Davide Giacalone

Dal Vaticano s’allarga l’eco della rivelazione: a detta di due suore Antonio Gramsci abbracciò la fede cristiana, prima di morire. La notizia, prima ancora che vera o falsa, è irrilevante. Il lascito intellettuale di uno dei più potenti pensatori del secolo scorso non muta di una virgola, quale che sia la fondatezza della notizia. Difatti, posto che Gramsci era ateo, esistono solo tre possibilità. La prima è che sia una bufala. La notizia arriva da Luigi De Magistris, monsignore, cui la raccontò un altro prelato, Giovanni Maria Pinna, a sua volta fratello di una delle due suore. Sarà pur vero, come pare abbiamo raccontato le due religiose, che Gramsci non chiese mai la rimozione dell’immagine di santa Teresa del Bambino Gesù, dalla sua stanza del Quisisana (l’occasione torna utile per ricordare che morì in clinica, dopo un lungo ricovero, e non in carcere, come molti credono di sapere), ma non significa niente. Non era superstizioso, non aveva di certe fisime laiciste che prendono alla gola quelli che vivono in un mondo secolarizzato, ed il rispetto di quel che le immagini sacre rappresentano per i fedeli non è certo né uno sforzo né un sacrificio. Alla religione, del resto, Gramsci aveva dedicato molta attenzione. E non poteva essere diversamente. Quindi sarebbe stato strano un atteggiamento diverso. La seconda possibilità è che la notizia sia del tutto e profondamente vera. Anche in questo caso irrilevante. Per la teologia cristiana, infatti, il sopraggiungere della fede, vissuta come dono, non farebbe che confermare il presupposto dogmatico, ovvero l’esistenza della divinità. Mentre per tutti noi, credenti e non, quell’illuminazione ultima non modificherebbe in niente il pensiero di Gramsci. Saremmo, insomma, davanti a quel che si chiama “mistero della fede”, per ciò stesso interessante solo per chi ha la seconda ed accetta il primo. La terza possibilità comprende l’ipotesi che a muovere Gramsci non fu il divino, ma la terrena paura della morte. Non è facile ammetterlo, per chi ha potuto vedere lo spessore del suo pensare, ma indagare sull’animo di ciascuno, in quei momenti, quando l’eterno sfugge perché ti afferra, comporta un tale rispetto da imporre il tacere. De Magistris l’ha pensata diversamente, ed è affar suo. In tutti e tre i casi, appunto, non cambia niente. Gramsci accettò la perdita della libertà fisica per conservare la dignità intellettuale e politica. In quelle condizioni lavorò alle sue cose migliori, non solo isolato, ma avversato, fin dopo la morte, dai suoi stessi compagni. Egli era comunista, mentre io sono anticomunista. Ma sarei prima di tutto ignorante se non valutassi quegli scritti anche alla luce dell’epoca (morì nel 1937), e se non ricordassi quelli di Piero Gobetti, che sbagliò l’analisi della rivoluzione bolscevica. Nei confronti di Gramsci c’è un debito inestinguibile della cultura e del pensiero politico, debito che, con orgoglio, portiamo anche dentro di noi. E quel debito giustifica che oggi si avverta come a dir poco inopportuno l’annuncio di una conversione “de relato”, con tutte le fonti sepolte.





(articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 27 novembre 2008)
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