Michele Di MuroE’ notizia di questi giorni, come riportato nella relazione consegnata in parlamento, che secondo i servizi segreti italiani vi sia il rischio di un aumento degli episodi d’intolleranza nei confronti degli stranieri, in vista delle prossime elezioni europee. In questo periodo storico, assistiamo pressoché impotenti al riemergere di atteggiamenti discriminatori e razzisti, che in molti, illudendosi, credevano ormai scomparsi. La realtà ci sta insegnando, invece, che il pregiudizio legato al colore della pelle si era solo ‘assopito’. Fino a qualche anno fa, tali sentimenti erano solamente celati dietro la maschera del ‘perbenismo’. Magari si era intimamente razzisti, ma per vergogna non ci si azzardava a manifestarlo apertamente. Con la crescita delle istanze populiste e, soprattutto, sovraniste nell’ambito della politica internazionale, si sono venute a creare le condizioni ideali per il rinfocolarsi dell’odio razziale. Certo, i leader non si dichiarano apertamente, ma una linea politica votata alla chiusura dei confini o dei porti, nel caso dell’Italia, conduce all’inevitabile conseguente accrescimento dell’isteria collettiva basata su un fondamento tutto da dimostrare: il diverso e lo straniero sono un pericolo. E’ questa una politica dei consensi che fa leva sull’ignoranza e contraddice i valori che sono stati alla base della formazione culturale della generazione di chi scrive. Ci sembra, così, che venga a tramontare il sogno di un’Europa libera, senza barriere e confini, in cui gli scambi e la libera circolazione delle idee fossero portatori di crescita e di arricchimento culturale. La guerra in Siria, i delicati equilibri in Medio Oriente, la Brexit e il muro tra Stati Uniti e Messico non sono che alcuni esempi di una situazione complessiva che rende manifesto il declino del mito di un mondo globalizzato. In tale contesto, la cultura sembra essere una dei pochi strumenti a disposizione per contrastare il sempre maggiore pericolo della deriva razzista. Per questo motivo, acquista un ancora maggiore significato simbolico l’Oscar assegnato, qualche giorno fa, a ‘Green Book’: il film, diretto da Peter Farrely, che racconta la vera storia di un’amicizia nata negli anni ’60 del secolo scorso in America tra il ‘buttafuori’ italoamericano Tony Lip (interpretato da Viggo Mortensen) e il pianista classico afroamericano Don Shirley (magistralmente impersonato sul grande schermo da Mahershala Ali, il quale, con questa interpretazione, ha ottenuto la sua seconda statuetta, dopo quella ricevuta per il film Moonlight). I due protagonisti sono il prodotto di ambienti culturali lontanissimi e hanno personalità diverse: il primo è sboccato, ignorante, iracondo; il secondo, viceversa, è raffinato, colto, talentuoso. Entrambi sono, loro malgrado, vittime di pregiudizi. Don Shirley è un pianista classico che, da ‘enfant prodige’, ha ricevuto una formazione in Russia. Il suo è un talento universalmente riconosciuto: gira il mondo, è ricco, ma in fondo rimane un emarginato sociale, poiché non appartiene pienamente a nessun contesto, né a quello di provenienza, né tantomeno all’ambiente della comunità bianca per la quale si esibisce. Tony Lip, dal canto suo, è bloccato nell’atteggiamento stereotipato dell’italoamericano: vive entro i confini della comunità di appartenenza ed è costretto ad arrangiarsi per poter mantenere la propria famiglia. Un tour negli Stati del sud fornisce ai due protagonisti l’occasione per conoscersi, superare i pregiudizi ed elevarsi culturalmente a un grado superiore (Green Book, il titolo della pellicola, si riferisce alla ‘guida verde’ su cui erano segnalati, sul territorio americano, alberghi e ristoranti nei quali erano accettate le persone di colore). Un ‘road movie’ delicato, spassoso, toccante ed estremamente attuale. Non è difficile rapportare le vicende di discriminazione di cui è vittima Don Shirley a quanto leggiamo e assistiamo nella vita contemporanea, nonostante i tanti passi fatti avanti nel segno dell’integrazione. La regia, l’interpretazione, i costumi e le musiche fanno di 'Green Book' un film memorabile, la cui profondità è controbilanciata da un coinvolgente umorismo, che ne accentua la fruibilità. L’opera cinematografica è profondamente radicata nel contesto socio-politico e culturale americano, sia in relazione al tempo in cui si svolge la vicenda, sia nel contesto contemporaneo del dibattito sulle questioni razziali. Ma essa racconta una storia universale. L’amicizia e lo sforzo compiuto nel reciproco accostamento sono elementi che conducono (i protagonisti e il pubblico) alla comprensione della futilità e della stupidità dei pregiudizi attorno alla razza e al colore della pelle. Questioni che dovremmo aver già superato da tempo, ma che sono ancora qui a perseguitarci.


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