Giovanna Albi“Oggi chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deficienti in un mondo interamente deforme”? Questa citazione da ‘La giornata di uno scrutatore’ di Italo Calvino, posta ad esergo del bel romanzo di Massimo Cecchini, dal titolo ‘Il bambino’ (Neri Pozza, 2022), apre un primo squarcio sul mondo che andremo a lambire durante la densa e vorace lettura dell’opera. Si può parlare di deformi o di minorati, in questa realtà in cui assistiamo a una deriva dei valori? In cui i figli uccidono i padri e viceversa? In cui gli uomini fanno fuori le donne e viceversa? E come far fronte alla nascita di un bambino malato, anzi malatissimo, affetto da idrocefalìa, come Angelo Bonaventura? Se molti, in questo mondo squinternato, rinnegano quella tipologia di figlio, consegnandolo alle strutture apposite, in questo toccante lavoro la giovane coppia di genitori dimostra una dedizione commovente e si unisce nella tutela del bambino. Sì, perché il dolore è una medaglia rovesciabile: allontana, divide, corrode, uccide, ma altrettanto unisce, rafforza, cementa i rapporti umani. La nascita di Angelino irrompe nella vita di Pietro e Anna a scompigliare le carte del destino di un’esistenza ordinaria di due giovani sposi della borghesia romana, che si apprestano a vivere una vita di agi, tra belle amicizie e campi da tennis. Una vita desiderabile, quale quella che si sogna da ragazzi, spinti dalla forza impetuosa dell’amore. Tutti abbiamo diritto a costruirci la vita secondo i nostri bisogni più profondi: massime da ‘giovani virgulti’. Ma ecco che il sogno di una famiglia del ‘Mulino bianco’, con figli sorridenti, forti e vigorosi, in equilibrio psicofisico quale quello che si augura il medico Erissimaco nel ‘Simposio’ platonico, si infrange contro gli scogli della dura realtà. La gestazione non faceva prevedere nulla di buono: “Prima cominciarono a manifestarsi delle piccole perdite, poi venne il rischio del distacco della placenta, cosa che la costrinse a restare a lungo a letto, coltivando incubi premonitori su un figlio colpito da una sfortuna dai contorni ancora misteriosi”. Poi l’evento traumatico: “Aveva  gli occhi ciechi, la bocca sempre aperta, la saliva libera, il grido gutturale, la forza animale, la risata misteriosa, il capriccio infantile, la parola e il dolore incomprensibili, la purezza dei poveri di spirito”. Dal potente incipit si dipana la storia di Angelino dagli anni ’60 del secolo scorso fino ai nostri giorni, in cui lo scrittore, con uno stile classico, ampio e disteso, ma al contempo aspro e incisivo, ci conduce dentro un’avventura di dolore e coraggio, di tormento e amore, di forza che non recede anche di fronte alla sventura più atroce: la nascita di un figlio idrocefalo, di cui si pronostica una rapidissima morte. E’ la narrazione di una storia vera (Angelino ci ha lasciati a maggio dello scorso anno, ndr), ricostruita con una dovizia di particolari che “affannano e consolano”, perché lo scrittore ci guida per mano con una perizia ammirevole, tipica di chi mastica benissimo la lingua italiana, benché questa sia un’opera di esordio. Certo, lo aiuta la sua navigata carriera di giornalista sportivo della ‘Gazzetta'. Ogni sussulto, movimento, sorriso sghembo, richiamo, grido gutturale, silenzio, grida, orrore, dolore, affanno viene colto dalla giovane coppia con una metafisica laica di estremo coraggio. Il bambino ha bisogno di cure sempre più attente, perché la sua malferma salute si aggrava crescendo. I tempi si ribaltano, perché è sveglio di notte e dorme di giorno. I genitori sono costretti a corse notturne in macchina, perché è l’unico modo per tenerlo calmo. Il bambino concentra su di sé tutte le energie della coppia, che viene supportata dall’aiuto di una serie di personaggi: innanzitutto le due domestiche filippine, Nora e Roselyn, che accompagnano i Bonaventura per larga parte della vita. Poi c’è l’autista Lorenzo: tutto, insomma, si coagula per aiutare Angelino, che arriverà, contro ogni pronostico, a toccare la soglia dei sessanta anni. I primi mesi del bimbo passarono lieti: nulla faceva presagire il dolore insensato che avrebbe toccato senza vie d’uscita la giovane coppia. “Il periodo neonatale è fatto di suoni. Nell’allungamento di una vocale, la scoperta di una sillaba, ognuno può indovinare ciò che desidera. Probabilmente, per un genitore non ci sono momenti più belli di quelli in cui il figlio, appena venuto dall’acqua, sia interpretabile a piacimento, senza possibilità di contraddittorio, come uno strano ‘pesce con le gambe’, che misteriosamente ci somiglia. In questo, Angelo non fu diverso dagli altri, così da riuscire a vivere agevolmente i primi e ultimi mesi della sua mimetizzazione sociale. Non era tempo di frasi compiute. Il bambino poteva camuffare la propria diversità…”. Al circolo del tennis tutti sono calamitatati dalla ‘paciosità’ del neonato: “Angelino, fatti regalare una racchetta da tennis da tuo padre. Vedrai che ci metterai poco per diventare più bravo di lui”, scherzavano gli amici sotto gli ombrelloni del bar”. Quanto può essere malvagia la realtà? E com’è insensato il dolore? Come se tutti gli dei concentrassero i loro poteri affinché il gioco dei dadi non torni… L'autore, Massimo Cecchini, senza nessuna patina di moralismo o di falso pietismo, sviscera con acribìa chirurgica i sintomi di una patologia altamente invalidante, registrando ogni nota e ogni verso che essa assume puntando gli occhi fermi, senza mai recedere o voltare lo sguardo come sarebbe più comodo. Così fanno gli amici, che si allontanano per non disturbare o chi si vergogna per un’occhiata di troppo. Notevole lo scandaglio psicologico della personalità dei genitori e di chi ruota attorno al bambino fin dalle prime pagine e per l’intera durata del romanzo, con l’occhio sempre fisso a indagare, interpretare la realtà che si squaderna dura e faticosa, ma anche gioiosa, sulle note delle canzoni di Mina, che il piccolo sembra apprezzare. I genitori rinunciano subito a trasferirlo in un istituto e mettono a dura prova la loro capacità di resistenza, dilapidando tutto il loro patrimonio e rinunciando alla loro professione, alla frequentazione dei circoli di tennis e di amici. Il romanzo si rivela, fin dalla citazione posta a esergo, di ‘taglio’ sociologico: come collocare in questa realtà deforme un figlio con un gravissimo handicap? Come non rinnegare, bensì garantire, un’esistenza dignitosa a un essere umano, anche quando tutto si rivela senza speranza, quando siamo vittime della necessità divina? Come non disperare, ma farsi carico con ‘fede laica’ della creatura portata in grembo? Anche quando la madre morirà, sarà il padre ad assumersi l’alta responsabilità con le figure di supporto. Un libro coraggioso e potente, che ci pone di fronte a interrogativi di ordine morale, aprendo squarci di riflessione per cui si può dire ciò che si suol dire dei migliori libri: ci trasforma dentro, ci scava, ci domanda urgentemente di assumere una posizione. E ne usciamo migliori di quando vi siamo entrati.





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