Giuseppe LorinIn questi giorni, è ricorso il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta a Bologna il 5 marzo 1922. Un poeta culturalmente versatile, che si distinse in svariate discipline artistiche e letterarie, lasciando numerosi contributi come romanziere, saggista, linguista, drammaturgo, regista cinematografico e, infine, anche come giornalista. Per ricordare ancora una volta questo importante ‘poeta civile’ del nostro tempo, abbiamo deciso, questa volta, di far parlare lui, richiamando sinteticamente alcuni ‘pilastri’ emblematici del suo pensiero, della sua vita e delle sue idee.

Il rapporto con il padre

“Era un uomo molto diverso da me, con cui avevo dei rapporti drammatici, sia per ragioni psicologiche, sia per motivi oggettivi e caratteriali. Mio padre era un uomo all’antica: un ufficiale del Regio esercito italiano. E pensava esattamente il contrario rispetto a tutto quello che pensavo io. C’era proprio una diversità ideologica e di carattere, anche se oggi penso di esser stato un po’ ingiusto con lui. Una differenza c’era, poiché io ero profondamente e inconsciamente nemico a lui, così come lui era profondamente e inconsciamente nemico verso di me. Ma, in realtà, fu proprio lui a spingermi a scegliere la carriera letteraria. E io, oggi, provo nei suoi confronti un misto di odio e di gratitudine. E’ stato indubbiamente il rapporto più drammatico che io abbia avuto nella mia vita. E lo è stato a tal punto, che ha finito col rendere drammatici anche i miei rapporti con tutto ciò che è ‘paterno’: con lo Stato; con il sentimento ‘medio’ della vita che provano le altre persone; con l'intera società italiana”.

Il dialetto friuliano
“Il mio primo libro uscì nel 1942. Era una raccolta di poesie in dialetto friulano, l’idioma parlato da mia madre. Lo scrissi a 18 anni e lo pubblicai due anni dopo, esattamente a 20 anni. Mentre lo scrivevo, non mi ero reso conto dell’errore commesso: solo dopo l’uscita del libro, mi accorsi che alcuni critici che avrebbero voluto recensirlo non potevano farlo, perché il regime fascista non voleva che si parlasse di dialetti. Proprio non si voleva che esistesse una letteratura dialettale. Questo perché l’Italia di allora era un Paese completamente ‘stereotipato’ e falso, assolutamente al di fuori da ogni forma di realismo. Anche nei confronti di un libro totalmente poetico com’era il mio. Non si voleva che si parlasse in dialetto: praticamente, non si voleva che, in Italia, vi fossero dei contadini o degli operai…”.

L’incontro con la realtà sociale italiana
“Negli anni della guerra ho vissuto in Friuli: fu una sorta di prigionìa, che dedicai quasi interamente alle mie prime forme di poesia mistica. Ma un primo contatto con la realtà sociale italiana avvenne assistendo alle lotte tra i braccianti agricoli e i loro padroni: una sorta di sopravvivente feudalesimo delle campagne friulane. Fu allora che decisi, per la prima volta, di schierarmi dalla parte dei braccianti. E decisi anche di schierarmi in una posizione di totale opposizione nei confronti della società italiana”.

La questione della lingua
“La lingua italiana, per molti secoli, è stata una lingua esclusivamente letteraria. Mentre il francese si era affermato come lingua unitaria per ragioni politiche, burocratiche e statali, l’italiano è diventata una lingua unitaria, per ragioni puramente letterarie. E questo prestigio letterario è nato a Firenze, in una situazione storica assai diversa da quella attuale. I 3 ‘grandi padri’ della lingua italiana, Dante, Petrarca e Boccaccio, sono imposti alla popolazione italiana per ragioni di prestigio letterario. Oggi, l’italiano sta diventando una lingua veramente unitaria. Tuttavia, il centro linguistico dell’italiano non è più letterario e non è più Firenze, bensì è diventato ‘tecnico’, o tecnologico, ed è Milano. L’italiano di oggi risulta unito soprattutto dal linguaggio ‘tecnico’: la parola ‘frigorifero’, per esempio, viene usata sia dalla massaia di Milano, sia da quella di Palermo. Le parole tecniche sono cioè una specie di cemento: una ‘patina’ che sta unificando e livellando la lingua italiana. Il fenomeno non è né migliore, né peggiore: è chiaro che, alla guida di una cultura nazionale, io preferisca una lingua letteraria. Ma se questa lingua, anziché essere letteraria diviene tecnologica, io non posso far altro che prenderne atto…”.

L’intellettuale
“Un intellettuale, quando è realmente disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente. Non appena apre bocca, egli deve sempre contestare qualcosa al conformismo, a tutto ciò che viene considerato ‘ufficiale’, a ciò che è statale o nazionale. Dunque, non appena apre bocca, un vero intellettuale è per forza impegnato, perché questo suo 'aprir bocca' viene considerato scandaloso. Sempre”.

Il cinema
“Alcuni mi chiedono se ho deciso di dedicarmi al cinema per cambiare tecnica letteraria. La cose non stanno così: io, in realtà, ho proprio deciso di cambiare lingua. E ciò indica una mia forma di protesta contro la lingua letteraria italiana, addirittura contro la lingua italiana ‘tout court’ e contro la società che in questa lingua si esprime. In un certo senso, facendo cinema, io ho voluto cambiare nazionalità”.

Ancora sul cinema

“Il cinema è un sistema di ‘segni’ transnazionale e transclassista, valevole per tutte le nazioni del mondo. Il cinema non rappresenta la realtà attraverso dei ‘simboli’, come sono le parole, bensì attraverso la realtà stessa. In pratica, il cinema riproduce la realtà utilizzando la realtà stessa. E ciò consente di vivere sempre al livello e nel cuore della realtà”.

Il razzismo
“Il mio primo film, ‘Accattone’, ha suscitato in Italia una prima forma, per quanto limitata, di razzismo. C’era già stato qualche primo sintomo, in realtà, di questo fenomeno. Per esempio, a Torino, capitò in un bar di leggere il cartello: “E’ proibito l’ingresso ai terroni”. In realtà, gli italiani non sono mai stati razzisti, pur essendo fondamentalmente dei piccolo borghesi, solamente perché non avevano ancora avuto occasione di manifestare il loro razzismo. E un’occasione gliel’ho data proprio io con ‘Accattone’, rappresentando un personaggio che appartiene a una ‘razza’ totalmente diversa”.

Il neorealismo

“Il neorealismo ha rappresentato il primo atto di coscienza critica che l’Italia abbia mai avuto nei confronti di se stessa. Fino ad allora, l’Italia aveva avuto una Storia che non era quella di una nazione, ma un insieme di ‘piccoli popoli’. Poi arrivò l’unificazione liberale, che generò la grande divisione tra nord e sud. E, in seguito, arrivò il fascismo, che cercò di imporre un’idea aberrante di unità italiana. Soltanto con la Resistenza è cominciato un nuovo percorso della Storia italiana, tale da poterlo paragonare a quello della Francia o della Spagna. Il neorealismo fu un primo sguardo di riscoperta dell’Italia senza veli retorici e senza più falsità, con il piacere di riscoprirsi e anche di cominciare a denunciare i propri difetti. Inoltre, per la prima volta nella Storia, era nato un movimento artistico e culturale dotato di una prospettiva, fondato cioè sull’idea che il nostro futuro sarebbe stato migliore, adempiendo a un processo di rivoluzione che nessuno, in realtà, sapeva bene cosa fosse, né di cosa si trattasse…”.

Uno sviluppo contraddittorio
“Non è affatto vero che io non creda nel progresso: io credo nel progresso, ma non credo nello sviluppo. E, nella fattispecie, in questo tipo di sviluppo. Io non sono un sociologo, né un professore universitario, ma faccio un mestiere molto strano, che è quello dello scrittore. Dunque, sono direttamente interessato a quelli che sono i mutamenti storici del mio Paese o della mia nazione. Tutta la mia vita consiste proprio nell’avere rapporti diretti e immediati con tutta questa gente che sta cambiando. E tutto questo fa parte della mia vita quotidiana e della mia vita privata: è un problema mio”.

La religione
“Io vivo ogni cosa in una maniera molto ‘interiore’. Evidentemente, il mio sguardo nei confronti del mondo è di tipo religioso, benché non confessionale. Ecco perché investo questo mio modo di vedere le cose nelle mie opere. Ma la religione, per me, non è affatto un qualcosa di consolatorio: le consolazioni sono sempre un qualcosa di retorico, di insincero, di irreale. Per me, il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, che integra le nostre lacune quotidiane, rigenerando i pensieri”.

La massa

“Il mio lavoro sembra un atto di aristocrazia intellettuale, mentre invece si tratta di un grande atto di democrazia. E ciò avviene perché io pensavo di rivolgermi al popolo così come lo aveva conosciuto Gramsci e così come credevo di averlo conosciuto io. Poi è arrivata la grande trasformazione della società italiana: un passaggio quasi fulmineo da un’Italia agraria e artigianale a una nuova epoca, quella del benessere. Una trasformazione talmente radicale che ha modificato quel popolo idealizzato da Antonio Gramsci e da me, in quella che oggi i sociologi chiamano ‘massa’. Da quel preciso momento, mi sono rifiutato di creare dei prodotti culturali che fossero consumabili dalla massa. E ho deciso di fare dei film d’élite, ovvero solo apparentemente aristocratici o antidemocratici. In realtà, essendo dei lavori in aperta polemica contro la cultura di massa, che è tirannica e antidemocratica per definizione, essi sono un atto, per quanto inutile o idealistico, di autentica democrazia”.

Il ciclismo

“Il ciclismo è uno sport che amo sin da quando avevo 20 anni. E lo amo perché è uno sport autenticamente popolare”.

Il calcio
“Il calcio è una sorta di linguaggio semiologico che, talvolta, si risolve in un’utopia irrealizzabile; spesso, si compone di tante belle idee originali benché il fato, la sfortuna o una serie di eventi discordanti gli siano avversi; altre volte ancora si sviluppa come un qualcosa di ‘grigio’, realizzato con buon ordine e diligenza e che, tuttavia, non riesce a ottenere molto di più di qualche simbolica vittoria ‘di misura’; infine, in qualche caso fortunato, finalmente questo linguaggio si risolve con un’affermazione piena ed entusiasmante. Immaginiamo di essere in territorio straniero, molto lontani da casa. E di dover soddisfare alcune nostre esigenze primarie: mangiare, trovare un albergo non troppo costoso in cui dormire, riuscire a ‘rimorchiare’ una ragazza del luogo per andare a ballare e divertirsi un po’. Se non si può comunicare con le parole, perché proprio non si riesce a razionalizzare, in pochi giorni, l’idioma linguistico che si parla in quella parte del mondo, siamo costretti a ‘dimenarci’ come dei ‘mimi’, a gesticolare come dei pagliacci da circo, a inventarci delle smorfie. Insomma, a tentare di farci comprendere nei modi più fantasiosi o inimmaginabili. Ecco perché il calcio è un sistema di ‘segni’: in ogni obiettivo, piccolo o grande, individuale o collettivo che sia, bisogna trovare il modo per ottenere quel che si vuole. Per esempio, impedire a un attaccante avversario di superarci nella corsa o nel dribbling; impostare una manovra d’attacco non prevista dalla squadra contendente; inventarci poeticamente una maniera innovativa per trovare la via della ‘rete’. Dunque, i ‘segni’ attraverso i quali si può raggiungere una vittoria, nel calcio sono molteplici, di svariato genere e tipo”.

Urbanistica

“Il vecchio sentiero che sale verso la città di Orte non è niente: un vecchio selciato, abbandonato da secoli, che non si può nemmeno confrontare con certe grandi opere d’autore della tradizione artistica italiana. Eppure, io penso che quella stradina così umile debba esser difesa dal modernismo più aberrante con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difendono le opere d’arte di un grande autore. Così come dovremmo difendere il patrimonio della poesia popolare anonima, con lo stesso ardore con cui sentiamo di dover difendere la poesia di Petrarca o di Dante. Io ho scelto di difendere proprio questo: la forma di una città nella sua struttura più antica”.

L’urbanistica fascista
“Sabaudia è immersa in una specie di grigia luce lagunare, circondata da una stupenda macchia mediterranea. Per quanti anni abbiamo riso, noi intellettuali, sull’architettura del regime fascista? Eppure oggi, osservando Sabaudia, ci troviamo di fronte a una sensazione assolutamente inaspettata. La sua architettura non ha nulla di irreale o di ridicolo. Il regime fascista non è stato altro che un gruppo di criminali al potere, che tuttavia non ha potuto, in realtà, fare niente. Il fascismo non è riuscito minimamente a incidere o a scalfire, nemmeno lontanamente, la realtà dell’Italia di allora. E Sabaudia, ordinata dal regime secondo criteri urbanistici di carattere razionalistico, estetizzante o puramente accademico, non trova le sue origini nel regime che l’ha ordinata, ma in quella realtà che il fascismo ha cercato di dominare tirannicamente, ma che non è riuscito a scalfire: la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale. Fu quell’Italia a produrre Sabaudia, non il fascismo. Oggi, invece, succede esattamente il contrario: il regime è sicuramente democratico, ma quell’acculturazione, quel processo di omologazione che il fascismo non era riuscito assolutamente a ottenere, il Potere di oggi, cioè quello della società dei consumi, riesce a ottenerlo perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di vivere e di essere uomini che l’Italia aveva prodotto in un modo storicamente differenziato. Il vero fascismo, insomma, è questo Potere della civiltà dei consumi, che sta letteralmente distruggendo l’Italia. E questo fenomeno è accaduto in una maniera talmente rapida, che non ce ne siamo neanche accorti: una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia di un tempo scomparire letteralmente. E oggi, risvegliandoci da quest’incubo, ci rendiamo conto che non c’è più niente da fare…”.





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