Antonio Suraci

Di chi la colpa? E’ interessante saperlo, dopo le ampie dimostrazioni offerte dall’esecutivo in termini di liti e di mancate riforme? E’ interessante saperlo dopo aver riletto le 281 pagine del programma della coalizione di centro-sinistra, la cui base omogenea e unitaria poggiava esclusivamente su una improbabile quanto confusa magia? Abbiamo avuto un esecutivo che in circa venti mesi di attività si è diviso su tutto, salvo poi ricompattarsi su compromessi la cui lettura doveva rendere giustizia a tutte le componenti la coalizione. Lettura di parte, ma sufficiente a tenerla insieme. Ministri che sono scesi in piazza a manifestare, secondo la tesi “Non contro il governo ma quale stimolo a fare meglio”; i Dico, che non hanno mai visto la luce seppur per mesi siano stati sulla ribalta mediatica; il caso Telecom; il caso Visco; la politica estera che ha provocato la prima caduta del Governo; l’indulto e le discutibili liberalizzazioni della prima ora; e, infine, la questione del lavoro, le morti bianche, i rifiuti campani, la politica dei prezzi e dei salari. Ce ne sarebbero cose da dire, anche se la finanza pubblica, da questo esecutivo, ha tratto qualche beneficio. In questi venti mesi è stato scritto il Bignami dell’anti-politica: poteri forti, che, come in ogni debole democrazia, riescono a condizionare l’esecutivo; rappresentanti degli imprenditori che, seppur hanno tratto un indubbio vantaggio dal governo di centro-sinistra, scendono in campo con la tipica prosopopea di ritenersi ‘i migliori’ in un Paese che ‘zoppica’ sul piano della politica industriale; industriali che hanno partecipato all’acquisto dei gioielli di Stato solo per trarre un proprio profitto ai danni della collettività in un’epoca di globalizzazione in cui ben altre finalità si richiedevano; richieste liberiste basate solo sull’ingordigia, salvo poi rendersi conto che, finita la cuccagna, occorre ricostruire uno Stato forte e partecipe anche sul versante dello sviluppo industriale. Di chi la colpa? Esclusivamente di una classe dirigente impreparata ad affrontare le sfide contemporanee sia sul versante sociale che globale, di una classe dirigente che ritenendo sufficiente rimescolare le carte della cultura politica ha chiesto che le venisse concessa la gestione del ‘banco’. Gestione che deve passare attraverso una legge elettorale che elimini alla base ciò che viene considerato il male della nostra democrazia e, quindi, lo spirito che sostanzia la nostra Carta Costituzionale: il pluralismo. Ecco, la classe dirigente ha individuato il suo nemico: il pluralismo. La colpa è ascrivibile alle formazioni politiche minori, ree di non saper interpretare i cambiamenti ‘epocali’ e causa della instabilità degli esecutivi. Sostenitore di questa teoria è il Partito democratico, ovvero il partito del Premier. Un Partito che oggi chiede una condivisione di responsabilità all’opposizione, a quella stessa opposizione a cui soli venti mesi fa negò la possibilità di essere rappresentata in una delle tre massime cariche dello Stato e in molte commissioni parlamentari. Il Partito democratico è teorizzatore di un pluralismo rappresentativo in base al quale tutte le componenti sociali, dalle associazioni ai partiti minori, devono inglobarsi nello stesso partito all’interno del quale avranno riconosciute percentuali in grado di soddisfare la minima esistenza numerica. Nella visione del Pd la democrazia partecipativa si deve ‘sciogliere’ per dar vita ad un unico soggetto maggioritario e rappresentativo di tutte le spinte pluraliste che animano la società contemporanea. La dialettica politica verrà ricondotta all’interno della formazione politica la quale, nel contempo, rappresenterà la sintesi di tutte le anime garantendo in tal modo la stabilità degli esecutivi. E’ un tentativo ‘forzoso’ di condizionare la vita istituzionale del Paese instaurando un sistema politico di dubbia qualità democratica. Già nella Carta dell’Unione, Per il bene dell’Italia, venivano sostenute interpretazioni sul come intendere il pluralismo in una crescente confusione di idee. Ai tempi della Democrazia Cristiana, che da molti veniva etichettata come il supermarket delle idee, le crisi politiche quando furono causate dai piccoli partiti lo furono sempre su problemi reali, sia economici che sociali. La maggior parte delle crisi maturarono all’interno della stessa Dc, ma ciò non toglie che con quel partito di maggioranza relativa il Paese sia uscito da una catastrofica guerra mondiale, abbia sviluppato la propria economia, partecipato con le proprie imprese di Stato allo sviluppo economico internazionale e abbia saputo rappresentare una giusta sintesi, senza tragedie, sul piano sociale: legge sul divorzio, legge sull’aborto, sui manicomi, sul sistema sanitario nazionale, sul nuovo diritto di famiglia, e tante altre cose. Tutto ciò è stato possibile perché quel pluralismo, che oggi si vuole ridurre a binomio, ha rappresentato la dialettica vivace grazie alla quale l’Italia è arrivata al sesto posto nella graduatoria mondiale delle potenze economiche. Dalla ‘caduta’ della Dc e dalla trasformazione del Pci, ovvero dopo oltre quindici anni, i trofei di questa classe dirigente sono: lo smembramento dei gioielli di Stato, un liberismo strabico, uno sviluppo industriale inconsistente, un Mezzogiorno d’Italia che grida vendetta, un aumento della povertà e della instabilità del mondo del lavoro, un potere politico ancora più accentrato rispetto agli anni precedenti, un sistema clientelare ancor più oppressivo, leggi elettorali che nessun paese democratico al mondo avrebbe mai preso in considerazione sino al ‘porcellum’, degno erede della legge Acerbo, e, per finire, la proposta Bianco, che prevede un doppio sbarramento al 5% e al 7%, in un crescendo machiavellico degno solo di una classe dirigente che ormai non sa più cosa inventarsi per restare al potere. Se in questi quindici anni che ci separano dalla caduta della Dc si è saputo calpestare i valori della Costituzione, trasformandone una sostanziale parte senza completare il percorso con una più equilibrata ingegneria costituzionale, la proposta Bianco dà l’ultima ‘mazzata’ a ciò che in questi giorni celebriamo come ‘la Carta degli italiani’, strappando alla cultura democratica l’anima che l’alimenta: il pluralismo. La Carta Costituzionale rappresenta, da sempre o almeno per quei popoli che in essa si riconoscono, i valori che devono costantemente essere sostenuti per mantenere in vita il gioco complesso e, nel contempo affascinante, di una società pluralista e articolata come quella italiana: una vera ricchezza intellettuale per tutti coloro che, immuni dalle ideologie vere o presunte, sanno apprezzare la vitalità di un popolo a cui manca solo il giusto interprete dei valori costituzionali. Le formazioni politiche che sono state ‘varate’ sono petroliere senza petrolio, vuote, o al massimo piene di ferraglia culturale, con capitani che interpretano la rotta evitando, sempre, di prendere il largo. Navigano sottocosta e si arrestano ad ogni minimo scoglio che vedono a palmo di naso. Siamo lontani dalle grandi formazioni politiche capaci di rendere un serio servizio democratico al Paese. In una situazione politica logora, in un Paese stanco della propria dirigenza, non per l’età ma per la qualità, abbandonare il proporzionale non rappresenta un segno di maturità democratica, ma un impoverimento della dialettica politica, trasformando, inevitabilmente, la lotta politica in lotta ideologica su proposte ‘raffazzonate’ che risentono della pochezza intellettuale sino ad oggi coltivata da entrambi gli schieramenti. La legge elettorale su base proporzionale, seppur corretta con uno sbarramento minimo del 3% (è bene ricordare che unico sbarramento contemplato è quello relativo alla presentazione delle firme necessarie per proporre un referendum abrogativo, 500mila, e che nella Carta dell’Unione, sempre per favorire il pluralismo e la partecipazione, così viene reinterpretato: “… Puntiamo ad ampliare ed arricchire le occasioni di partecipazione, anche rivitalizzando il referendum abrogativo: proponiamo per questo di aumentare da 500.000 a 750.000 il numero di firme necessarie per indire un referendum…”), non risolverebbe il problema della qualità e della presenza dei partiti politici. Né la legge maggioritaria, né la legge porcellum-Acerbo, né la bozza Bianco, hanno risolto e risolveranno questo problema. Il problema vero sono i Regolamenti parlamentari, ovvero le regole che i partiti scelgono in piena autonomia per regolare la loro ‘vita politica’ all’interno della democrazia parlamentare. I partiti lo sanno, ma fanno finta di non ricordarlo. Le nuove aggregazioni politiche dovranno realizzarsi su programmi alternativi, non su forzature e nemmeno su un libro dei sogni come quello presentato dall’Ulivo. L’aggregazione potrà avvenire solo attraverso la capacità di interpretazione (non su base ideologica) delle esigenze reali di progresso e degli interessi permanenti delle forze sociali. E tutto ciò potrà essere garantito solamente mantenendo in vita il pluralismo democratico. I partiti, i sindacati, ed anche gli imprenditori, devono fare un passo indietro: lasciare lo Stato, ovvero i posti ben remunerati che lo Stato riserva ai rappresentanti politici e sociali. Questo presuppone la grande riforma dell’Amministrazione pubblica al servizio del potere esecutivo e legislativo, non da questi condizionata, ovvero al servizio della democrazia al di sopra dei partiti. Quando si parla di qualità dei dirigenti non dobbiamo intendere altri al posto di quelli che ci sono, ma che la politica non fornisca i propri dirigenti, diretti o indiretti, mantenendo in piedi il sistema attuale: i dirigenti devono essere scelti fuori dalla politica, la pubblica Amministrazione deve rispondere ad una propria visione democratica al servizio della Repubblica a prescindere dalle formazioni politiche che guidano al momento il Paese. E’ la solidità delle istituzioni amministrative che rende il Paese forte e ben accetto dalla popolazione. La politica si limiti alla riforma e ne controlli la giusta attuazione. Di chi la colpa? Prodi non poteva sopravvivere a se stesso, il progetto prodiano, di unire i diversi, è terminato coinvolgendo direttamente nella caduta tutti i soggetti che a sinistra non hanno saputo trasformare le antiche visioni ideologiche per paura di perdere quel pezzettino di potere acquisito. Non si difendono gli operai solo su base salariale, oggi la politica richiede una visione più ampia, più complessa, maggiormente credibile. L’economia si trasforma e la tecnologia incide sui cambiamenti sociali, nessuna ideologia è attrezzata a far fronte ad una situazione che richiede una fermezza democratica senza eguali nel passato e una coscienza sociale all’altezza del compito che le trasformazioni richiedono. Non è sufficiente parlare di solidarietà, di nuova povertà, di crisi economica se non attraverso analisi profonde che sappiano far emergere proposte adeguate nella competizione globale in cui, spesso mal volentieri, ci si trova a lottare. Per questo, uccidere il pluralismo, per giochi di potere ideologizzati e non per necessità democratiche, significa non consentire alla società di parlare a più voci, di incontrarsi su un unico terreno pur partendo da punti diversi, non distanti; significa demandare la dialettica democratica all’interno di ‘chiese’ rinnovate con tutta la diffidenza che queste suscitano nel comune cittadino. E’ inutile continuare a nascondersi, occorre tornare a votare anche con questa pessima legge elettorale, cambiare, ma con l’impegno che chiunque vinca attui un programma di rinnovamento profondo delle istituzioni e dell’economia, insieme a quelle formazioni che il voto popolare avrà posizionate all’opposizione, ma solo dopo il voto e se ci saranno le condizioni di maturità politica. E’ un’altra partita che si chiede di giocare ai cittadini, forse l’ultima. Il governo dei tecnici o altro non risolverà i problemi attuali, renderà ancora più confusa la politica e sposterà in un tempo non calcolabile la soluzione dei problemi reali, dando l’impressione (?) che la strategia degli accordi verticisti ha trovato una nuova stagione per continuare a far sopravvivere interessi particolari ai danni di quelli generali. Di chi la colpa? Dei politici o dei cittadini che ancora li ascoltano?




(articolo tratto dal sito web di informazione e cultura www.diario21.net)
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