Vittorio LussanaIl cardinale Angelo Bagnasco auspica uno svelenimento complessivo del clima politico. Ma poi critica la “sentenza surreale” della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sul crocefisso e l’ammissione del farmaco abortivo Ru486 da parte dell’Aifa, denunciando altresì l’esistenza di una pericolosa “ideologia di minoranza”. Bagnasco ci presenta, in sostanza, il doppio binario dell’attuale teologia cattolica: da una parte si chiede un clima maggiormente dialogante, mentre dall’altra si percepisce, con un certo grado di ansia, come il mondo cattolico nel suo complesso, da quello cristiano – sociale a quello clerico – integralista, stia cominciando a soffrire la sindrome ‘biblica’ del gigante Golia costretto ad affrontare un giovane pastore assai abile con la ‘fionda’: la cultura laica. Ecco come si spiega la contraddizione di una Cei che finisce col dare persino un certo peso specifico, politico e culturale, a questa “minoranza ideologizzata, che possiede grandi ramificazioni anche in ambito internazionale”. A 20 anni dalla caduta del muro di Berlino, le gerarchie ecclesiastiche si stanno rendendo conto che non hanno più a che fare con un ‘colosso’ ideologico assai contraddittorio come quello comunista, bensì con una “minoranza”. La qual cosa sembra creare assai più fastidio, poiché lascia trasparire la secolare intolleranza cattolica nei confronti proprio delle minoranze, insieme ad un atteggiamento generalista ideologico esso stesso. Per svelenire il clima politico non ci sarebbe alcun bisogno di particolari lezioni morali, bensì di una maggior consapevolezza politica, culturale e identitaria. Invece, la situazione attuale è colpevolmente caratterizzata da un nucleo clericofascista ‘cafone’ che sta riducendo il Paese ad un vero e proprio ‘cortile’ isolato dal resto del mondo, accompagnato da uno stravagante cristianesimo – sociale ‘neodemocratico’ che pretende di egemonizzare l’intera sinistra italiana allineandosi, di fatto, ad una deriva generalista diffusa nella società tramite il pesantissimo condizionamento di organi di informazione, affidati a giornalisti tanto irresponsabili quanto deontologicamente spregiudicati.  Proviamo dunque a riassumere, almeno per sommi capi, di cosa si sta parlando allorquando si denuncia l’esigenza di una scuola e di una cultura italiana effettivamente laica. Tra il 1946 e il 1951, il ministro democristiano dell’Istruzione pubblica, Guido Gonella, assiduo frequentatore di ambulacri vaticani, provvide a confessionalizzare brutalmente la scuola italiana di ogni ordine e grado. Circondato da un agguerrito stuolo di consulenti e coadiuvato da potentissime organizzazioni di insegnanti cattolici, egli riuscì in qualche modo a “legare l’avvento della democrazia postfascista ad istanze incentrate sullo sviluppo della partecipazione popolare attorno al dispiegamento della sua vocazione comunitaria e religiosa basata sulla famiglia, sui gruppi delle comunità locali e sulla Chiesa”. Gonella non si limitò solamente a saziare il desiderio di rivincita di ambienti decisi a disciplinare ‘otia e negotia’ di un settore particolarmente nevralgico dell’impostazione culturale, morale e civile degli italiani, bensì si impegnò a fondo anche al fine di rendere più proficuo, in termini moralistici, l’esercizio stesso dell’insegnamento, almanaccando una riforma della scuola media ‘unica’ attorno a criteri totalmente personalistici, che configurarono il triennio postelementare in quanto mero segmento dell’obbligo scolastico e non come un ‘raccordo’ per il proseguimento degli studi. Oltre a ciò, la scuola italiana, per interi decenni, è stata variamente inondata di testi e manuali assolutamente ‘sermoneggianti’. Come ad esempio i lavori di Fanciulli, Anguissola e Visentini, sponsorizzati direttamente dall’Azione cattolica, mentre nulla è mai stato fatto per assecondare un fondamentale istinto alla lettura dei ragazzi. Anzi, la letteratura per bambini e per adolescenti, da sempre infarcita di avventurismo ‘salgariano’ per i maschietti e dal ‘vezzosismo’ di Louise M. Alcott, - l’autrice di ‘Piccole donne’ - per le femminucce, venne addirittura condannata in quanto impregnata di ideologia ‘superomista’ (Salgari) o squisitamente ‘edonista’ (Alcott), mentre sarebbe stato più auspicabile un tratto culturale ispirato a un esotismo a sfondo coloniale e missionario. Venne allora l’epoca di angoscianti tentativi editoriali, come ad esempio la collana ‘Vie della sapienza’, curata da Piero Bargellini per l’editore Vallecchi, o l’ingresso nella narrativa del pedagogista Luigi Volpicelli con il suo, peraltro modesto, ‘Giuffé’. L’attenzione dei cattolici si concentrò inoltre sui testi di letteratura ‘coatta’, al fine di assassinare ogni forma di sapere eclettico e di passionalità giovanile alla lettura formativa attraverso l’imposizione scolastica di ‘pesantissime’ antologie – Centiloquio, Pagine aperte, Due secoli – alle quali l’instancabile Bargellini vi si dedicò nell’idiota convinzione che un semplice marchio di convalida ministeriale potesse renderle formidabili veicoli di trasmissione dei principi cristiani. Ma, proprio sul più bello, a scompaginare ogni piano di irrigimentazione della formazione culturale giovanile italiana giunsero, inaspettati e vincenti, i ‘fumetti’: un veicolo eccezionale di lettura facile e divertente. Subito, le gerarchie ecclesiastiche cercarono di debellarli, ora teorizzando interventi a colpi di forbice, ora investendo il mondo politico italiano di anatemi e di inviti a battaglie ‘campali’. Secondo Luigi Volpicelli, infatti, i fumetti nascevano “con la pistola in mano”, non potevano disincagliarsi “dalla rete di violenza e di sadismo che li rendeva allettanti” ed erano ‘figliastri’ di un cinematografo sulle cui nulle potenzialità didattiche il giudizio rimaneva inappellabile. Per la cultura cattolica, già allora si trattò di una sconfitta micidiale, causata da un cipiglio conservatore che riuscì solamente a sottostimare le geniali capacità artistiche di alcuni grandi disegnatori italiani (come, ad esempio, il ‘delirante’ Benito Jacovitti, con le sue tavole affastellate di surreali lische di pesce e di assurdi salami tagliati a metà). Nel settore della produzione cinematografica, la guerra fu ancora più cruenta, poiché proprio sul cinema, in realtà, confidavano i sacerdoti preposti agli oratori parrocchiali. In Veneto e in Lombardia, in particolar modo, lo ‘schermo’ divenne il più comune alleato del campetto di calcio. Ma un conto era possedere una buona rete di distribuzione e grandi mezzi di proiezione, ben altro disporre in quantità sufficiente le pellicole da proiettare. E ciò perché le indicazioni del Centro cattolico cinematografico erano talmente perentorie da arrivare al punto di non risparmiare alcun genere di film. Vennero ad esempio giudicati ‘pericolosi’ quei lavori che: a) contenevano o giustificavano, anche implicitamente, errori dogmatici e colpe morali come il divorzio, il duello, il suicidio, la maternità illegittima; b) mettevano in cattiva luce persone, istituzioni e cerimonie sacre e religiose; c) accreditavano princìpi antisociali o dannosi alla convivenza civile; d) contenevano scene immorali o gravemente provocanti, come scene di seduzione prolungate e suggestive, oppure nudità complete o quasi, anche se presentate in ‘siluetta’; e) proponevano danze che eccitavano passioni o mettevano in rilievo forme o movimenti indecenti. Lo sguardo dei giovani venne poi completamente ‘scotomizzato’ con la successiva preclusione di: 1) scene capaci di eccitare i sensi, come baci e abbracci prolungati; 2) scene, riviste e balli in abiti succinti, come quelle girate in locali notturni; 3) scene di svenimento; 4) motti salaci; 5) drammi, gialli e film polizieschi in cui il delitto era messo in luce favorevolmente, oppure in cui si insegnava, indirettamente, l’arte del delitto (furti, rapine e assassinii) per cui la pellicola riusciva in quanto scuola di delinquenza; 6) scene brutali e violente atte a educare allo spirito di violenza. In pratica, nelle sale parrocchiali risultò obiettivamente difficile proporre una programmazione solo ed esclusivamente ‘per tutti’ o ‘per tutti con riserva’. E si finì col dover ammettere anche dei film classificati come ‘per adulti’ pur subordinandoli ai ‘nulla osta’ della Commissione diocesana, poiché diversamente la programmazione e la stessa rotazione delle pellicole non avrebbe potuto essere soddisfatta dalla sola “produzione ammessa come lecita”. Ma proprio questo punto della cinematografia “ammessa come lecita” divenne il vero nervo scoperto della ‘presenza cristiana nella società’. Finanziariamente solide com’erano, nonché benvolute dal potere politico – soprattutto quando Giulio Andreotti si insediò alla presidenza dell’Ufficio centrale per la cinematografia, direttamente dipendente dalla presidenza del Consiglio dei ministri - le società di produzione cinematografica cattoliche dimostrarono di non possedere né il respiro culturale, né le capacità professionali necessarie a confezionare prodotti quanto meno dignitosi sotto il profilo artistico. E furono costrette ad assoldare veterani della macchina da presa o giovani registi emergenti, i quali offrirono le proprie competenze tecniche senza, peraltro, vendere l’anima: con la ‘Orbis’, ad esempio, collaborò lungamente lo stesso Cesare Zavattini, padre del neorealismo italiano, insieme a Pietro Germi, Alessandro Blasetti e allo stesso Vittorio De Sica. Tuttavia, la ricerca di una sintesi tra intransigenza ecclesiastica e produzione religiosamente orientata ma pur sempre verosimile, finì col generare risultati addirittura grotteschi, come ad esempio capitò per il toccante ‘Fabiola’, tratto dall’omonimo romanzo del cardinale britannico Nicholas Patrick Wiseman, che venne ammesso alla visione solamente ‘per adulti’ poiché vi comparivano “nudità difficilmente eliminabili dall’ambientazione di una vicenda della Roma dei primi martiri cristiani”. Questi e numerosi altri ‘corto circuiti’ finirono solamente col confermare l’impressione che la tanto ricercata ‘presenza cristiana nella società’ fosse tanto forte sul piano degli apparati difensivi quanto debole su quello delle attitudini creative, artistiche e propositive. E che, sotto la superficie di un’apparente uniformità, nel mondo cattolico covino da sempre sordi conflitti tra una gerarchia quasi esclusivamente preoccupata della vigilanza, dell’occultamento, della condanna e ‘schegge di laicità’ desiderose di svolgere un’attività in nome dell’elaborazione di nuovi linguaggi comunicativi. Ne fu la riprova ciò che accadde dopo che l’apposita commissione ministeriale negò il nulla osta per la circolazione nelle sale cinematografiche al film ‘Gioventù perduta’ di Pietro Germi: per tutta risposta, 35 registi italiani inviarono una lettera sdegnata di protesta al sottosegretario Andreotti, notoriamente vicino ai prelati della Curia. In calce a quel testo e alle denunce che esso conteneva (“ogni giorno che passa è un nuovo fatto, una nuova minaccia, un taglio al montaggio, un’osservazione sulla sceneggiatura, una modifica, un suggerimento, un sorvolamento, una telefonata…”) non facevano mostra di sé solo i nomi di Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini, Luigi Zampa, Luchino Visconti, Luigi Comencini, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ma anche le firme di Alessandro Blasetti, Mario Soldati (che aveva diretto per la ‘Orbis’ il cortometraggio: ‘Chi è Dio’?) e addirittura di Romolo Marcellini, il regista del leggendario ‘Pastor Angelicus’. Andreotti, tuttavia, non si intimidì e continuò imperterrito la sua politica di punzecchiature alla produzione interna, di indulgenza verso gli esercenti che non applicavano le norme sulla proiezione obbligatoria di film italiani, di ricorso a tutte le possibili ‘serrature’ censorie tese a tutelare, presso l’opinione pubblica internazionale, l’immagine di un Paese deturpato dalle calunnie dei neorealisti. Andreotti arrivò addirittura al punto di pretendere di insegnare il mestiere degli altri facendo pubblicare sulla rivista settimanale della Dc, ‘Libertas’, una sorta di breviario deontologico in forma di lettera aperta indirizzata a Vittorio De Sica, reo di disfattismo per aver denigrato l’Italia con la pellicola ‘Umberto D.’. Quella pagina segnò uno dei momenti più bassi di una cultura cattolica, che si è sempre rifiutata ostinatamente di voler indagare le movenze di fondo della società: “Se è vero che il male”, scrisse Andreotti, “si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che, se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di ‘Umberto D.’ è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. E’ stato detto che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un certo tipo di produzione, ma sempre con un limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni, senza le quali ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione”. In pratica, Andreotti affermava di avere la verità ‘in tasca’ in riferimento alla sua pretesa di oggettività: una superbia assurda, lontana intere galassie da ogni sano principio di libertà individuale, artistica e culturale. I sottosegretari succedutisi al pupillo di De Gasperi non si discostarono mai dalle linee maestre di un simile ‘testamento spirituale’. Così come non se ne discostò la commissione di censura istituita successivamente presso il ministero del Turismo e dello Spettacolo. A volerla ripercorrere, la storia delle mutilazioni, dei ritocchi e delle protesi a cui sono stati sottoposti soggetti e sceneggiature, ne viene fuori un’aneddotica spassosamente fosca e sinistramente esilarante: Aldo Vergano venne costretto a espungere da ‘Il sole sorge ancora’ la sequenza di un personaggio che sfuggiva a una retata nazista sgattaiolando da un bordello travestito da prete; il film ‘La passeggiata’ di Renato Rascel, rifacimento di una novella di Gogol che si conclude con un suicidio, venne corretto con un finale edificante in cui il protagonista restituisce fiducia alla prostituta di cui si è innamorato attraverso un ‘pallosissimo’ predicozzo; da ‘Suor Letizia’ di Mario Camerini venne amputata la scena in cui una monaca perdeva il ‘velo’ e un bambino con il quale ella stava giocando si stupisce di trovarsi di fronte proprio a una donna. Ma l’aspetto più grave di tali vicende riguarda le idee cadute in abbandono, i progetti rinchiusi per sempre nel cassetto, le opere mai realizzate per la censura imposta a registi sommersi da innumerevoli intimidazioni ‘virtuiste’ e da produttori spaventati dalla prospettiva del disastro commerciale: allo stadio di abbozzo incompiuto rimasero ‘Gli uomini del fiume’ di Carlo Lizzani e Felice Chilanti, che raccontava drammaticamente l’alluvione del 1951 in Polesine; ‘Noi che facciamo nascere il grano’ di Giuseppe De Santis e Corrado Alvaro, che trattava delle condizioni di vita dei contadini nei latifondi della Calabria; ‘Minatori’ di Massimo Mida e Carlo Cassola, che intendeva narrare le durissime giornate dei cavatori del grossetano; ‘Il prete bello’, di Luigi Zampa, tutto imperniato sul sottoproletariato ‘colorito’ di una piccola città veneta. Che la capacità dei cattolici di far presa sull’immaginario sociale attraverso il cinema dipendesse esclusivamente dai crivelli dei loro poteri di veto era dimostrato dal fatto che la produzione ammessa come lecita veniva spesso scavalcata da spettacoli popolari solo esteriormente in regola con i precetti della religione. Ad attirare un oceanico afflusso di pubblico, ad esempio, furono i film di Raffaello Matarazzo – in particolare la trilogia composta da ‘Catene’, ‘Tormento’ e ‘Figli di nessuno’ - che in non pochi finali emanavano ‘odore di sagrestia’ e che, tuttavia, possedevano una struttura assai stratificata, in cui la preponderanza della musica e lo stile della recitazione richiamavano il melodramma ottocentesco, la frequenza degli intrighi, dei colpi di scena e delle agnizioni era ricalcata sul romanzo d’appendice e i cui temi di fondo erano quelli di amore e morte, violenza e sangue, uniti a paure per colpe ancestrali, peccati originali, aborti, violenze subite, incesti, traumi incancellabili. Ma se le opere di Matarazzo fotografavano una società temporalmente immobile, scossa da pulsioni antropologiche più che sociali, umettata da un’irrazionalità folcloristica largamente diffusa ancora oggi, il cinema neorealista seppe invece presentarsi come il tramite più robusto – e senza dubbio più accorato – della rivalutazione di un’Italia arcaica e popolana che il governo delle camicie nere aveva cercato di dissimulare, piuttosto che soccorrere. Anche se i grandi maestri, da Roberto Rossellini a Luchino Visconti, si rifacevano a poetiche diametralmente diverse, tutti i loro film del ‘periodo d’oro’ del neorealismo erano accomunati dalla scoperta della gente di buon cuore che abitava le campagne e le periferie e che, negli anni della Resistenza e del dopoguerra, aveva saputo dar fondo a riserve di rettitudine sconosciute ai beneficiari dell’opulenza illusoria distribuita dal fascismo e ostentata nelle commedie di Mario Camerini. A prendere la parola sullo schermo erano i dolcissimi parroci di borgata di ‘Roma città aperta’, i pescatori di una palude polesana raggiunta dalla guerra prima che dal progresso in ‘Paisà’, i ragazzini sottoproletari candidi e ingegnosi di ‘Sciuscià’ e di ‘Ladri di biciclette’, le maschere dolenti di una Sicilia petrosa e senza storia ne ‘La terra trema’, i pensionati e le servette murati nello squallore delle loro camere in affitto in ‘Umberto D’. Si trattava di un’umanità integra e generosa, che doveva essere sottratta al male del ‘moderno d’importazione’ dopo che era stata guarita dall’ingannevole promessa dei telefoni bianchi, dei grandi magazzini e delle ‘mille lire al mese’. Alla causa di una democrazia identificata con l’ordine pubblico, ma infiacchita dalla sonnolenza e avviluppata nella noia, avrebbe dunque dovuto giovare la nostra televisione di Stato. Ma anche in questo settore vennero emanate delle norme di autodisciplina che, in molti punti, sembravano estratte di peso dalle indicazioni del Centro cattolico cinematografico. In televisione non erano consentite: a) la rappresentazione di scene che potevano turbare la pace sociale o l’ordine pubblico; b) l’incitamento all’odio di classe o la sua esaltazione; c) sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia, disordini pubblici, che tuttavia potevano essere rappresentati solo con somma cautela e sempre in modo che ne risultasse chiara la condanna; d) opere di qualsiasi genere che portassero insidia all’istituto della famiglia, che risultassero truci o ripugnanti, che irridessero alla legge o che risultassero contrarie al sentimento nazionale; e) particolare riguardo doveva essere mantenuto di fronte alla santità del vincolo matrimoniale e verso il rispetto delle istituzioni; f) il divorzio poteva essere rappresentato solamente allorquando al trama lo rendesse indispensabile e l’azione si fosse svolta ove ciò risultava permesso dalle leggi; g) le vicende che derivavano dall’adulterio e che con esso si intrecciavano non dovevano indurre antipatia verso il vincolo matrimoniale; h) attenta cura doveva essere posta nella rappresentazione di fatti o episodi in cui apparivano figli illegittimi. Autodisciplina a parte, nella messa a punto dei cosiddetti palinsesti le varie dirigenze della Rai che si sono succedute nel tempo hanno sempre oscillato tra una sottovalutazione delle possibilità del mezzo televisivo, una blanda vena enciclopedica e l’intento di educare l’italiano ‘medio’ sotto la luce in cui esso è sempre apparso ai suoi ‘tutori’ ecclesiastici. Gli spettacoli di maggior successo furono perciò i testi teatrali mandati in onda alla sera del venerdì; il programma ‘L’amico degli animali’, condotto da Angelo Lombardi, uno zoologo un po’ sgrammaticato; una rubrica di curiosità erudite, etimologiche e un po’ antiquarie dal titolo ‘Una risposta per voi’, affidata a un paffuto professore di biblioteconomia, Alessandro Cutolo, frequentatore, a Napoli, del mitico salotto di casa Croce. Inoltre, vennero introdotte le trasmissioni a quiz ricavate da modelli americani e francesi: ‘Lascia o raddoppia’ presentato da Mike Bongiorno, ‘Il musichiere’ condotto da Mario Riva, ‘Telematch’ con Silvio Noto, Enzo Tortora e Renato Tagliani, ‘Campanile sera’ ancora con Enzo Tortora e Mike Bongiorno. Questi programmi erano rivolti all’everyman con l’espresso scopo di rassodarne la tranquilla coscienza di benpensante. Tuttavia, ciascuno di essi finì con l’imprimere sul costume una propria impronta specifica e peculiare: ‘Lascia o raddoppia’ santificò una cultura nozionistica, mnemonica, del tutto priva di attitudini critiche; ‘Il musichiere’ preannunciò l’avvento di un dialetto romanesco leggermente ‘purgato’ come lingua nazionale del Paese; ‘Telematch’ creò modi di dire che divennero subito metafore di uso nazionale; ‘Campanile sera’, che si riprometteva un qualcosa di molto vicino ad un’operazione di affratellamento nazionale tramite la competizione tra due località italiane spesso assai distanti tra loro, rappresentò un vero e proprio atto di ratifica di un Paese composto unicamente da gonfaloni. Infine, per quanto piatti, insulsi e slavati, i primi telegiornali consacrarono definitivamente il successo del nuovo mezzo di comunicazione: storicamente in poca confidenza con la carta stampata, gli italiani scoprirono che il notiziario “in diretta” rappresentava una finestra sul mondo e, dietro le benedizioni, le varie pose di ‘prime pietre’ o l’inquadratura di qualche doppio petto ministeriale, essi poterono finalmente intravedere qualche ‘squarcio’ di verità. Questa è la Storia, per chi non la conoscesse, dell’egemonia cattolica sulla società italiana, un potere e un’influenza che hanno finito col ‘lobotomizzare’ intere generazioni di cittadini causando solamente danni psichici, pratici ed educativi che, a loro volta, hanno generato conseguenze totalmente opposte, di vuota omologazione o di netto rigetto protestatario, rispetto all’esigenza di formare una precisa identità democratica degli italiani, un popolo a cui ogni normale sentimento di orgoglio identitario e nazionale era già stato fagocitato e annichilito dal fascismo ed al quale è sempre stata resa difficile ogni altra valvola di sfogo umanistica culturalmente autonoma ed effettivamente sovrana.




(articolo tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.info)

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Claudio Raineri - Cambiano.Prov.Torino - Mail - sabato 21 novembre 2009 18.45
Complimenti vivissimi a Vittorio Lussana. Un articolo straordinario da conservare e da far leggere nelle scuole.
Vittorio Lussana - Roma - Mail - lunedi 16 novembre 2009 16.26
Grazie, Moschitta: ogni tanto discutiamo, ma questa sua attestazione di stima mi ha fatto veramente piacere.
VL
Antonio Moschitta - Foligno/Italia - Mail - lunedi 16 novembre 2009 15.27
Ottimo articolo, in cui Lussana dà il meglio di se.


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