Vittorio LussanaKarol Wojtyla è stato un grande Pontefice, di profondissima umanità. Personalmente, non ho mai ritenuto probabile, nell’occidente secolarizzato, l’avvento di nuove ‘ondate’ di spiritualità, anche se ben distinte rispetto ad un passato storico nei confronti del quale proprio Papa Giovanni Paolo II, per quel che riguarda la Chiesa di Roma, ha avuto il coraggio di chiedere solennemente perdono. Tuttavia, credo sia giunto il momento, per il fronte laico della politica italiana, di porsi il problema di un effettivo confronto con la nuova geografia religiosa del Paese, al fine di rapportarla con il nostro genere di ‘religiosità culturale’, quella del dubbio, della riflessione, dell’onestà intellettuale. Ciò rappresenterebbe terreno valoriale assai adatto per perseguire un dialogo tra modernità e senso del sacro, poiché la laicità non è affatto sinonimo di ateismo, né di agnosticismo. Al contrario, essa concepisce una mediazione razionale che può comprendere la fede in Dio all’interno della sfera privata del singolo individuo, nel pieno rispetto delle altrui credenze. Anche un laico può dunque avere una fede, una convinzione profonda in grado di far nascere un linguaggio di reciproca comprensione con le distinte filosofie morali.
A pochi mesi dalla scomparsa di Karol Wojtyla, la necessità politica di un rilancio della questione di una più moderna normativa sulla libertà di culto nel nostro Paese mi appare, insomma, indicazione politica quanto mai necessaria o, quanto meno, opportuna. I ventisei anni del suo pontificato sono riusciti, infatti, a far mutare profondamente l’atteggiamento dei laici nei confronti della Chiesa cattolica. Il Concilio Vaticano II aveva posto delle ‘fondamenta di principio’ che, tuttavia, mantenevano forti ambiguità. Ma, proprio il Pontefice che dolorosamente ci ha lasciato, è riuscito a risolvere alcune contraddizioni che hanno costretto molti autorevoli esponenti dell’intellettualità laica ad abbandonare una concezione della libertà come mera difesa dell’autonomia individuale. Grazie alla riflessione di Wojtyla abbiamo dunque scoperto di non poter considerare il problema dei diritti di libertà come una sorta di ‘fuga all’indietro’ o come pura forma di contestazione protestataria: se si è convinti delle proprie ragioni, se si ha, in un certo senso, fede in esse, non c’è nessun motivo logico per autosegregare se stessi in una funzione di esclusiva critica difensiva. Anche i laici possono “aprire le porte a Cristo” e farlo entrare a pieno titolo nelle proprie argomentazioni e riflessioni.
Questo papa polacco, questo amico del dolore, ha spiegato al mondo intero che la questione del rapporto tra Bene e Male non è più trattabile, in una società secolarizzata, mediante gli strumenti integralisti di chi vive un sentimento di religiosità come una forma di ossessione mistica: al contrario, fondamento reale di ogni credo diviene, oggi, la presa di coscienza, la comprensione profonda della necessità di una semplice, autentica, umile apertura dei nostri cuori verso il prossimo. La religione può dunque esser vissuta ‘laicamente’ in quanto dolore che si trasforma in gioia consolatrice e non come ‘senso di colpa’ che si estrinseca in un’ansia reazionaria nei confronti del ‘peccato’, poiché una simile ‘razionalità cristiana’ ci permette di distinguere la nostra capacità di accettazione e di analisi del mistero rispetto al puro misticismo della superstizione atavica: questa è stata, a mio parere, la grandezza di Karol Wojtyla.


Articolo tratto dal quotidiano "L'Opinione delle Libertà" del 9 aprile 2005
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