Vittorio Lussana

In questi ultimi giorni, è risultato sconcertante notare come, dopo le dimissioni di Walter Veltroni da segretario nazionale del Partito democratico, abbiano imperversato, sui nostri principali organi di informazione, innumerevoli considerazioni - alcune parzialmente valide, altre totalmente deliranti – intorno al ruolo del Pd: quello cioè di rappresentare il nucleo di un futuro grande partito riformista italiano. C’è solo un particolare che continua a sfuggire a tutti quanti: il Pd non è mai stato un partito riformista, né potrà mai esserlo. Sulla base di una simile considerazione, tutto il ‘castello’ di carte venutosi a creare al fine di discutere su cosa fare o non fare, mi è apparso totalmente inutile e, persino, un po’ dannoso. Un partito composto soprattutto da comunisti pentiti e da democristiani dogmatici, tutto può essere fuorché il ‘nocciolo’ di una nuova forza politica autenticamente riformista. Intorno a ciò, rimango severamente fermo nel mio scetticismo, poiché evidenti appaiono sia il ‘furto’ dell’identità stessa del riformismo italiano, realizzato con la colpevole complicità dell’intero sistema dell’informazione italiana, sia la totale inconsistenza di un progetto che rimane miopemente ‘abbarbicato’ al moralismo giustizialista come unica vera ‘zattera’ ideologica di salvataggio. Nel Partito democratico, i post - comunisti hanno spasmodicamente bisogno di nuove ‘bussole’ culturali di orientamento. Dunque, mantenendo ferma una certa propensione giacobina verso un’etica di evidente derivazione ‘rousseauiana’, essi alternano, nelle proprie interpretazioni dei fatti politici, una ‘scopiazzatura’ del liberalismo civico dei radicali con la continua riproposizione di un ideologismo estemporaneo dalla forte impronta massimalista. Nel frattempo, sull’altro versante del partito, assai evidente appare la matrice di provenienza di molti ‘comunistelli di sagrestia’, una ‘corrente’ che non discende affatto, come alcuni sostengono, dal vecchio nucleo ‘moroteo’ della Democrazia cristiana, bensì da quello ‘dossettiano’ e ‘fanfaniano’ dei ‘professorini’, dando in ciò pienamente ragione a chi, dal centrodestra, proprio con tali aggettivi li ha da tempo ‘fotografati’. Aldo Moro era un ‘credente in partibus’, un cattolico disposto ad accettare anche evidenze fattuali totalmente opposte alla propria fede e ai suoi convincimenti. I cattolici del Pd, invece, fanno pieno riferimento a quel classico pedagogismo confessionale distante migliaia di miglia da ogni vera forma di progressismo civile. Sintetizzando molto, i post - comunisti del Pd sono in preda alla confusione più totale, mentre la rimanente ‘ala popolare’ del partito appare solamente un mero nucleo di allegri conservatori colti in flagrante ‘adulterio’. Come possa giungere a delle autentiche sintesi politiche riformiste un partito di siffatto genere e tipo non rappresenta affatto il problema di fondo della questione, quanto la vera e propria follia di un bipartitismo burocraticamente calato dall’alto, nella più finta e ‘borghese’ delle metodologie. Se ad un simile ‘pastrocchio’ affianchiamo inoltre la presenza di un movimento come quello guidato dall’On. Di Pietro, ecco che la sentenza di morte per l’intero mondo progressista italiano diviene definitiva e inappellabile. Passando poi ad analizzare anche l’altra ‘parrocchia’ del nostro panorama politico, ovvero quella del centrodestra, si approda invece ad una serie di conclusioni dotate di un maggior grado di coerenza, pur nella ‘mostruosità’ complessiva di ciò che effettivamente risulta essere il cosiddetto Popolo delle Libertà: un coacervo di forze raccapriccianti, di esponenti totalmente omologati ad un conformismo di massa che sbanda ipocritamente tra un misticismo autoritario e un utilitarismo opportunistico a dir poco miserevole. Nel Pdl qualcosa è ‘salvabile’, per la verità: l’intelligenza di Giulio Tremonti, la caparbietà di Claudio Scajola, il lodevolissimo tentativo del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di voler coniugare forme di laicità e di liberalità con una morale religiosa non dogmatica. In ogni caso, pur mettendo a fuoco tali valenze politiche dalla natura pressoché individuale, anche nel centrodestra italiano latita, con netta evidenza, ogni capacità di approcciare i problemi del Paese con autentico spirito di modernità e senso di concretezza: chi ‘vale’ qualcosa serve solamente a ‘salvare la baracca’ dalle continue derive qualunquistiche, dagli immobilismi imbarazzanti, dalle ‘ragnatele’ populiste più inquietanti. Tutto ciò compone un quadro generale devastante e devastato, in cui gli italiani non sanno più veramente a quale ‘santo’ votarsi. Sarebbe dunque il caso che molti nostri esponenti politici cominciassero a trovare il coraggio di occuparsi di qualcos’altro, anche al fine di dimostrare di non essere delle persone aride, totalmente corrotte dal proprio desiderio di potere. Un coraggio che Walter Veltroni alla fine ha saputo dimostrare. E di cui non possiamo far altro che rendergliene merito.


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Vittorio Lussana - Roma - Mail - mercoledi 11 marzo 2009 13.44
Risposta al sig. Antonio Moschitta: carissimo signor Moschitta, rispondo con piacere alle questioni da Lei sollevate. La prima, quella riguardante il moralismo giustizialista, è relativa ad una concezione della politica assai populista, tendente a descrivere un ambiente che, sebbene abbia notevoli difetti (immobilismo decisionale, caduta verticale della qualità di una larga parte dei suoi esponenti, qualche tendenza all'ubriacatura arrogante etc. etc.) non è poi diverso da tante altre realtà del Paese. La distinzione che sono solito utilizzare, in questo caso, è quella tra moralismo e moralità: il moralismo tende a giudicare con severità ogni cosa, immobilizzando un sistema. La moralità, invece, secondo me può rappresentare quell'elemento di equilibrio che, pur tenendo sotto controllo determinate distorsioni o malversazioni affaristiche della politica, dia modo di sviluppare concretamente delle realizzazioni concrete. In pratica, un tratto autostradale può anche prevedere qualche irregolarità, purchè venga costruito effettivamente, poiché zone 'grigie', in particolar modo in determinati settori, sono sempre esistite. Invece, con il moralismo si è giunti al paradosso di un mondo politico non ha più modo di decidere alcunché in termini di interesse generale, mentre quello imprenditoriale tende a 'saltabeccare' da un singolo esponente all'altro al fine di ottenere un appalto o una commessa dallo Stato: questo è stato il cambiamento, fortemente perggiorativo ed individualistico, ottenuto con il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Sulla seconda questione, sarei più o meno d'accordo con lei. Tant'è che ho chiuso il mio articolo riconoscendo a Veltroni di essersi opportunamente dimesso. Tuttavia, il danno, in termini politici, ormai era stato fatto: la sinistra si è rinchiusa in una torre d'avorio inseguendo il solito 'castello teorico' senza richiamarsi a radici culturali precise della storia e delle tradizioni presenti nel nostro Paese. Infine, riguardo all'on. D'Alema, ho avuto modo, nel recente passato, di poter collaborare direttamente, presso il ministero degli Affari esteri, con il suo Gabinetto ministeriale. E le faccio notare che, in quanto ex ministro degli Esteri, l'on. D'Alema, così come anche il valente amico amico Bobo Craxi, oggi possono vantare una sorta di 'percorso netto' in merito agli obiettivi da essi raggiunti nel corso del biennio 2006 - 2008, tra cui posso citarle: il seggio nel consiglio di sicurezza dell'Onu, la presidenza del Consiglio dei diritti umani di Ginevra, l'approvazione di una moratoria internazionale della pena di morte e la vittoria della campagna promozionale per l'Expo di MIlano dl 2015. Ho potuto analizzare molto da vicino l'operato del dicastero d'Alema, insomma. E le confermo i sensi della stima, politica e personale, che fondatamente nutro nei riguardi dell'on. D'Alema. Con la speranza di esser stato esaustivo, La saluto cordialmente.
VITTORIO LUSSANA
Antonio Moschitta - Foligno, Italia - Mail - martedi 10 marzo 2009 17.3
Sono d'accordo con quasi tutto ciò che ha detto Vittorio Lussana, anche per quanto riguarda la risposta a Pino. Ho però qualcosa da obiettare su tre punti.
Il "moralismo giustizialista" e il "giustizialismo" secondo me sono finzioni lessicali, con cui si vuole dare una connotazione dispregiativa al pretendere che i crimini dei colletti bianchi vengano puniti. Interessante esempio di doppia morale, dato che quando a delinquere non è un colletto bianco i cosiddetti garantisti diluviano inni alla severità. Fin dai tempi di tangentopoli, il lamento delle presunte vittime del "giustizialismo" a me è sempre sembrato un tentativo di rovesciare i ruoli e celebrare i processi fuori dalle aule dei tribunali. Mi piacerebbe leggere un approfondimento al riguardo.
Il secondo punto di disaccordo è sul confronto PD-PDL. Nonostante una certa contiguità con il PDL, il PD, per quanto ampiamente criticabile (e come detto prima condivido le critiche), è almeno provvisto di un minimo di democrazia interna. Lo prova la caduta di Veltroni e le sue dimissioni.
Il terzo punto di disaccordo è sulla presunta intelligenza di d'Alema, a mio avviso fortemente sopravvalutata. A me piace partire da fatti e risultati, e mi sembra che il soggetto abbia mostrato nel tempo capacità nel far fuori i propri alleati piuttosto che i propri avversari.
Cordialmente,
Antonio Moschitta
Vittorio Lussana - Roma - Mail - venerdi 6 marzo 2009 12.26
Risposta a Pino: comprendo il suo discorso. Tuttavia, mi rimane difficile non considerarlo opinabile. I riformisti, in Italia, si richiamano alla cultura laico-socialista. E, ad esempio sul testamento biologico, avete espresso posizioni assai contraddittorie. Non si inventa un'identità dall'oggi al domani, soprattutto se completamente sganciata dalle tradizioni culturali più autentiche. Avete creato un minestrone all'americana che non vi porterà da nessuna parte, poiché tutto si basa su un furto di identità che, con l'attuale nomenclatura interna, c'entra molto poco, a parte qualche intelligenza soggettiva (Anna Finocchiaro e Massimo D'Alema). Per farle un esempio semplicistico, che ho già proposto scherzosamente in passato proprio al fine di far comprendere questo messaggio, sarebbe come se, a partire da domani mattina, io decidessi di chiamarmi dottor House anziché chiamarmi come mi chiamo. Questo è teatro o, al massimo, cinema, non politica: mi dispiace, ma la penso così.
Un saluto.
VL
Pino - Roma - Mail - venerdi 6 marzo 2009 10.51
Non condivido le Sue valutazioni a dir poco pessimiste sullo stato del PD. E' vero invece che un partito nuovo, che pure si compone di forze eterogenee di diversa estrazione culturale, ha bisogno di tempo per poter coagulare attorno a sè forze capaci di esprimere proposte unitarie e condivise di riforma del nostro sistema politico sociale. Tale processo comporterà sicuramente la dolorosa perdita di una parte di quelle attuali componenti radical chic o democattoliche le cui idee confliggono con i valori di laicità che sono il nocciolo del nuovo partito. Ma tant'è, la democrazia è una creatura fragile che si sviluppa attraverso un lungo processo di maturazione e di convinzione. E il PD è un partito democratico, non dimentichiamocelo, capace di accogliere al proprio interno tutte le istanze di coloro che sinceramente e operosamente ne vogliono condividere i valori; manca ancora, è vero una capacità di sintesi; sono ancora forti le tensioni che portano a dividere piuttosto che ad unire, ma io credo non si debba ancora disperare. Chi crede veramente nella democrazia repubblicana farebbe bene a cercare e a valorizzare ciò che c'è di buono e genuino in questa nuova formazione politica piuttosto che continuare ad alimentare sospetti e divisioni che prima che al Partito sono nocivi alla nostra stessa libertà democratica.
Gianpiero - romaa - Mail - giovedi 5 marzo 2009 9.50
HA perfettamente ragione, lei è il verbo! E anche... la firma
Vittorio Lussana - Roma - Mail - mercoledi 4 marzo 2009 19.37
Risposta a Gianpiero: caro Gianpiero, capisco il suo punto di vista, poiché forse, conoscendomi, la penserebbe diversamente. In ogni caso, io non esprimo la pretesa di possedere una verità assoluta, ma la 'mia' verità, di cui me ne assumo piena responsabilità. Altrimenti non firmerei il volume di articoli, servizi, interviste e quant'altro io firmo, nell'arco di ogni anno, da più di un decennio. Sono logiche professionali previse a portarmi ad esprimermi come mi esprimo. Veniamo addirittura addestrati, se vuol proprio saperlo, ad esrpimerci come ci esprimiamo. Un giornalista non può scrivere: "A mio modesto parere", ma semplicemente "a mio parere", poiché firma ciò che scrive. E se questo non gliel'hanno ancora spiegato, sono assai dispiaciuto per lei, poiché fa la figura di voler insegnare un mestiere che non conosce agli altri: sarebbe come se io pretendessi di operare un'appendicite al posto di un medico... Determinati linguaggi, inoltre, dipendono anche dagli argomenti che si trattano, che non sono di semplice 'decodificazione'. Dato però che ci metto la firma, anche a costo di subire problemi, mi lasci per lo meno esprimere il mio punto di vista con piena sincerità, la prego. Conosco i rischi del mio mestiere. Tutatvia, se in quindici anni non ho ancora subito querela alcuna, forse non sono così esagerato come lei mi giudica. Anche perché, giudicandomi, lei dimostra soltanto di avermi letto, che è l'obiettivo principale del mio lavoro. E se le piace leggere solamente ciò che lei vuole sentirsi dire, la questione diviene completamente di sua pertinenza.
Cordiali saluti.
VITTORIO LUSSANA
Gianpiero - Roma - Mail - mercoledi 4 marzo 2009 13.35
Lussana, da ciò che scrive sembra che lei possegga la verità o meglio il VERBO... ma un pò di umiltà?


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