Aldo Torchiaro

L’Italia è un sistema a democrazia partitica che per tutti ha assunto l’epiteto di partitocrazia. Uscita dagli anni bui del fascismo con una guerra civile fratricida, ha puntato sul coinvolgimento sociale più vasto attraverso il prisma delle tante sfumature culturali nella prima fase repubblicana. Una rinascita di idee ma anche un florilegio di sigle, che insieme hanno messo uno sull’altro i mattoni delle istituzioni che ci hanno sin qui rappresentato. Un arco costituzionale inclusivo che, assicurando la stabilità del sistema con un partito-Stato di riferimento come la Dc, ha riservato al Pci un margine di potere importante ma ha anche saputo ripartire i carichi tra le altre forze, dai socialisti ai laici, che hanno partecipato – dagli ambiti periferici fino ai vertici delle istituzioni – alla direzione del Paese. La fine della guerra fredda e l’era della globalizzazione hanno sconvolto quell’assetto e consegnato il Paese a un futuro in cui, con la Seconda repubblica prima, e con la presente che in molti già chiamano Terza, tutto cambia. Il prisma si riduce ad un solido a due facce. L’architettura del mercato e quella del sistema creditizio, i loro ambiti e l’influenza di questi sul sistema Paese, forte di Pmi che competono mondialmente, abbandonano le prebende del passato. Le vecchie ragnatele clientelari non reggono ai nuovi ritmi. Mentre Unione Europea, Bce e Nato gestiscono ambiti di competenza sovranazionali, lo Stato si fa leggero. E con una testa che deve andare al passo coi tempi: il sistema di selezione e formazione della classe dirigente deve puntare sempre più su percorsi curricolari soggettivi, rafforzati da esperienze internazionali e nei settori privati più competitivi. La bioetica si impone con opzioni nuove, mai facili, mai scontate. La giustizia deve velocizzarsi ed essere sempre più autonoma dalla politica fin nei suoi organi di autogoverno, come gli ordini professionali, le cui vecchie regole mostrano le corde. L’informazione è terreno dei nuovi media, del web e dei canali satellitari, mentre ai suoi margini sopravvive l’anacronismo della radiotelevisione pubblica, delegata dal Parlamento alla Rai lottizzata dai partiti. Mentre i due poli diventano due partiti, instaurando un bipartitismo di fatto, la continua presenza delle sigle politiche come interfaccia tra istituzioni e “corpi intermedi” si fa ingombrante. Le competenze delle Regioni creano strapoteri locali nelle mani di eletti fragilmente esposti. Le nomine partitiche nelle Asl continuano ad essere la norma. Le partecipate municipali diventano carne da macello per gli stessi predatori. I membri non togati del Csm vengono esclusivamente selezionati tra i dirigenti di partito. Le redazioni Rai sono pesate col bilancino: se in altri Paesi europei per i giornalisti è vietato avere una tessera in tasca, da noi è un prerequisito obbligatorio. Un nuovo, tacito manuale Cencelli rischia di farsi largo in un quadro di regole che sopravvivono ai soggetti che le avevano volute e alla storia che ha fatto loro da cornice. Due grandi partiti non possono contendersi la spartizione del Paese, finendo col trascinare tutto il trascinabile nel ballo dello spoil sistem. In Europa non esiste alcuna democrazia dove la distribuzione dei poteri si riassume nell’occupazione vorace di due mani. I laici devono spezzare questa catena e invocare con ogni strumento la fine del regime dei partiti, liberare la Rai, esigere una rigorosa riforma delle assunzioni e delle carriere su base meritocratica e pretendere una trasparente anagrafe degli eletti per verificarne passo dopo passo l’operato pubblico. La democrazia non è una poltrona per due: o è per tutti, o non è.


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