico proprio per il sovraffollamento. Non basta, ripeto, costruire nuovi carceri, come qualcuno incoscientemente e irresponsabilmente sostiene: manca il personale, mancano le guardie carcerarie. Nel carcere di Civitavecchia, dove sono stato io, se ci fosse più personale potrebbero ospitare ancora più gente. Manca il personale! Per ottenere dagli educatori e psicologi dei pareri obbligatori ci sono dei turni di attesa. Dunque, se si vuole garantire il rispetto dei diritti dei detenuti anche in condizioni di sovraffollamento, con grande responsabilità civile, non ci si preoccupi di costruire nuove prigioni, che peraltro saranno disponibili tra dieci anni - cioè quando quelli che sono dentro oggi saranno già fuori o saranno morti -, ma ad allargare gli organici dei Tribunali di sorveglianza e ad aumentare il numero degli educatori, degli psicologi, il numero delle guardie carcerarie e, soprattutto, si applichi il regolamento carcerario, il quale, pur esistente, non viene affatto attuato. Non si può ad esempio andare di notte nelle celle a svegliare i detenuti per fare i controlli con la luce al neon, quando il regolamento dice che questi vanno effettuati con luci soffuse. Lo si faccia sapere ai giustizialisti di turno, che sono sempre presenti in questo Paese: un Paese che, da questo punto di vista, è incivile”.

'Giusva' Fioravanti:
“Lo sconcertato cittadino poco esperto che assiste all’ennesimo dibattito sull’indulto pensa: “A che serve un provvedimento di clemenza se già le leggi sono piene di buchi e i criminali escono con facilità”? La gente infatti ha un giusto bisogno di sicurezza e non ha più voglia di sentir parlare di diritti dei detenuti. Troppa retorica nei decenni passati sul delinquente che ‘poverino’ ha avuto una infanzia difficile o che, ‘poverino’, ha sbagliato per colpa della società e che, ‘poverino’, vien fatto stare troppo stretto in cella. Oggi la gente è stanca di questo buonismo a senso unico: chi sbaglia paghi, venga chiuso dentro e si butti la chiave… Che la cronaca registri ogni tanto degli insensati eccessi di garantismo è pur vero, ma l’indulto secondo me è un falso problema. Da anni le statistiche ci segnalano che, in Italia, circa il 90% dei reati rimane irrisolto. La sicurezza che lo Stato deve fornire al cittadino è l’individuazione di quel 90% di criminali, non l’estenuante discussione se a quel 10% che viene arrestato bisognerebbe far fare qualche mese in più o qualche mese in meno di carcere. Invece di tante dichiarazioni di principio pro o contro l‘indulto, bisognerebbe dunque mettere all’ordine del giorno di giornalisti, intellettuali e politici le risposte al perché le forze dell’ordine non sono, o non sono messe, in grado di perseguire ogni singolo reato con adeguata forza e efficacia”.

Sergio Segio:
“Adriano Sofri in un'occasione ha detto di sé: «Non mi sento un caso, sono una persona». Questa fondamentale considerazione va estesa a tutti i detenuti. Non vanno considerati numeri, peraltro in eccesso (oltre 56.000 persone sono compresse in 42.000 posti). Non sono ombre, pur se spesso non hanno possibilità o diritto di fare sentire la propria voce. Sono donne e uomini. Sono uomini e donne la cui vita e biografia non può essere interamente e unicamente appiattita sul reato che hanno commesso. Certo: hanno commesso errori, compiuto reati, talvolta violenze. Ma nella loro vita c’è anche altro, prima del reato e del carcere. Ci sono spesso violenze subite. Ci sono opportunità negate. Ci sono povertà cui sono stati condannati sin dalla nascita, come fosse un destino. Ci sono speranze e voglia di ricominciare a vivere, possibilmente in modo più dignitoso e giusto. Ci deve allora essere anche un dopo il carcere. Un dopo nuovo e diverso. Ma questo, il cambiamento, non dipende solo da loro, bensì anche dall’atteggiamento sociale, dal superamento dei pregiudizi, dalle possibilità concrete di avere quelle opportunità di lavoro, formazione, istruzione, abitazione che il più delle volte non hanno mai avuto. Ecco perché, lo dico da laico non credente, mi pare importante il messaggio davanti al Parlamento italiano con cui il Papa, il 14 novembre scorso, ha ribadito la necessità di una ‘riduzione delle pene’. Perché ci indica una nuova modalità possibile di confrontarci con questi problemi. Quella stessa che è nella radicalità del messaggio evangelico, con le parole di San Paolo nella Lettera ai Romani: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Romani 13,21). Vincere il male con il bene non è una semplice esortazione morale. È una nuova strategia politica e culturale con cui difendere la società dal crimine e, allo stesso tempo, recuperare alla vita, alla dignità e alla libertà quanti hanno ferito le regole della convivenza. Scommettendo sul recupero, investendo sulla prevenzione, sostenendo il reinserimento questa sfida si può vincere! Questo non è “buonismo”: è quanto la mia lunga esperienza mi ha insegnato e mostrato. Questo è anche il senso della nostra proposta, avanzata già durante il Giubileo, dell’amnistia-indulto accompagnati da un “piccolo Piano Marshall” per sostenere i percorsi di reinserimento sociale e lavorativo di quanti escono dal carcere. Il sistema attuale, la cultura predominante fondata sul pregiudizio, sulla rimozione, sulla paura, sul rinchiudere le persone e i problemi, in tutta evidenza è fallimentare, aggiunge sofferenza a sofferenza, danno a danno, emarginazione a emarginazione. Moltiplica e perpetua il crimine e la recidiva. Condanna sia chi vive in carcere sia chi ci lavora a condizioni indecenti e intollerabili. Bisogna avere il coraggio di voltare radicalmente pagina”.

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