Vittorio Lussana
Nel dibattito apertosi nel Partito democratico in seguito agli esiti delle elezioni politiche del 25 settembre scorso, sarebbe il caso di convergere soprattutto sui contenuti. E quando si parla di contenuti, diventa impossibile non affrontare la ‘questione-lavoro’, poiché ci troviamo di fronte a un welfare destinato a cambiare, per svariati motivi. A cominciare da quello più generale: siamo all’interno di un processo di sviluppo tecnologico che tende a cannibalizzare molte professioni, come già accaduto, per esempio, con fotografi e grafici. Moltissimi manifesti, tanto per proporre un primo esempio, chiudono con il punto alla fine dello slogan, che in termini accademici è considerato un errore. Ma il segnale è molto chiaro: pur di non appaltare il lavoro a società esterne di comunicazione integrata, molti Partiti producono locandine, brossure e altri materiali al proprio interno, inconsapevoli di esporsi a brutte figure. In poche parole, a furia di fare poco o nulla, i nostri Partiti politici – tutti quanti e non solo il Pd - non sono riusciti a ‘sistemare’ chi aveva svolto ottimamente la propria fase di addestramento giovanile, ottenendo dei risultati. E tutti quanti si sono visti costretti a inventarsi il lavoro sulla rete internet o con le community. Persino la Ferragni è un fenomeno sorto dall’incapacità di selezionare i giovani, dato che non si chiedeva di sistemarli tutti, bensì di valutarli, soppesarli e formarli. E si è finito con l’ottenere il risultato esattamente opposto: chi era raccomandato, seppur nella propria 'nicchietta', da qualche parte è rimasto; coloro che, invece, avevano dimostrato qualcosa anche di importante, sono state considerate "persone di talento" e, in quanto tali, hanno dovuto cavarsela in qualche modo: siamo finiti nella direzione esattamente contraria rispetto a quella di una sana meritocrazia. Sui giovani, la politica ha sbagliato tutto. E si continua a sbagliare facendo 'barriera', anziché guardare avanti e ricercare nuovi mercati di sbocco. Un classico esempio è ciò che mi capita personalmente quando mi ritrovo in una trattativa per lanciare un nuovo progetto editoriale, in cui le mie proposte di lavorare in ‘team’, o selezionando una 'squadra', vengono regolarmente rigettate da almeno 10 anni a questa parte, con la frase: “Noi vogliamo te, non la tua squadra…”. Una ‘rispostaccia’ anche un po’ ‘cafona’, che mi sono sentito ripetere varie volte e da più persone, spesso lontanissime tra loro. Perché qui da noi nulla cambia, in termini di mentalità: siamo ancora fermi alla famosa discussione tra Nanni Moretti e Mario Monicelli, in cui il primo accusava, giustamente, il secondo di non voler lasciare eredi. Ed è così ancora oggi: di formare persone che potrebbero dire la loro, un domani, proprio non se ne parla. Oltre a ciò, vi è stato l’avvento dei social network, che hanno imposto l'ubbia dell'ignoranza che sale al potere. Aveva ragione Umberto Eco: quella dei social è la degenerazione finale, che ha fotografato definitivamente una situazione socialmente ‘stagnante’. Ecco per quale motivo uno scrittore coraggioso come Roberto Saviano, che scava nelle cose come pochi colleghi fanno - altro caso tipico del 'casino' combinato da una classe politica ancora post ideologica – finisce col subire autentiche campagne d'odio perché, da più di un decennio, denuncia la fusione tra voto mafioso e voto demagogico alla base dell'eterno successo delle destre in Italia. Insomma, oltre a tutto il resto, che siamo anche un popolo di mafiosi non si può dire. E non si può nemmeno investire sul territorio, sul nostro patrimonio storico-culturale, su quello architettonico, sull’arte, sulla necessità di culture di accompagnamento dello sviluppo tecnologico, che appiattisce tutti quanti attorno al positivismo modernista delle conoscenze nozionistiche e del giustizialismo dei social, che fanno il tifo anziché scegliere, di volta in volta, la coalizione politica meglio attrezzata per affrontare una nuova fase. Non si può fare niente, in un Paese così rinchiuso nella mera conservazione. Non va mai bene niente, in Italia: bisogna andarsene, punto e basta. E ciò è la conseguenza di un mercato del lavoro precarizzato, che prima mastica le persone e poi le sputa, poiché non servono più. Pertanto, ci si rivolge alla rete senza alcuna coordinata deontologica o professionale, facendo correre notizie non verificate in cui si denunciano complotti infiniti, tipo quelli sui vaccini. Una polemica che ha segnalato e segnala ancora oggi un enorme problema di scarsa formazione tecnico-scientifica, perché quando un complotto viene scoperto, un determinato fenomeno distorsivo finisce, poiché sgominato. Invece, qui da noi i complotti non finiscono mai, perché servono a riempire le pagine di gente che si è gettata nella mischia per disperazione. E, proprio per questo motivo, non si può neanche dir loro più di tanto. Siamo un Paese costretto a dar ragione persino ai produttori di ‘fake news’, perché questi ultimi, per lo meno, la fantasia per inventarsi una ‘bufala’ al giorno ce la mettono, mentre i nostri politici nemmeno questo sforzo fanno, segnalando solamente una cosa: la politica non è più la ‘cittadella avanzata’ della società e si ritrova davanti a un mondo che, ormai, corre a 200 chilomentri all’ora. E non c'è più niente da fare.




(articolo tratto dalla rubrica settimanale Giustappunto! pubblicata su www.gaiaitalia.com)

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Carlo Cadorna - Frascati - Italia - Mail - domenica 9 ottobre 2022 17.16
E' una bella e fondata denuncia!!!


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