Giuseppe SaccoL’opinione pubblica internazionale e la stampa, che in tanta misura la condiziona, sembrano assistere con spirito quasi sportivo al processo a Milosevic, dove la situazione sembra essersi capovolta, con una “rimonta” dell’imputato, che stringe sempre più da vicino la ineffabile signora Del Ponte la quale, ancora qualche settimana fa, credeva di potersi atteggiare a simbolo vivente della giustizia dei popoli.
A noi, invece, ciò che sta accadendo non piace affatto e non perché tifiamo Dal Ponte, ma semplicemente perché ci sembra evidente che, se all’Aja sta accadendo quel che accade, ciò non è dovuto alle inaspettate qualità di oratore e/o di statista dimostrate da Milosevic, ma semplicemente perché, sulla scena politica internazionale, il vento è un po’ cambiato: i Serbi non sono più il “male”, mentre i Turchi (e i loro protetti) sono diventati meno importanti, tanto che gli Albanesi del Kossovo non sono più meritevoli di ottenere l’indipendenza, quelli della Macedonia sono addirittura “criminali antidemocratici”, come ha detto il Segretario della Nato, Robertson, e i Ceceni sono diventati addirittura “terroristi”.
A noi, francamente, non piace la “giustizia politica".
Per questo non ci piacque, alcune settimane fa, l’invettiva pronunciata dal Dottor Borrelli, presentatosi come una specie di reincarnazione dell’anarchico Bresci in toga e tocco, un tirannicida romantico degno della penna di Vittorio Alfieri, o addirittura uno degli eroici insorti del Ghetto di Varsavia.
Di lui ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera: “Non ci piace che un magistrato cerchi di usare la stampa per i suoi fini, scriva libri autobiografici, lasci la carriera per entrare in politica e lasci la politica per tornare in carriera.”
Sarebbe difficile non concordare con Romano, e con la lunga lista da lui redatta delle cose poco belle che ci fa vedere il sistema giudiziario nazionale. C’è solo da notare il pericolo, ormai serio, di queste iperboli retoriche che finiscono per banalizzare e, in definitiva, riabilitare il male, quello vero.
Paragonare la vanità e le velleità frustrate di qualche magistrato – una minoranza, per fortuna – all’estremo e disperato coraggio dei resistenti ebrei al nazismo, sarà pure un’ingenua e patetica furbata del Dottor Borrelli per assimilare il Governo eletto dagli Italiani alla feroce dittatura nazista, ma è in realtà sacrilego e immorale nei confronti delle vittime dell’Olocausto. E dimostra solo l’ignoranza e la rozzezza di chi, mescolando impropriamente giustizia e politica, ricorre a tali meschini mezzi polemici.
Su giustizia e politica, sul delicato equilibrio che tra esse deve esistere in una società libera, c’è oggi in Italia un vivace dibattito, una ricerca di modelli, soprattutto all’estero, persino nei paesi da cui c’è meno da apprendere.
E, in ciò, appare del tutto paradossale che un gruppo di Deputati – come fa la Giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio, presieduta dal diessino Vincenzo Siniscalchi - vada in giro a spese del contribuente per vedere da vicino il “modello spagnolo”.
La Spagna gode, nel nostro paese, di una popolarità non sempre meritata. Per quel che riguarda specificamente la giustizia, basta pensare al caso del giudice Garzon, che si guarda bene dall’andare a rovistare negli armadi del franchismo, a cerca di scheletri, ma monta in cattedra sparando ai quattro angoli del globo terracqueo accuse caratterizzate solo dal grande rimbombo mediatico.
Che cos’è infatti l’ineffabile Garzon se non un prete mancato e un ex-sottosegretario socialista, riconvertitosi a inquisitore del politically correct, se non uno che – per riprendere la formula di Sergio Romano – alternativamente lascia la carriera per entrare in politica e lascia la politica per tornare in carriera?
L’imbarbarimento della Giustizia, ridotta a strumento politico, è purtroppo un male contagioso. L’esempio spagnolo sembra, infatti, già essersi esteso al Belgio, i cui tribunali si arrogano il privilegio di emettere sentenze non solo sui sudditi di quella monarchia, ma anche sui cittadini di Repubbliche indipendenti, persino per presunti reati commessi fuori dal Belgio e senza implicazione di sudditi belgi.
C’è da chiedersi se un tale contagio – nonostante le esistenti garanzie di legge – non rischi di estendersi anche all’Italia. Un giudice di forti sentimenti nazionali potrebbe infatti esser tentato di fare un uso politico-diplomatico della giustizia e andare sollevare il caso di >b>Melissa Russo. Figlia di emigrati, la piccola Melissa potrebbe infatti, secondo la legge della Repubblica, rivendicare il diritto alla cittadinanza italiana.
Potrebbe. Se non fosse morta – a otto anni – di violenze sessuali, di torture e di fame in Belgio, nello scantinato di un pedofilo, a causa della malavoglia e della scarsa solerzia con cui la polizia del Royaume ne ha perquisito la casa.
Seguendo l’esempio di Garzon, e con molte più fondate ragioni, un giudice italiano potrebbe aprire un’inchiesta. E così chiarire una volta per tutte come mai, a sei anni di distanza dall’assassinio della povera Melissa, il presunto colpevole non è stato ancora portato in giudizio e che cosa c’è di falso nelle accuse di complicità con giri pedofili e di giochi di puro stile nazista, rivolte da due giornalisti belgi – che vivono in Lussemburgo – a una parte dell’establishment del loro paese, sino a sfiorare la famiglia reale.

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