Abbiamo incontrato, a Roma, il nuovo sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia, il magistrato Alberto Cisterna, 'fresco' di nomina dopo lunghi anni passati in Sicilia impegnato in numerosi processi di mafia. Ecco il pensiero di un tipico "splendido quarantenne", per dirla alla Moretti, intorno ai problemi della giustizia italiana.

Procuratore Cisterna, in questi anni, soprattutto dopo l'assoluzione del Sen. Giulio Andreotti dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, si è diffusa tra i cittadini la convinzione che la magistratura sia corsa dietro a personaggi dai nomi altisonanti dimenticandosi delle tante ingiustizie della vita di tutti i giorni: lei cosa risponde?
"Non è casuale che i cosiddetti 'processi eccellenti' siano nati pressocché contestualmente alla creazione della direzione nazionale antimafia, poiché in effetti, nel Paese, la costituzione di un organismo deputato specificamente ad occuparsi di un certo tipo di procedimenti, sostanzialmente staccato dall'alveo delle procure, che ha visto la creazione di vere e proprie direzioni distrettuali a sé stanti e completata da una struttura complessivamente autonoma, con anche un regime processuale distinto e procedure dibattimentali diverse, ha fatto sì che nascesse l'impressione di una sorta di doppia giurisdizione, quella che si occupava di processi di mafia o più generalmente di grande livello e quella cosiddetta ordinaria, che spesso risulta inefficiente, lenta, meno 'sotto i riflettori' e destinata a suscitare malumori.
Insomma, può darsi che sia apparso, dall'esterno, che ci fosse una giustizia dal 'doppio binario', anche se in realtà non è affatto così. Anzi, forse l'equivoco è sorto un po' per colpa nostra, in un certo senso, poiché con la creazione di una direzione antimafia profondamente autonoma, si è finito con lo scaricare sulle procure ordinarie l'enorme peso di perseguire tutti gli altri reati, assorbendo, tra l'altro, dalle procure ordinarie medesime, le professionalità migliori. Non in tutti i casi è stato così, ma spesso il personale di magistratura più preparato e con maggior esperienza ha finito col transitare, in larga parte, proprio presso le direzioni distrettuali antimafia, impoverendo il personale delle procure ordinarie.
Non si può generalizzare ciò che le sto dicendo, ma, a mio parere, per lo più è questo ciò che è accaduto".

Negli ambienti politici si ha talvolta l'impressione che certi procuratori, come ad esempio il dott. Giancarlo Caselli, abbiano una concezione 'messianica' del proprio lavoro: è così?
"Tutti noi finiamo spesso col trarre valutazioni di ordine generale, ma è un rischio che dobbiamo correre, senza volere, in ciò, dare agli altri dei modelli schematici di interpretazione della realtà. Il nostro, le assicuro, è un lavoro duro, difficile e chiunque non sia un semplice burocrate, ma abbia una vocazione intellettuale seria, cerca di capire ciò che sta ricercando analizzandolo in termini complessivi.
Devo anche dire, inoltre, che questo rischio, sin quando rimane confinato nell'ambito delle valutazioni personali, soggettive, nel corso di qualche pubblico convegno, in una riunione della Associazione Nazionale Magistrati o persino in qualche dichiarazione alla stampa, si può anche correre. E' cosa ben diversa, però, trasporre tale metodo di interpretazione globale della realtà nell'ambito del lavoro di un procuratore, poiché la ricerca della verità presenta, talvolta, difficoltà di valutazione profondissime, che superano di molto le interpretazioni di sintesi".

Mi sta dicendo che giudici come Caselli sono massimalisti nelle loro esternazioni pubbliche ma minimalisti nel proprio lavoro?
"No, sto semplicemente chiarendo che la procura di Palermo non risente minimamente di questo.
Se anche Caselli può dare l'impressione di una concezione giustizialista del proprio ruolo, ciò rimane nell'ambito delle sue valutazioni personali, che ogni magistrato ha diritto di avere e di rendere pubbliche. Non è detto, cioè, che la tal cosa investa anche il modello di gestione della procura di Palermo medesima, anche perché, conoscendo bene i colleghi, posso tranquillamente dirle che nessuno di loro concepisce assiomi oggettivi sulla mafia o intorno a rigide metodologie assolute per l'istituzione di un processo.
Nessuno di loro ha mai detto di conoscere tutto della mafia, oppure che un processo per associazione a delinquere di quel determinato stampo si debba fare mediante certe precise modalità metodologiche, sia perché ogni procura è composta da decine e decine di colleghi, i quali mantengono proprie impressioni e convinzioni, sia perché esiste un Codice con il quale ogni magistrato, prima di ogni altro, si deve misurare…".

La magistratura italiana è giustizialista, per cultura?
"Assolutamente no. Se fosse giustizialista non ci sarebbero le assoluzioni, che sono poi quelle che creano un vespaio di critiche. Se intervenissero condanne, allora capirei la sua domanda: sono proprio le assoluzioni, i casi Andreotti, Contrada e Mancini in Calabria, a testimoniare che il nostro ordinamento non è affatto giustizialista. Anzi, il sistema, proprio perché assolve, dimostra l'enorme sforzo dei magistrati nella loro ricerca continua e quasi ossessiva della verità, delle prove concrete.
Le dirò di più: una distinzione formale tra il ruolo della pubblica accusa e quello della magistratura giudicante, in realtà non ha più di tanto senso poiché, paradossalmente, chi esercita l'azione penale prospetta semplicemente una responsabilità che poi i giudici valutano avvalorandola o smentendola. La distinzione dei ruoli è già insita in sé, nella sostanzialità operativa delle due distinte funzioni stesse. Poi, è chiaro, anche a me è capitato di avere assoluzioni che non condividevo o delle quali non ero affatto convinto, ma può anche darsi che avessi torto io, o che non abbia colto determinati elementi.
Inoltre, il sistema consente impugnazioni e ricorsi, reali strumenti di garanzia…".

Sono troppi tre gradi di giudizio?
"Il vero problema non è questo. La Cassazione sta facendo uno sforzo enorme per velocizzare i processi.
Il sistema è esploso per altri motivi, due in particolare: una complessa gestione della fase dibattimentale, che l'ordinamento ha introdotto mutuandolo dal sistema anglosassone, senza tener conto di come si sarebbe concretamente sviluppato, attraverso il metodo dell'oralità, qui da noi e per il problema delle motivazioni delle sentenze, che genera ritardi spaventosi.
I sistemi basati sull'oralità, come appunto quelli anglosassoni, non prevedono, diversamente dal nostro, la motivazione di una sentenza, ma semplicemente un verdetto: la giuria delibera l'innocenza o la colpevolezza di un imputato senza poi dover motivare.
Il nostro sistema giudiziario è il più garantista e civile del mondo, ma proprio per questo finisce col pagare costi pesantissimi, soprattutto da un punto di vista strettamente temporale".

Dunque, il problema di fondo è quello di una giustizia burocratica?
"Diciamo che il nostro sistema ha finito col divenire un ibrido lento, macchinoso, difficilmente gestibile, dove si è costretti a concentrare le forze sui processi più importanti.
Il cittadino singolo che chiede giustizia per un suo caso personale si ritrova di fronte ad una 'macchina' enorme, scarsamente snella nel suo operare e con tempi e procedure spesso poco comprensibili.
Indubbiamente, sotto quest'ottica le critiche nei confronti della giustizia italiana hanno un loro preciso e determinato senso…".

I nostri politici soffrono di 'perdonismo all'italiana', secondo lei?
"Io credo che i politici italiani, in questo momento, come anche una parte della magistratura, non siano molto propensi a distinguere il piano dell'efficienza da quello del ruolo precipuo della magistratura stessa, per cui ogni battaglia sulle funzioni finisce col venir condotta passando dall'inefficienza. La giustizia non funziona, dunque il ruolo della magistratura è inadeguato: questa l'erronea equazione. Una cosa sono i problemi della giustizia, altra questione è il ruolo della magistratura nella Costituzione materiale di questo Paese.
C'è chi pone in discussione la magistratura in sé con un certo grado di franchezza, che si domanda, cogliendo problematiche giuridicamente raffinate, quale sia il suo ruolo effettivo, se sia sostanzialmente un ordine professionale, sino a che punto rappresenti il 'terzo potere' dello Stato o che ne analizza le funzioni nei suoi effetti più intrinsecamente giuridici. Ma arrivare a porre in discussione un potere dello Stato passando dalla sua inefficienza è operazione meramente strumentale, non ortodossa, che finisce col causare l'arroccamento di tutta la magistratura, anche di quella parte culturalmente più moderata, su posizioni conservatrici.
La politica dovrebbe, a mio parere, cercare invece un'apertura, soprattutto per le istanze che essa stessa intende impersonare, non il contrario…".

Cosa pensa del 'pacchetto' di riforme previsto dal governo?
"Sinceramente penso sia meglio, facendo salva l'obbligatorietà dell'azione penale, che si trovi un rimedio al problema delle celebrazioni di migliaia e migliaia di dibattimenti. Il problema di fondo, in senso strettamente tecnico, se vogliamo, è tutto lì.
Un sistema giuridico dovrebbe essere più selettivo, per fare in modo che arrivino in dibattimento solamente un cinque per cento fisiologico dei procedimenti in corso.
Si introducano, dunque, correttivi sul versante del giudizio, lasciando l'obbligatorietà dell'azione penale come è ora, cioè come garanzia di giustizia, di democrazia, di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Tale principio, infatti, pur essendo molto facilmente condivisibile da un punto di vista ideologico, perde senso di fronte a un numero allucinante di dibattimenti che ingolfano un sistema con tre gradi di giudizio e dove molti processi finiscono in prescrizione.
Questo è il problema fondamentale: se numerosi processi finiscono con la prescrizione dei reati, il principio di uguaglianza che l'obbligatorietà dell'azione penale dovrebbe garantire finisce col ritrovarsi concretamente violato, privo di effetti reali, difficilmente applicabile, soprattutto nei casi in cui una sentenza arriva dopo dieci anni dall'inizio di un procedimento.
L'obbligatorietà dell'azione penale è concepibile in prossimità dei fatti. Se si vuole guardare laicamente la cosa, senza pregiudizi né guerre di religione, il problema è sostanzialmente questo. Se invece si vuole rendere discrezionale l'azione penale per incidere sulla magistratura andando a toccare un principio intangibile, allora la questione cambia totalmente direzione, poiché questo significa ridisegnare ex novo il ruolo, l'impianto stesso, dell'ordinamento, mettendo mano ad una riforma costituzionale importante, creando una Commissione Bicamerale ad hoc, insomma impostando un progetto di riforma complessiva di grande impegno.
In ogni caso, la mia opinione è che, su questi problemi, se ne può anche discutere, naturalmente trovando soluzioni effettivamente alternative".

Cosa è stata Tangentopoli, secondo lei?
"Il passaggio necessario per porre un freno alla corruzione.
Non riuscendo più, il Paese, a contenerla, né a reprimerla o a denunciarla in termini politicamente idonei, Tangentopoli divenne il passaggio opportuno di una democrazia che doveva risolvere un problema in mancanza di un'autentica rivolta morale. E i partiti che ne sono rimasti coinvolti avrebbero dovuto, a mio parere, cercare di dare una direzione ai cambiamenti che erano in atto, governando la situazione.
Pur comprendendo, infatti, che in quel momento storico ciò non fosse affatto semplice, alcuni partiti avrebbero potuto aiutare se stessi e tutto il Paese a superare le difficoltà politiche contingenti. Alcune forze ed alcuni personaggi lo fecero o, almeno, ci provarono: la Lega Nord, ad esempio, o lo stesso Mario Segni con il suo movimento referendario.
Il problema non fu quello di una magistratura che aveva rotto un equilibrio, bensì quello di partiti divenuti veri e propri comitati d'affari".

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