Antonio Suraci

Il repubblicanesimo liberaldemocratico può legittimamente avanzare una serie di fondate pretese circa il proprio coinvolgimento culturale nella stesura della futura bozza di riforma federale dello Stato. Il principio federalista, infatti, in Italia discende direttamente dalla tradizione culturale mazziniana e dalle lucide elaborazioni teoriche di Carlo Cattaneo, una visione dello Stato che può ed anzi deve essere rilanciata, poiché rappresenta la ‘retta via’ da imboccare per una effettiva trasformazione solidale e democratica dell’architettura giuridica del Paese. Il federalismo leghista, infatti, da questo punto di vista trascende verso una concezione separatista, demogogica e populista del federalismo: si tratta di deviazioni ‘parzialistiche’, ‘decompositive’, che rischiano di dare un risultato opposto rispetto a quello sperato: un frazionismo privo di identità. Come rilevato in questi giorni da Giorgio Ruffolo sul quotidiano ‘la Repubblica’, “… l’essenza (del federalismo della Lega Nord, ndr) è il rischio di una deriva ‘privatista’, cioè la riduzione di ogni aspirazione a interesse privato, insensibile ad ogni tipo di valore politico che lo trascenda e insofferente ad ogni regola che si imponga alle pretese del ‘particulare’. Ma il privatismo è l’essenza stessa del populismo. Le formazioni collettive cui dà luogo non sono strutture: sono granelli di sabbia esposti al vento di correnti emotive, di suggestioni demagogiche e mediatiche. Emerge, in tal modo, una società informe, senza identità, una società in senso privato, di se stessa. Il pericolo non è un nuovo fascismo, ma la decomposizione nazionale e sociale…”. Le profetiche analisi di Mazzini e Cattaneo, ancora una volta potrebbero essere quelle più adatte a soccorrere il Paese evitando un federalismo separatista, egoistico nella sua formulazione, nonché privo di valori all’infuori di quelli più grettamente materialistici. Un federalismo ‘sordo’ sin dalle sue formulazioni di principio, si traduce in un federalismo cieco, per dirla in termini giuridici in un ‘antifederalismo’. Tale situazione rischia di venirsi a creare in seguito ad una serie di importanti giustificazioni storiche e sociali che fungono, per il federalismo di matrice settentrionalista, da ‘specchietto per le allodole’: la versione italiana del liberalismo si è tradotta, anche per evidenti esigenze di carattere pragmatico, non in una metodologia conseguenziale di modernizzazione e di sviluppo del Paese, bensì in un centralismo di stampo burocratico che ha imposto dei modelli organizzativi del nostro ordinamento nazionale eccessivamente rigidi e pesanti, raggiungendo il paradosso, nella Repubblica sorta sulle ceneri del fascismo, di favorire la proliferazione di enti statuali, nazionali e territoriali, che hanno reso il vecchio centralismo liberale e, poi, fascista, policentrico, corporativo, persino elitistico in numerosi casi. A questo punto, interviene la fondata richiesta settentrionalista e, di recente, anche siciliana - la quale a sua volta meriterebbe un discorso a parte in relazione a questioni di natura territorialmente e culturalmente specifiche - di una struttura nazionale più leggera e con maggiori poteri coordinativi tra le diverse realtà del Paese. Ma la risposta ad una simile richiesta può trovarsi nella ricetta del riformismo liberaldemocratico applicata nella sua versione più originale ed autentica, ovvero quella di un federalismo dei valori, culturalmente in grado di presentare e di fornire progettualità socio – economiche credibili e convincenti, mantenendo la legittima sfera della libertà personale all’interno di un quadro di riferimento collettivo di obiettivi socialmente raggiungibili. E’ proprio la ricetta del vero liberalismo, in realtà, quella che in Italia non è mai stata realmente applicata e che ha generato una visione e un utilizzo distorto del ‘capitale’, sino a giustificare, per lunghissimi decenni, la presenza elettorale del Partito comunista più forte dell’intero occidente. E’ giusto cercare di portarsi alle spalle simili sovrastrutture politiche, economiche e culturali: è corretto sotto il profilo storico, poiché il materialismo storico ha ormai esaurito il proprio ruolo in tutto il mondo, pur rimanendo un punto di vista e di analisi per certi versi ancora accettabile. Ma modernizzare l’Italia in senso federalista significa anche notare come il processo capitalistico avvenuto storicamente in Germania o negli Stati Uniti ha prodotto forme di mercato concorrenziali autentiche, improntate sulla capacità del singolo imprenditore di innovare e differenziare il proprio prodotto rendendolo più accessibile a tutti. In Italia, viceversa, si sono spesso realizzate forme di concentrazione statalistica e capitalistica che hanno portato il Paese a percorrere un cammino praticamente a ritroso, rispetto a quello indicato dall’autentica ricetta liberaldemocratica. Ed è questo processo inverso che, in realtà, ha prodotto un capitalismo ‘di relazioni’, poco produttivo, fortemente assistito dallo Stato e, dunque, corrotto. L’analisi più precisa, insomma, non è quella derivante dall’inaspettata vendetta dell’Uomo qualunque in versione settentrionalista, bensì quella di un sistema socio – economico che ha impedito nuove cittadinanze economiche all’interno del sistema – Paese preso nel suo complesso. E dove ciò ha potuto attecchire, ha finito col rendere il ‘quadro italiano’ ancor più controverso e contraddittorio. Se dobbiamo dare per forza la colpa a qualcuno, di tutto ciò, dobbiamo ammettere che non si tratta di responsabilità attribuibili solamente a questo o a quel singolo fenomeno: né a ‘Roma ladrona’, né ai meridionali che lavorano poco e male. Si tratta, altresì, di responsabilità di intere classi politiche: da quella liberale di stampo paternalista e ‘sonniniano’, alle notevoli ambiguità della sinistra storica trasformista di De Pretis, dalla miope programmazione economica del ‘giolittismo’, alle pretese di ‘imperialismo straccione’ del fascimo e, infine, ai sussulti ipocriti e provvidenzialisti della Democrazia cristiana. Il repubblicanesimo, in tutto ciò è sempre stata la dottrina veramente all’avanguardia, poiché ha sempre cercato di contemperare le esigenze e le funzioni di coordinamento dello Stato all’interno di un quadro complessivo di autonomie territoriali. La validità di questa analisi è comprovata dal fatto che essa sarebbe, oggi, molto più utile di quella leghista, poiché prendendo anche il singolo esempio della creazione di una Polizia federale quasi sul modello statunitense, ciò innoverebbe veramente il sistema – Italia verso una effettiva democrazia federale. Ma un federalismo estremistico, anarchico, mutuato dalle ultime elaborazioni del Prof. Gianfranco Miglio, rischia di smembrare lo Stato nazionale, di decomporlo, soprattutto per motivazioni geografiche in quanto adatto a nazioni medio – piccole, ovvero con una popolazione complessiva non superiore ai 10 milioni di abitanti.




Direttore editoriale della casa editrice Eurilink
Direttore responsabile del sito web di informazione e cultura www.diario21.net
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